Bill Russell è sempre stato capace di sovvertire i pronostici e di riuscire a completare con successo ogni sfida proposta dal destino. Sin dai tempi di San Francisco il numero 6 ha demolito dubbi ed avversari, mettendo a tacere ogni perplessità sulla riuscita del proprio cammino. Per questo motivo, dopo la sconfitta alla prima stagione da head coach dei Celtics, il desiderio della stella di Boston era di tornare a giocare quanto prima.
I bianco-verdi erano una squadra che appariva sul viale del tramonto. Normale, considerando che era passato ormai un decennio dalla prima apparizione alle Finali, con diversi giocatori che si erano ritirati a causa di età e logorio. Lo stesso Bill, superata la trentina già da un pezzo, mostrava qualche timido segnale di declino, pur continuando a controllare implacabilmente i tabelloni. I Sixers, galvanizzati dal successo nell’annata 66-67, speravano di poter prendere il testimone dalle mani dei Celtics ed instaurare una dinastia fondata sulle possenti braccia di Wilt Chamberlain.
Philadelphia chiuse col miglior record nella stagione 1967-68, garantendosi il vantaggio del fattore campo nella postseason. Ancora una volta, in Finale ad Est, i due grandi rivali si trovarono opposti per l’ennesimo confronto ad altissimo livello. Boston vinse gara-1, in un ambiente shockato dalla notizia del”assassinio di Martin Luther King. I 76ers reagirono, vincendo le successive 3 partite e garantendosi un vantaggio che appariva incolmabile. Incredibilmente, il vento girò. Aggrappandosi alla forza di volontà del proprio leader, i Celtics con le unghie e con i denti rimandarono l’esito a gara-7, da giocare in Pennsylvania. Russell fu grandissimo nel contenere Chamberlain, che si limitò ad appena due tiri in tutto il secondo tempo della “bella”. Boston riuscì a conservare un vantaggio minimo, diventando la prima squadra di sempre a ribaltare un 1-3 nei Playoffs, gettando nello sconforto giocatori e tifosi di Philadelphia. Nelle Finali, in una sorta di giorno della marmotta, ecco i soliti Los Angeles Lakers di West e Baylor a fare da comprimari negli assoli dei Celtics. Dopo una memorabile battaglia in gara-5, i bianco-verdi chiusero la serie nel successivo incontro, vincendo il decimo anello NBA in assoluto e consegnando, di fatto, il primo da allenatore a Bill Russell. Anche i dubbi su quest’ultimo aspetto erano stati spazzati via, per sempre.
L’annata 1968-69 fu quella della “Last Dance”, per usare un termine tanto caro a Phil Jackson. Boston era sfinita da così tante corse al titolo e sembrava avere vuoto anche il serbatoio delle motivazioni. Lo stesso Russell appariva diverso dal solito, più acciaccato e meno affamato rispetto ai consueti, altissimi standard; lo stesso, fu capace di conquistare 19,3 rimbalzi ad incontro. I Celtics chiusero col peggior record da quando il numero 6 era tra le loro fila, potendo vantare solo il quarto seed ad Est. Ancora una volta, tra lo stupore generale, nei Playoffs la squadra si trasformò, superando di slancio le proprie avversarie e garantendosi un alquanto improbabile viaggio alle Finals contro i Lakers. Los Angeles, da quell’anno, annoverava tra le proprie fila Wilt, acquisito in estate dai 76ers. Il pronostico sembrava davvero a senso unico, a maggior ragione dopo il doppio vantaggio dei californiani nelle prime due gare. Un buzzer beater di Sam Jones consentì a Boston di far venire qualche dubbio in più agli avversari, permettendo alla propria squadra di rimanere viva. Per l’ennesima volta si giunse sino a gara-7, da giocare in quel di LA. Il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, fece distribuire, nel pre-partita, un volantino con scritto il programma che si sarebbe tenuto dopo la premiazione della propria squadra, facendo appendere dei palloncini al soffitto del palazzetto. Per Russell e compagni si trattava della suprema motivazione, un invito a battersi ancor di più alla morte contro tutto e tutti. I Celtics partirono a razzo, ma Los Angeles, guidata da un mostruoso Jerry West, lentamente recuperò. Nel quarto periodo Chamberlain fu costretto ad uscire per un problema al ginocchio e quando chiese al proprio allenatore di rientrare, si vide opposto un secco no. Don Nelson infilò il tiro più importante, che consegnò a Bill ed a Boston l’undicesimo anello in tredici anni. In più Russell chiudeva una carriera leggendaria con un record altrettanto difficile da dimenticare: dieci gare-7 in carriera ed altrettante vittorie.
Nel post-partita Bill era quasi incredulo, stava iniziando a realizzare cosa aveva significato quella splendida e quasi immacolata cavalcata. Aveva stoppato una cifra quasi folle di tiri avversari, catturato oltre 21mila rimbalzi ed inciso, per sempre, il proprio nome nel pantheon di questo sport, alzando in maniera quasi irraggiungibile l’asticella della definizione del termine “vincente”. Tuttavia, quasi in silenzio e suscitando molte polemiche, Russell si ritirò e dimise da allenatore, senza preavviso o conferenze stampa in tal senso. Senza il proprio faro, Boston l’anno dopo fallì l’accesso ai Playoffs.
