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Editoriali NBA

Le più grandi squadre a non aver mai vinto l’anello-New York Knicks (’91-’98)

 

Con questo nuovo speciale appuntamento con i Dossier di NBAReligion, andremo a ripercorrere le gesta e le vicende di tutte quelle grandissime formazioni della storia della Lega che non sono riuscite ad aggiudicarsi il tanto agognato anello, pur restando indelebili nelle menti degli appassionati. Avversari superiori, sconfitte rocambolesche, errori marchiani, infortuni inopinati e tanti altri motivi che non hanno permesso ad alcune franchigie, magari vincitrici di titoli NBA in altre epoche storiche, di compiere l’ultimo passo verso la gloria di questo sport, pur avendo a disposizione un roster di primissimo livello. In questo primo appuntamento ci concentreremo su di una formazione che ha vissuto repentini alti e bassi nella sua storia, e che da troppo tempo manca dal vero élite della Lega. Stiamo parlando dei New York Knicks e della loro arcigna squadra degli Anni Novanta.

I Protagonisti

Con un arco temporale così lungo, è quasi naturale che diverse facce cambiassero col prosieguo delle stagioni. Eppure, come da ogni ottima squadra che si rispetti, ci furono in quei Knicks tanti protagonisti che fecero da colonna portante della formazione della Grande Mela, diventandone il vero e proprio nucleo per svariate annate.
Al primo posto, e non potrebbe essere altrimenti, il guerriero del Garden, quel Patrick Ewing che divenne in breve l’indiscusso centro titolare e presenza fissa in quasi tutte le statistiche di franchigia. Accanto a lui, compagno di mille battaglie in area e prototipo della power forward muscolare, Charles Oakley, piovra cattura rimbalzi e senza peli sulla lingua. Salvatosi per un pelo dal taglio al training camp, grazie ad un provvidenziale infortunio che gli preservò, per ironia della sorte, il posto in squadra, in poco tempo la vulcanica guardia John Starks sarebbe diventato uno dei beniamini del Madison, vivendo momenti di irripetibile tregenda nella sua esperienza ai Knicks. Altro giocatore proveniente dal marciapiede o quasi, Anthony Mason sarebbe diventato il sesto uomo di lusso di New York, vincendo anche l’apposito premio nel 1995. Accanto a loro, magari per meno tempo ma con classe ed importanza pari, tanti altri satelliti che avrebbero orbitato attorno a queste stelle, facendo la fortuna dei Knicks.

Allenatori

Due gli head coach di New York in quel lasso di tempo, se si esclude la turbolenta parentesi Don Nelson durata una sessantina di gare nel ’95-96. Capello ancora impomatato come ai mirabili anni ai Lakers, grinta di sempre, innovazioni ed il solito corollario di vittorie per Pat Riley, che mostrò un notevole trasformismo camaleontico rispetto agli anni di Los Angeles. Dallo Showtime ad una squadra molto più rognosa e tignosa da affrontare, con un ritmo molto basso (Knicks sempre tra gli ultimi per Pace Factor in quelle stagioni), con una difesa dura a uomo, faccia a faccia, con tanti contatti, botte ed intimidazioni, ed in attacco un sistema Ewing-centrico, con gli altri ad approfittare dei varchi aperti dal pivot di origine giamaicane. Dopo Riley, New York si affidò a Jeff Van Gundy, alla prima esperienza in panchina dopo anni da assistente sempre nella Grande Mela e proprio con Pat. Lavoratore incallito, le borse sotto gli occhi a testimoniare le ore passate davanti ai video per studiare le giuste mosse, JVG avrebbe traghettato la squadra nel Nuovo Millennio, raggiungendo, come vedremo, qualche risultato davvero di spicco.

