Prima di Leonard, prima di Parker e Ginobili, prima ancora di Duncan, coach Popovich ed anche di David Robinson, i San Antonio Spurs hanno conosciuto il sapore acre ed amaro delle sconfitte. Ci sono state edizioni dei nero-argento che hanno conosciuto l’onta delle mancate partecipazioni alla postseason o di cavalcate non portate a termine con successo. In particolare, la nostra attenzione è caduta sulla squadra che, a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, riuscì a farsi notare, diventando una seria contender per il titolo, senza tuttavia raggiungere le NBA Finals.
I Protagonisti
Uno per tutti e tutti per uno. Il protagonista assoluto ed inimitabile degli Speroni del periodo era un ossuto numero 44, con la sinistra tendenza a fare sempre canestro e detentore, forse, del miglior finger roll di tutti i tempi, con il solo Julius Erving nelle vicinanze. Lo conoscevano tutti come Iceman, ma il suo vero nome era George Gervin, la prima vera bandiera degli Spurs, quattro volte miglior marcatore della Lega e leader assoluto in quegli anni di salita alla ribalta cestistica. Fedeli scudieri nel primo periodo di tale corsa furono il Profeta del quarto quarto, James Silas, playmaker mortifero dalla lunetta e dotato di afro e sangue freddo nei finali di partita, Johnny Moore, che ne prese il testimone qualche anno dopo, e Larry Kenon, prolifica ala da quasi 20+10 e per due volte All-Star. Sempre attorno ad Ice, negli ultimi anni ebbero particolare importanza Mike Mitchell, volto particolarmente noto anche nel Belpaese, ed Artis Gilmore, devastante centro arrivato in Texas un po’ vecchiotto ma ancora capace di fare la differenza.
Allenatori
Due, sostanzialmente, gli head coach di San Antonio nel periodo in questione. Con il non facile compito di condurre gli Spurs all’interno della nuova Lega, Doug Moe riuscì in brevissimo tempo a far segnare il proprio nome sui vari taccuini. Il merito era tutto del suo peculiare stile di gioco, una run and gun condita da un sapiente passing game, che garantiva attacchi frizzanti e punteggi astronomici. Da un tale sistema, che drogava inevitabilmente le statistiche personali e di squadra, non poteva non approfittarne Gervin, capace di mettere assieme numeri incredibili nel giro di pochi anni. Con Moe prima licenziato e poi volato a Denver, dove avrebbe ulteriormente perfezionato il proprio credo, i nero-argento andarono in eredità a Stan Albeck, una vita da assistente, ed a cui non tremarono i polsi nel momento di pilotare la squadra contro le altre corazzate dell’epoca. A lui, inoltre, si dovettero le trade che portarono all’acquisizione di Mitchell prima e Gilmore poi.
La Genesi
L’alba dei San Antonio Spurs non ebbe luogo nella NBA, bensì nella lega concorrente del tempo, la ABA. A ben vedere, inoltre, la città di riferimento inizialmente non era quella dell’Alamo ma un altro importante polo dello Stato, Dallas, dove i Chaparrals videro la luce nel 1967. Solo 6 anni più tardi, nel’73, la franchigia si spostò a San Antonio, potendo contare su di un tifo “organizzato” e particolarmente chiassoso di veri e propri ultrà a stelle e strisce, i famigerati e leggendari Baseline Bums, spesso e volentieri protagonisti di accesissime sfide con i giocatori delle formazioni avversarie. Risolte le beghe giudiziarie che avevano minacciato di far saltare l’accordo, nel 1974 era arrivato Gervin dai Virginia Squires, dotando gli Spurs di un vero giocatore franchigia. Due stagioni più tardi la squadra fu una delle poche a sopravvivere al merger tra ABA ed NBA, venendo scelta tra le elette a continuare nella “Lega di sopra”, segnatamente nella Eastern Conference. Agli ordini di Moe, San Antonio fu subito in grado di vincere 44 partite, con il migliore attacco NBA, e di qualificarsi ai Playoffs, dove però venne subito estromessa in due gare dai Boston Celtics. La squadra era destinata a migliorare con il prosieguo degli anni. Nella stagione seguente le vittorie furono ben 52 e Gervin esplose letteralmente come scorer di primo livello. La sua battaglia per il titolo di miglior realizzatore contro David Thompson tenne tutti con il fiato sospeso sino all’ultima giornata. Skywalker, che giocava nel pomeriggio, mise subito le cose in chiaro segnandone 73 ai malcapitati Pistons; dopodiché, si attaccò alla radio per ascoltare la prestazione di Ice, a cui ne servivano ben 58 per vincere la corona di capocannoniere, contro i New Orleans Jazz. Dopo un po’ Thompson decise di spegnere l’apparecchio. Ne aveva abbastanza. Già, perché Gervin non solo era arrivato alla fatidica quota 58 con ancora il terzo quarto da giocare, ma ne aveva messi ben 33 nel solo secondo periodo, record NBA solo recentemente frantumato da Klay Thompson contro Sacramento. Secondi ad Est, e quindi con il lasciapassare garantito per le Semifinali di Conference, San Antonio prospettava una trionfale cavalcata. Non fu così. I Washington Bullets sorpresero gli Speroni in 6 gare, nel mezzo di un improbabile cammino che li avrebbe condotti verso il titolo NBA. Le due squadre si sarebbero presto sfidate nuovamente.
