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Editoriali NBA

A NBA Carol, Terzo Quarto: Il Playmaker Del Basket Presente

I rintocchi di campana che scandiscono lo scoccare delle ore sono di norma percepibili da casa Chandler; Paul, da bambino, sussultava ogni volta udendo quel suono, ma gli anni sono passati e ormai ha fatto l’abitudine a quel battito incessante, al punto tale da non distinguerlo nemmeno più dai rumori della quotidianità cittadina. Ma, in questa notte in cui tutto è diverso dall’ordinario, lo scorrere del tempo è annunciato dall’eco di una sirena che risuona perentoria, sostituendo i canonici tre tocchi. Il ragazzo si sveglia sussultando; subito realizza che lo squillo udito è quello che preannuncia l’inizio di una partita di pallacanestro; il giovane si trova infatti immediatamente catapultato nel centro di un campo da basket. Lo scenario è stranamente familiare; non è un rettangolo di gioco qualunque, è lo Staples Center, il suo Staples Center, il palazzetto in cui abitualmente si reca a vedere le partite casalinghe dei Lakers che tanto ama. Gli spalti sono completamente gremiti ed il pubblico, festante, intona all’unisono un coro: “Let’s go LA”. Il ragazzo abbassa la testa e nota sotto i suoi piedi la scritta “NBA Finals”; una volta rialzato il capo, si rende conto che un giocatore è davanti a lui e lo sta fissando. Il colore della pelle è olivastro, la testa completamente pelata, il numero uno color rosso sulla divisa blu, la scritta Pistons. Paul deglutisce, sa benissimo chi ha di fronte, conosce quel volto e purtroppo ha capito che partita sta per vedere. Otto anni e mezzo prima era nello stesso luogo, per assistere alla stessa gara. L’occhio del ragazzo fugge ancora una volta sulle gradinate, cercando di avvistare se stesso, ma il posto a sedere da lui occupato all’epoca è l’unico vuoto in tutto il palazzo. Incredulo, torna a fissare l’uomo che risponde con uno sguardo complice; in quel preciso momento, le tenebre avvolgono lo Staples Center e lo speaker prende la parola: “Benvenuti a gara 1 delle finali NBA 2004, in campo i Detroit Pistons e i nostri Los Angeles Lakers”.

La formazione ospite è proclamata* mestamente, accompagnata da una musica funerea e dai sonori fischi degli spettatori. “ Con il numero 1 Billups, con il 32 Hamilton, con il 22 Prince, con il 30 Rasheed Wallace, con il 3 Ben Wallace, allenatore Larry Brown”. L’accoglienza per i padroni di casa è ben altra cosa: sui mega schermi vengono proiettate immagini dei successi recenti e passati dei Lakers. La lettura enfatica di ogni singolo nome è fatta come da prassi da Lawrence Tanter; la sua voce baritonale è accompagnata da un boato da parte del pubblico che, alla declamazione dei propri giocatori, impazzisce letteralmente. Payton, Bryant, George, Malone, O’Neal, questo è il temibile quintetto guidato dal pluridecorato e venerabile maestro zen, Phil Jackson. Questa finale sembra solo una passerella per la squadra di LA che ha dominato i Playoff, senza alcuna difficoltà, ed ora si trova ad affrontare un roster su cui mai nessuno avrebbe scommesso nemmeno un dollaro. Gli spettatori sembrano consapevoli della superiorità dei loro beniamini e sugli spalti si respira già aria di festa ma, come Paul ben sa, le cose andranno diversamente.

Le luci si riaccendono e, mentre in mezzo al campo vengono celebrati Kareem Abdul-Jabbar e Magic Johnson, Chauncey Billups si dirige verso Paul e, prendendolo sotto braccio, lo accompagna a prendere posto sulla panchina ospite. Il giovane si accomoda, seppur visibilmente contrariato e stizzito; nel frattempo gli arbitri si accingono ad alzare la palla a due, decretando l’inizio dell’incontro. Il commento tecnico dell’ABC è affidato ad un certo Doc Rivers che, qualche mese dopo, avrebbe iniziato ad allenare i Boston Celtics. La contesa è vinta dai Pistons a causa di un’infrazione di Shaq sul salto iniziale, che permette alla squadra ospite di gestire la prima azione del match. Fin dal principio, Billups mette in luce le sue grandissime doti di passatore, scaricando perfettamente un pallone per Sheed che, da dietro l’arco, non sbaglia. Il play in maglia blu arringa i suoi per tutto il primo quarto, orchestrando con sapienza il ritmo di gioco e segnando con continuità tiri dalla media distanza, grazie alla sua innata capacità di costruirsi conclusioni dal palleggio senza bisogno di troppi blocchi. Alla prima sirena, i punti a referto per lui sono già 8, su 22 complessivi di squadra. Il particolare che realmente stupisce Paul è la calma platonica con cui gioca il numero uno di Detroit; la prima volta che vide quella partita era troppo impegnato ad incitare i suoi Lakers per fare caso a questo dettaglio. Chauncey ha tutto sotto controllo, difensivamente riesce ad annullare Payton e, nella metà campo offensiva, non soffre la ben nota pressione dello stesso “Glove”. I compagni di squadra percepiscono la sua sicurezza e di conseguenza la loro prestazione risulta rilassata, pur mantenendo una straordinaria aggressività. Quando ha la palla tra le mani, non sbaglia una singola scelta; non si esime mai dall’assumersi responsabilità, non rifiuta tiri. Dopotutto è una macchina: non a caso, il suo soprannome è “Mr Big Shot”. Inoltre, non forza mai conclusioni in modo affrettato, sconnesso o fuori dal sistema di gioco. È un giocatore affidabile, sempre lucido, che sa esattamente cosa fare con quella sfera.