La Genesi

Come è facile intuire, quei Knicks furono figli diretti del decennio precedente, gli anni Ottanta. Le fondamenta furono costruite nel Draft 1985, uno dei più discussi della storia ed al centro delle solite teorie complottistiche. New York ebbe la fortuna della prima chiamata assoluta, spesa immediatamente per Patrick Ewing, donando così alla squadra la testata d’angolo attorno alla quale costruire. Le prime stagioni furono tutt’altro che esaltanti, con record perdenti ed un roster chiaramente ancora incompleto. Una prima svolta arrivò nella stagione ’87-88, con la nomina a capo-allenatore di Rick Pitino e l’arrivo, sempre dal Draft, di un playmaker di spessore, Mark Jackson, subito vincitore, come Ewing, del titolo di Rookie dell’anno. Nell’annata seguente, il front office effettuò uno scambio che avrebbe fatto discutere, soprattutto nell’Illinois: via il centro di riserva Bill Cartwright, dentro la giovane ala grande Charles Oakley, facendo andare su tutte le furie un certo Michael Jordan, che vedeva nel poderoso Oak la più fedele guardia del corpo. New York vinse 52 partite, miglior risultato dalla squadra che conquistò il titolo del 1973, con un attacco devastante, ma nelle Semifinali di Conference si dovette arrendere ai Chicago Bulls di un vendicativo MJ. Non l’ultima volta che queste due squadre si sarebbero incontrate.
Partito Pitino e nominato Stu Jackson come nuovo allenatore, i risultati rimasero gli stessi. Un memorabile Primo Turno contro i Celtics nel 1990, sotto 0-2 ma capaci di vincere 3 gare in fila, compresa la bella al Boston Garden con la famosa bomba di Ewing, e tanta fatica a migliorarsi ulteriormente. Nonostante l’arrivo di un ancora imberbe Starks nell’estate del ’90, di alcuni veterani a fine carriera (Mo Cheeks e Kiki Vandeweghe su tutti) e la cessione di una giovane point guard di talento, dal comportamento tutt’altro che irreprensibile e che faceva a scopa con Jackson, Rod Strickland, i Knicks stentarono a decollare. Altro cambio di allenatore ed altro sweep subito dai Chicago Bulls nel 1991, al Primo Turno. Qualcosa doveva cambiare.

La nascita di una contender

La nomina di Pat Riley nell’estate del 1991 ad head coach della squadra portò subito ad un notevole cambiamento culturale. Subito tangibili i miglioramenti difensivi (secondi per punti concessi) e di mentalità apportati dal nuovo allenatore, che si avvalse di uno Ewing ormai entrato nel prime della sua carriera. Firmato dalla free agency un ancora sconosciuto Mason, oltre ai nomi già citati altri due giocatori si fecero valere in quei Knicks: Xavier McDaniel e Gerald Wilkins, fratello del ben più quotato Dominique ma soprattutto eversore di un caron demonio in maglia 23 dei Bulls. Per New York subito 50 vittorie scollinate e rivincita contro Chicago nelle Semifinali dell’Est. Fu una serie durissima, in cui Jordan subì tanti colpi proibiti, reminiscenze e copie fedeli dei trattamenti a lui riservati dai Bad Boys pochi anni prima. Le squadre si spartirono la posta in palio nelle prime 4 gare, con scarti ridotti, tantissimi momenti di tensione, risse e provocazioni da parte dei giovani sfidanti. Chicago vinse gara-5, ma non riuscì a sbarazzarsi di New York che, nonostante i problemi fisici di Ewing, grazie all’eroica prova del proprio capitano e ad un Madison Square Garden indiavolato, forzarono la settima partita. All’ultimo atto della serie, dopo le tante parole della vigilia ed un primo tempo equilibrato, nel secondo i Bulls scapparono via, dietro i 42 di Michael e la tripla doppia di Pippen. Si sarebbe trattato solamente di una delle due serie finite a gara-7 nella Dinastia di Chicago.

I Knicks avevano però guadagnato fiducia a dismisura, nonostante la bruciante eliminazione. Si tuffarono a capofitto nella stagione 92-93, vincendo 60 partite, record franchigia eguagliato e mai più superato, con Riley nominato Allenatore dell’Anno. Il tutto, dopo aver effettuato uno scambio di cui si sarebbero presto pentiti: via l’enfant du pais Mark Jackson, spedito ai Clippers per il declinante Doc Rivers e Charles Smith, un nome, quest’ultimo, che forse ancora oggi tormenta i sogni dei tifosi della Grande Mela. Ai Playoffs, superate più o meno di slancio Indiana e Charlotte, ecco la grande rivincita contro i Bulls nelle Eastern Conference Finals 1993. New York sembra essere inarrestabile, si porta rapidamente sul 2-0, vincendo al Madison con un monumentale Ewing e Starks autore di una clamorosa schiacciata sulla testa di Jordan e Grant. Dinastia Chicagoana terminata? Nemmeno per sogno. I bicampioni in carica vincono le due nell’Illinois, con Jordan a stamparne 54 in gara-4. Sul 2-2, va in scena una drammatica gara-5, probabilmente decisiva. Con il cuore dei campioni e Michael in abbondante tripla doppia, i Bulls sono a +1 con 30 secondi da giocare, ma con possesso Knicks. La difesa ospite costringe prima Starks e poi Ewing a doverla scaricare in emergenza. Con 14” sul cronometro la sfera schizza nelle mani proprio di Smith, posizionato sotto canestro. Si tratterà di una delle sequenze difensive più celebri nella storia NBA. Il primo tentativo è frustrato dalla stoppata di Grant ma Smith riesce a controllare la sfera. Sul secondo tentativo di layup arriva la deflection di Jordan ma la palla resta lì. Ancora a tu per tu col ferro Smith cerca di ergersi per il terzo tentativo ma questa volta è Pippen a stopparlo. Incredibilmente, il giocatore dei Knicks ha ancora la quarta opportunità di vittoria ma è nuovamente Scottie a mangiarsi il pallone. Questa volta è Chicago a mantenere il possesso, a vincere la contesa in un Garden sotto shock ed ad aggiudicarsi la decisiva gara-6 in casa, chiudendo così la serie sul 4-2. Ce l’avrebbero mai fatta i Knicks a superare quelle insormontabili Colonne d’Ercole?