La Grande Occasione
Con Gervin e Kenon a cannoneggiare, un Silas finalmente ristabilito ed i Baseline Bums a fare baccano, gli Spurs, da quasi neofiti, erano diventati una formazione in grado di fare la voce grossa e coltivare ambizioni di gloria. Altra regular season da primi per punti per gara e pace factor, Ice nuovamente capocannoniere e 48 w in saccoccia, valevoli per l’accesso diretto alle Semifinali della Eastern Conference. L’avversario non era certo dei più agevoli. I Philadelphia 76ers, infatti, potevano vantare una formazione degna di un All-Star Team: Doctor J, Mo Cheeks, Darryl Dawkins e Joe Bryant, il cui cognome magari potrebbe farvi venire in mente qualcuno. La serie fu segnata da scarti molto contenuti e partite tirate. In gara-2 i nero-argento la spuntarono di una sola lunghezza. Phila vittoriosa di 8 nella terza, San Antonio corsara in Pennsylvania nella quarta partita e per soli 3 punti, andando così sul 3-1 nella serie, con la possibilità di chiudere il match alla HemisFair Arena nell’incontro successivo. Contrordine: Erving guida i suoi alla riscossa in gara-5, nella sesta partita è invece il rookie Cheeks ad infilare il drammatico tiro della vittoria a pochi secondi dal termine, rimandando il tutto alla decisiva gara-7. Gli Spurs avevano sprecato un prezioso 3-1, ma, se possibile, nella bella fecero ancor peggio. Avanti di 18 nel primo tempo, vennero prima raggiunti e poi sorpassati dagli affamati avversari. Sull’orlo dell’eliminazione (e della figuraccia), Gervin decise di prendere per mano i suoi, guidandoli alla contro-rimonta. Ad aiutarlo, la riserva Mike Green, che mise dentro i tiri importanti nel quarto quarto. Alla fine il punteggio fu 111-108 per San Antonio, che vinceva così la prima serie nella sua storia NBA, guadagnandosi inoltre l’accesso alle Eastern Conference Finals 1979. Gli Spurs sarebbero riusciti a rivincere un’altra gara-7 solo nel 2005.