Negli anni che seguirono l’uscita di scena di Bill dai parquet della Lega, si inasprirono i rapporti tra l’ex numero 6, la stampa ed i tifosi Celtics. Russell non volle presenziare né alla cerimonia di ritiro della propria maglia, né a quella dell’introduzione nella Hall of Fame. Non riusciva a farseli andare a genio, colpa anche degli strascichi e controversie razziste che lo accompagnarono per tutta la carriera. Anche con Chamberlain ci furono momenti di tensione. Bill ci era rimasto male per quell’uscita dal campo nella Finale del’69, voleva sul parquet il giusto epilogo di quella sfida che aveva contribuito a salvare la NBA. I due non si parlarono per anni anche se, a discolpa di Wilt, c’è da evidenziare come il centro dei Lakers saltò gran parte della stagione successiva proprio per un serio infortunio a quel ginocchio. Tuttavia, col passare degli anni, venne a galla la verità sull’effettivo rapporto tra i due. Quella che sembrava essere una rivalità all’ultimo sangue in realtà era una grandissima amicizia, alimentata da tante cene e telefonate tra i due, che sarebbe terminata solo con la morte di Chamberlain nel 1999, quando Bill fu la seconda persona ad essere informata della scomparsa di quella importantissima presenza nella propria vita. Era stato Wilt a spingerlo sempre verso il massimo, a tirare fuori il meglio di sé stesso gara dopo gara, serie dopo serie, anno dopo anno. Pazienza se il numero 13 non aveva la cattiveria agonistica del suo alter ego in maglia Celtics; ne avesse avuta anche solo la metà, probabilmente l’albo d’oro sarebbe stato riscritto per intero. Ma è stata proprio la presenza di Chamberlain a creare e consolidare l’epoca leggendaria di Russell e dei Celtics plurivincitori.
Negli anni successivi al ritiro, Bill si cimentò ancora col mestiere del capo-allenatore. Lo stint più importante fu con i Seattle Supersonics, dal ’73 al ’77, guidati ai primi Playoffs della propria storia. Meno memorabile l’esperienza con i Sacramento Kings nella stagione 87-88, ma, in generale, Russell mostrò una certa sofferenza in tali vesti. Non poteva sopportare o tollerare certi atteggiamenti dei propri giocatori, non dediti ad ogni sacrificio verso la vittoria finale. Spesso lasciava dirigere gli allenamenti ai propri assistenti, leggendosi un giornale sugli spalti. Anche da commentatore tecnico in televisione non ebbe fortuna, poco adatto ai ritmi veloci imposti dalle telecronache. Unita alla diffidenza verso media e tifosi di cui abbiamo parlato prima, Bill scomparì per un pezzo dai radar NBA. Non certo la fine gloriosa per una leggenda vivente.
All’inizio del nuovo millennio, l’immagine di Bill Russell è stata completamente rilanciata, frutto anche dell’intermediazione di David Stern, amico personale del grande centro dei Celtics. La riconciliazione con i media, i tifosi della sua squadra del cuore e, più in generale, con tutto l’ambiente NBA, venne da lì a poco. Dapprima venne eletto, in maniera del tutto scontata, tra i 50 migliori giocatori della storia, ricevendo un caloroso saluto dalla folla che assisteva all’All Star Game di Cleveland. Poi, ben più importante, il 6 Maggio 1999 Boston riorganizzò una cerimonia per il ritiro della maglia del giocatore. Questa volta Bill era presente, si commosse tantissimo per l’ovazione e l’affetto dimostrato dai tifosi, sancendo di fatto la pace con quella città a cui resterà per sempre legato. Di recente, inoltre, è stata realizzata una statua raffigurante Russell in azione ed esposta in una piazza della città del Massachusetts.
L’NBA non si è certo fermata qui, facendo di Russell un apprezzato ambasciatore dell’intera organizzazione, una presenza costante nei grandi appuntamenti, anche internazionali. Dal 2009, inoltre, il premio di MVP delle Finals è stato rinominato proprio “Bill Russell NBA Finals Most Valuable Player Award”, l’ennesimo attestato di stima nei confronti del giocatore più titolato nella storia della Lega. Nel 2010, a testimonianza del peso specifico nello sviluppo del paese, il Presidente Barack Obama ha insignito Bill della Presidential Medal of Freedom.
Oggi, 12 Febbraio, Russell compie 80 anni, quasi tutti dedicati interamente alla pallacanestro. Di acqua sotto i ponti ne ha vista, letteralmente, passare molta, ivi compresa la rivalutazione della propria immagine pubblica. Le grandi star della nostra generazione, ma anche quelle dell’epoca immediatamente precedente, hanno mostrato grandissimo rispetto verso quest’uomo, emblema tanto della NBA quanto, soprattutto, del riscatto sociale della comunità afro-americana, di cui divenne uno dei primi simboli e uomini chiave. Ordinaria amministrazione, per colui che ha ridefinito, probabilmente per sempre, il concetto di “vincente” applicato alla pallacanestro.
Alessandro Scuto