La gara prosegue fino all’intervallo in un sostanziale equilibrio, tuttavia la vera svolta arriva nel terzo quarto. Billups decide che è tempo di chiudere la partita e, grazie alla sua fisicità, appoggia due comodi punti al ferro; poi, innescato da un ottimo assist di Prince, manda a bersaglio la seconda tripla della sua serata. Nell’azione seguente è lui stesso a servire Ben Wallace, che va a referto con un piazzato dalla media, non esattamente la specialità della casa. In un attimo, i Lakers si trovano sotto di 8 lunghezze; dopo un fugace tentativo di rimonta, è ancora il playmaker di Detroit a mettere le cose in chiaro, segnando due liberi e andando poi nuovamente a segnando in terzo tempo un’agile conclusione. E’ notte fonda in casa LAL. Il vantaggio accumulato in questo quarto dagli ospiti si amplierà sensibilmente a fine gara. 87-75 per i Pistons. Per squadra di casa risultano inutili gli sforzi di Kobe e Shaq che, da soli, segnano 59 punti. È un tripudio Motown.

I numeri di Billups sono buoni: 22 punti con un più che dignitoso 8 su 14 dal campo e un 2 su 4 dalla lunga, che comunque non rendono completamente merito alla straordinaria gara giocata dal nativo di Denver. Le sole 4 assistenze riportate sul tabellino a fine partita appaiono irrisorie se rapportate alla qualità di gioco espressa;  la partita è stata sua, come lo sarà tutta la serie, al termine della quale verrà giustamente premiato con il titolo di MVP delle Finals.

Paul ha osservato attentamente la prestazione del numero uno dei Pistons e non ha potuto fare a meno di notare le differenze e le analogie con Bob Cousy: entrambi i giocatori risultano dei leader carismatici in campo e ambo trattano la palla in maniera superba. A diversificarli, tuttavia, sono le scelte e il dissonante stile di gioco. L’elegante play dei Celtics prediligeva, infatti, il passaggio ad effetto per i compagni e attaccava il ferro evitando i contatti; Billups, al contrario, usa la sua fisicità per puntare il diretto avversario. Possiede inoltre una maggiore capacità nel costruirsi tiri, con un’eccezione: al tempo di Cousy non esisteva ancora la linea da tre punti, quindi non risultavano necessarie eccellenti doti balistiche. Difensivamente, la stazza del play di Detroit gli permette di dare filo da torcere ai rivali; di contro, il numero 14 bianco verde non esprimeva la stessa intensità in entrambe le metà campo, concentrandosi maggiormente sulla parte offensiva.

Paul capisce che i tempi sono cambiati e di conseguenza anche l’interpretazione del ruolo: il contatto è sempre più parte integrante del gioco e la classe può non bastare per compensare scarsezze fisiche.

Le riflessioni di Paul sono interrotte da un colpo di tosse dello stesso Chauncey che, già da qualche minuto, era dinanzi al ragazzo, il quale era troppo assorto nei propri pensieri per notarlo. Il giovane,imbarazzato, abbassa lo sguardo ma, questa volta, non trova più il parquet con la scritta “NBA Finals” bensì la moquette del suo appartamento. Rialzando la testa si rende conto di essere ancora una volta nella propria camera da letto, solo. Niente pubblico, nessun giocatore, il nulla. Il silenzio avvolge la stanza, interrotto unicamente dal rumore di qualche auto che transita ancora per strada nonostante la tarda ora. Paul non riesce a comprendere lo stato d’animo che lo pervade e ancora non è in grado di stabilire con certezza quanto siano reali o fittizie le visioni che hanno accompagnato fino ad ora questa lunga nottata. Una cosa però è assodata: vere o finte che siano, queste apparizioni sono un enorme aiuto per capire particolari del gioco che fino ad oggi non gli erano poi così chiari.

Solito fugace sguardo all’orologio, che questa volta segna perentorio le 3.43. Stando alle parole di Paul Pierce, manca ancora uno spirito all’appello; i dissidi interiori possono attendere. Il ragazzo si corica per l’ennesima volta nel suo letto e chiude gli occhi, ansioso di scoprire cosa ancora lo attende.

 

Un ringraziamento a Lorenzo Natoli di Studio&Comunicazione per l’immagine copertina.

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