A sbarrare l’accesso alla finalissima erano rimasti solo i campioni in carica, i Washington Bullets di Elvin Hayes, Wes Unseld e Bob Dandridge. I Texani però non partirono intimoriti od intimiditi, vincendo nella Capitale nella partita inaugurale della serie. Tornati a San Antonio, dopo il pareggio dei Bullets, la squadra di Moe mostrò tutta la propria classe e voglia di primeggiare, sconfiggendo per due volte i propri avversari e portandosi sul 3-1, ad una sola affermazione dalle NBA Finals. In gara-3 era stata Kenon a risolverla, nella partita seguente Gervin fu eccezionale, con 42 punti ed il solito campionario di acrobazie. I Bullets si ritrovarono con le spalle al muro, come già era successo in precedenza. Decisero di non scomporsi e di ritrovare il proverbiale cuore dei campioni. In gara-5 il solito 20+20 di Unseld permise ai suoi di rimanere in vita, fronteggiando anche una furiosa rimonta ospite nell’ultimo quarto. Washington aveva miracolosamente ritrovato l’inerzia. In un incontro molto equilibrato, Hayes e compagni riuscirono anche ad espugnare l’HemisFair Arena in gara-6, facendo sì che la serie avesse un proprio degno epilogo in gara-7. Gli Spurs, pur avendo sprecato il set point casalingo, non erano desiderosi di fare la parte dell’agnello sacrificale. Si aggrapparono ad ognuno dei 42 punti del solito maestoso Gervin. Erano avanti di 6 punti a due minuti dal termine. Qui però la macchina perfetta di Moe si inceppò. I Bullets recuperarono con la forza della disperazione la partita per i capelli. Col punteggio in parità, con poco meno di dieci secondi sul cronometro, Dandridge riuscì a scoccare il tiro della vittoria contro tre difensori. San Antonio ebbe la possibilità di portare la contesa all’overtime, ma prima Silas e poi Kenon vennero respinti con perdite. Il punteggio finale fu 107-105 per la squadra della Capitale, solo la terza nella storia NBA a recuperare da uno svantaggio per 1-3. Per Gervin e compagni, non restarono solo che le briciole ed i vani complimenti per gli sconfitti. Ad affrontare Seattle sarebbe andata Washington.
Transizione
Ripartiti dai nastri con intenzioni bellicose, gli Spurs si impantanarono presto tra le pieghe della regular season. Dopo 66 partite, chiuse con uno speculare record di 33-33, il running game di Doug Moe venne accantonato col licenziamento del coach, a seguito dell’andamento balbettante. Al suo posto, sino al termine della stagione, il traghettatore Bob Bass, da diversi anni in seno all’organizzazione, che condusse la squadra alla soglia delle 41 vittorie stagionali. Il tutto a dispetto di una monumentale stagione di George Gervin, MVP dell’All Star Game e nuovamente top scorer, col career-high mai più raggiunto di 33,1 punti per gara. Nei Playoffs, però, cammino brevissimo: fuori al Primo Turno contro i vicini cugini degli Houston Rockets. L’annata 1980-81 si presentò invece ricca di novità. Innanzitutto, la franchigia venne spostata nella Western Conference, in seguito ad una riorganizzazione collettiva seguita alla nascita dei Dallas Mavericks. Inoltre, sulla panchina dei Texani fece il suo esordio Stan Albeck, portando il suo carico di novità. Pur non rinunciando all’enorme potenziale offensivo della squadra, il coach dalla tipica capigliatura del tempo riuscì a plasmare anche una certa identità difensiva, dotando San Antonio di una certa ruvidezza sotto canestro. Fu proprio in quel periodo che nacquero i Bruise Brothers, i “fratelli del livido”, soprannome con cui i lunghi degli Spurs si fecero subito riconoscere per l’elevato tasso di intensità e botte sotto al ferro.
La risposta furono 52 vittorie in regular season ed il secondo posto ad Ovest, che garantiva il lasciapassare diretto per le Semifinali di Conference. Ad attendere i nero-argento, i rivali dell’anno precedente, i Rockets, anche loro trasferitisi da Est, ma autori di un anno in chiaroscuro coronato solo da 40 affermazioni. Le squadre si spartirono la posta in palio nei primi 4 episodi della serie, espugnando a turno l’arena avversaria, con Moses Malone a chiarire subito che Houston non era lì per far da semplice sparring partner. In gara-5 il concetto venne ulteriormente suffragato dalla vittoria ospite per 123-117, che metteva San Antonio sull’orlo di una crisi di panico. Gervin, con i suoi sotto nel punteggio nell’ultimo quarto della sesta partita, sfoderò tutta la sua classe ed abilità, rinviando l’esito alla decisiva gara-7. In una serie pazza, con cinque vittorie esterne in sette partite, i 42 punti del piccolo folletto Calvin Murphy furono strumentali alla causa di Houston, che con il punteggio di 105-100 espugnava la HemisFair Arena, continuando un viaggio che avrebbe portato i Rockets a delle impronosticabili NBA Finals. Per gli Spurs, invece, l’ennesima gara-7 persa.