 

La Grande Occasione

Una grossa mano alle speranze dei tifosi della Grande Mela arrivò dall’annuncio del ritiro di Jordan dall’attività agonistica. La stagione 1993-94 si presentava così come la più grande occasione collettiva, in seno alla Lega, per impadronirsi della NBA. Il nucleo dei Knicks era rimasto lo stesso, con l’identico sistema ormai portato a livelli di perfezione ed in più l’aggiunta, a metà stagione, di un valido elemento, Derek Harper, playmaker e leader dei Dallas Mavericks. Altra regular season ai vertici per poi immergersi rapidamente in clima Playoffs. Dopo aver controllato il Primo Turno contro i cugini Nets, ecco l’ennesimo appuntamento contro i Bulls, pur orfani di MJ. Nonostante i favori del pronostico, il déjà-vu sembra abbattersi sui Knicks. 2-2, tirato, dopo le prime 4 partite e Chicago sul +1 al Madison in gara-5 con solo 8 secondi sul cronometro e possesso New York. La rimessa è ben disegnata ed il tiratore Hubert Davis si ritrova libero in punta. Pippen esce in ritardo e commette un inopinato fallo, che consegna a New York due liberi cruciali. I Knicks sopravvivono e riescono poi ad imporsi per 4-3 dopo un’altra tirata gara-7, riuscendo finalmente a sbarazzarsi dei tanto odiati rivali. Alle Finali di Conference ecco gli Indiana Pacers di Reggie Miller, un nome che presto sarebbe diventato un vero e proprio spauracchio nella Grande Mela, come e più di Jordan, Godzilla e King Kong messi assieme. Altra serie equilibrata per gli uomini di Pat Riley, con l’ennesima gara-5 davanti al proprio pubblico ed in situazione di 2-2. New York era comodamente in vantaggio all’inizio dell’ultimo quarto, ma fu in quel momento che il ciclone si abbatté su Ewing e compagni. Con 25 incredibili punti nel quarto finale (39 in totale), Miller realizzò una delle più incredibili prestazioni della storia della postseason NBA, con tanto di dediche personalizzate a Spike Lee in prima fila. I Pacers erano ad una gara dalla prima Finale della loro storia, i Knicks ad un passo dal baratro. Con una grandissima prestazione riuscirono ad espugnare Indianapolis, riportando il tutto alla decisiva gara-7 al Madison. La partita fu, come facile prevedere, avvincente ed equilibrata. A pochi secondi dal termine, con i padroni di casa sotto di un punto, Starks tentò l’entrata, venne murato ma sul rimbalzo si avventò Ewing per il tap-in schiacciato della sostanziale vittoria. Patrick, uomo di poche parole e mai troppo espansivo, quella volta si lasciò andare, venendo sommerso dal ruggito inconfondibile del Garden. La sua prestazione da 20+20 e quella schiacciata avevano infatti permesso, dopo 24 anni di astinenza, ai New York Knicks di tornare alle Finals e provare ad inseguire un sogno.

All’atto conclusivo della stagione, ad attenderli, gli Houston Rockets, capitanati da Hakeem Olajuwon. Le due squadre si assomigliavano parecchio: stesso stile, stessa enfasi sulla fase difensiva, due centri (di origine extra-americana tra l’altro) a dominare in mezzo, una power forward dedita a rimbalzi ed intimidazioni (Oakley vs Otis Thorpe), un’ala piccola longilinea (Smith vs Robert Horry), un esterno estroso (Starks vs Vernon Maxwell) ed un playmaker carismatico ed in grado di improvvise esplosioni realizzative (Harper vs Kenny Smith). Dalla panca, con Mason, New York aveva qualcosa in più, ma l’equilibrio era inevitabile.

Gara-1 ai Rockets, più freschi dati i più giorni di riposo, ma Knicks capaci di espugnare il Summit nel seguente incontro con un attacco bilanciato. Il vantaggio del fattore campo fu però presto perso: nella terza partita, sul fil di lana fu Houston a prevalere, grazie ad alcuni bombe cruciali negli ultimi minuti di un rookie di nome Sam Cassell. Riley però non fece perder d’animo i suoi, spronandoli a dar tutto e a ribaltare l’esito. In gara-4 ed in gara-5, infatti, sempre con punteggi tirati ed incontri decisi nel quarto quarto, New York fu in grado di domare i rivali Texani, portandosi sul 3-2 e ad una vittoria dal terzo titolo di franchigia. Di ritorno a Houston, i Knicks dovevano fare l’ultimo sforzo e tornare sul tetto del mondo. Tra i più continui nella serie, con diverse prestazioni balistiche importanti, John Starks era diventato un elemento imprescindibile per Riley, punendo varie volte la difesa Texana. Stava sognando ad occhi aperti, pensando a quando stava per essere tagliato ma si era salvato in calcio d’angolo. Non poteva immaginarsi che il suo soggiorno a Houston lo avrebbe perseguitato per il resto della carriera.
Eppure Starks, in gara-6, giocò una partita mostruosa, che forse lo avrebbe catapultato verso un’incredibile trofeo di MVP, con 27 punti e 5 bombe a referto. I Knicks erano sotto di due punti ma col possesso per vincere il titolo. John si elevò per cercare la sesta tripla, quella più importante della sua vita. Olajuwon, il miglior stoppatore della storia NBA cifre alla mano, riuscì a metterci un dito, quanto bastava per stoppare il tiro avversario e regalare ai suoi il pareggio sul 3-3. Per Starks, che non poteva ancora saperlo, il Destino aveva in serbo un’altra brutta sorpresa.

Gara-7 di Finale NBA, quella che tutti sognano e che vorrebbero sempre giocare. Come una “bella” che si rispetti, ci fu tanta tensione, giochi rotti, errori e mancanza di vero e proprio spettacolo, con nervi a fior di pelle e la paura di perdere a farla da padrona. Nessuna delle due squadre riuscì mai effettivamente a prendere il controllo, ma i Rockets avevano dalla propria il vantaggio del fattore campo e l’inerzia della vittoria precedente. Nei finali di quarto, inoltre, i padroni di casa furono in grado di segnare alcuni canestri rocamboleschi, ad esempio col venezuelano Herrera, che avrebbero poi effettivamente fatto la differenza alla fine. Il sogno di Starks divenne, senza mezzi termini, un pauroso incubo. La guardia dei Knicks letteralmente sparò a salve. Riley esitò, aveva la sensazione che sarebbe bastato un attimo a John per infuocarsi in un amen e prendere ritmo. L’attesa fu fatale, a Pat, a Starks ed a New York. 2/18 dal campo, 0/11 da tre: questo il magro tabellino che avrebbe accompagnato per sempre la carriera e la vita di John Starks. Olajuwon, coadiuvato da un ottimo Maxwell, vinse l’ennesimo scontro diretto nella serie con Ewing, anche lui in serata poco felice. I Knicks, aggrappati ad un ottimo Harper, rimasero nonostante tutto abbarbicati alla propria difesa ed alla gara sino agli ultimi minuti, ma poi Houston riuscì a resistere, vincendo il primo titolo NBA della propria storia e condannando New York all’ennesimo purgatorio.

Declino

Smaltita la delusione, i Knicks ci riprovarono l’anno dopo con lo stesso collettivo, con un Mason maturato e vincitore del trofeo di Sesto Uomo dell’Anno. Nelle Semifinali dell’Est del 1995 ecco di nuovo la sfida con i rivali Indiana Pacers che avrebbe regalato nuovamente tante emozioni. In gara-1 New York, al MSG, era comodamente in vantaggio di 6 lunghezze a meno di venti secondi dal termine. Quel che accadde nel frangente successivo fu uno degli exploit più incredibili di sempre. Miller segnò la tripla del -3, poi intercettò la rimessa dal fondo dei Knicks. Invece di tirare immediatamente, seguendo il comune istinto, si voltò, tornò fuori dall’arco e scagliò la tripla del pareggio, tra lo sbigottimento generale. I giocatori di casa rimasero pietrificati, sbagliando in attacco e regalando poi altri due liberi a Miller, che completò con 8 punti in 18 secondi il proprio capolavoro. Indiana si portò sul 3-1 nella serie ma New York reagì, sopravvivendo in gara-5 col tiro della vittoria di Ewing, espugnando gara-6 e portando la contesa all’ennesima gara-7 della gestione Riley, proprio come 12 mesi prima. E sulla stesa falsariga, la gara andò all’ultimo tiro. In una sorta di contrappasso rispetto alle ECF 1994, Ewing, in layup sulla sirena dopo una penetrazione, sbagliò il tiro della vittoria, condannando i suoi alla prematura uscita.
Dopo poche settimane Riley si dimise via fax, diventando immediatamente il bersaglio dell’ambiente. Con la gestione di Nelson prima e dell’esordiente Van Gundy poi, New York visse un’annata di transizione, venendo poi estromessa, quasi senza colpo ferire, alle ECSF dai Bulls delle 72 vittorie, la quinta eliminazione subita per mano di Michael e compagni.
Prima della stagione 1996-97, il front office della squadra mandò Mason a Charlotte, ricavandone una delle migliori giovani star in circolazione, Larry Johnson. Contemporaneamente, dalla free agency, arrivò un altro talento cristallino, quello di Allan Houston, con l’intento di allungare il periodo di splendore della franchigia. Effettivamente i Knicks disputarono una grande annata con 57 vittorie (e Starks Sesto Uomo dell’anno), e si affacciarono ai Playoffs come grandi rivali dei soliti Bulls. In Semifinale New York, opposta ai Miami Heat proprio del traditore Riley, andò rapidamente sul 3-1 nella serie. Gara-5 fu appannaggio della formazione della Florida, con Van Gundy ed i suoi con la testa alla partita successiva. Improvvisamente, dopo una lotta a rimbalzo, si scatenò una violenta rissa da Far West, che portò allo scompiglio generale ed alla nascita, di fatto, di una grande rivalità. I giocatori da sospendere furono così numerosi che la Lega dovette comminare le sanzioni nell’arco di due partite. New York, rimaneggiata in larga parte, si smarrì completamente, perdendo il vantaggio iniziale e naufragando del tutto, perdendo la serie a gara-7. Nell’annata seguente le cose, se possibile andarono peggio: a Dicembre Ewing si procurò un gravissimo infortunio al polso in uno scontro aereo, che lo costrinse ai box per gran parte della stagione ’97-98. Da allora, di fatto, Pat ed i Knicks non furono più gli stessi.

Epilogo

A ben vedere, i Knicks furono in grado, pochi anni più tardi, di raggiungere le Finals 1999 partendo da numero 8 ad Est, perdendo poi contro i San Antonio Spurs. Si trattava però, di tutto un altro gruppo, di ben altra consistenza e forza, nonostante la presenza di qualche altro veterano di mille battaglie, e che ebbe vita brevissima.
Oltre al già citato Mason, i primi ad andarsene furono Starks ed Oakley, che vennero ceduti proprio prima dell’annata del lockout. Il primo venne mandato a Golden State, in un pacchetto comprendente il reietto Latrell Sprewell, il secondo a Toronto per il promettente Marcus Camby. Dopo l’ennesima Finale di Conference nel 2000, ed un’altra battaglia contro Miami vinta in gara-7 proprio con un suo canestro, fu la volta di ammainare la bandiera di Ewing: nella stessa estate venne infatti mandato ai Seattle Supersonics in cambio, sostanzialmente, di un quarto di dollaro.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, eppure una sorta di maledizione si è abbattuta sulla franchigia, vittima di sé stessa, dell’incapacità e dell’incompetenza del proprio front office. Negli ultimi 14 anni, dalla partenza di Pat quindi, New York non ha mai più raggiunto le Finali di Conference, passando il Primo Turno in una sola occasione e mancando l’appuntamento alla postseason, per ora, in ben 9 stagioni. Ed il Garden, ancora e per sempre, rimpiange quei guerrieri che infiammarono la Grande Mela negli anni Novanta, pur arrivando ad un solo passo dal tanto atteso titolo.

Alessandro Scuto

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