Canto del cigno e nascita di una grande rivalità
San Antonio era ritornata presto a far parte dell’èlite della Lega. Rafforzatisi con l’arrivo di Mike Mitchell da Cleveland a stagione in corso, gli Speroni si erano posti l’obbiettivo di raggiungere, finalmente, le tanto agognate Finali. Dopo un’altra regular season col pilota automatico e 48 w, con Gervin capocannoniere per la quarta ed ultima volta e Moore miglior assistman, c’era tanta voglia di lasciare un marchio indelebile in postseason. Secondi nella Conference, e col solito bye per andare direttamente alle Semifinali, c’era molta attesa per la sfida con i Seattle SuperSonics di Sikma, Gus Williams e Fred Brown. La serie fu molto equilibrata, basti pensare che, esclusa gara-2 con l’affermazione di Seattle, le altre quattro sfide terminarono, rispettivamente, con lo scarto di 2, 2, 2 e 6 punti. La cosa più importante, per i sostenitori Texani, fu che tutti quei successi risicati furono appannaggio di San Antonio, con Gervin e Mitchell sugli scudi. Archiviata quindi la pratica Sonics sul 4-1, la squadra si ritrovò così proiettata alle Western Conference Finals. Avversari, “ostici e agnostici”, i Los Angeles Lakers. Nessuna delle due squadre poteva saperlo, ma stava per nascere una delle più grandi rivalità NBA, che si protrae ormai da 3 decenni. I Lakers erano la corazzata dello Showtime. Magic, Kareem, Cooper, Wilkes, Nixon, McAdoo e chi più ne ha più ne metta. Pur da underdog, gli Spurs vendettero cara la pelle. Tutte le partite furono equilibrate e risolte solo nell’ultimo quarto, con LA a mettere una pezza contro le scorribande dei baldanzosi avversari. Il risultato finale, 4-0 per i giallo-viola, non testimonia appieno le sofferenze dell’armata di Riley e la bella prova di Gervin e compagni.
Lo strapotere fisico e tecnico di Kareem contro la frontline dei pur pugnaci Bruise Brothers era troppo evidente. Per questo motivo, nella offseason successiva, Albeck premette il proverbiale grilletto che portò in Texas Artis Gilmore, mitico e gigantesco centro sin dai tempi dell’ABA. La regular season fu portata a termine con 53 successi, nuovo record di franchigia, e nuova linfa alla rivalità coi Lakers rimpolpata da una gara che venne addirittura completata, per una protesta ufficiale, solo alcuni mesi dopo la data della palla a due. Col consueto lasciapassare per il Primo Round dei Playoffs, San Antonio si preparò alla sfida delle Western Conference Semifinals contro un vecchio ma notissimo volto, Doug Moe. L’ex coach aveva fatto crescere i Denver Nuggets, rendendoli una mina vagante ad Ovest. Come prevedibile, gli attacchi furono frizzanti ed i punteggi stellari. Gli Spurs ne misero 152 in gara-1 e 145 in gara-5, ma la vittoria decisiva fu quella in Colorado, di un punto ed all’overtime con Moore migliore in campo, che si rivelò fondamentale per chiudere poi la serie sul 4-1. Nelle Finali dell’Ovest 1983 era tutto apparecchiato per il redde rationem contro i Los Angeles Lakers campioni in carica. San Antonio era ulteriormente progredita nell’ultimo anno, prendendo coscienza della propria forza e delle proprie possibilità, con un roster più profondo e completo ed una rinnovata aggressività. In gara-1, però, il copione sembra sempre lo stesso: giallo-viola che scappano nell’ultimo quarto e si assicurano la vittoria. Quell’anno però la musica era cambiata. Nella seconda partita, infatti, trascinati dai suoi alfieri, gli Spurs riuscirono a violare il Forum, riportando in equilibrio la serie ed appropriandosi, contestualmente, del vantaggio del fattore campo. Forse fu l’apertura di scenari interessanti, forse furono le vertigini, forse furono gli effettivi valori in campo a venir presto ristabiliti. Fatto sta che, con due partite alla HemisFair Arena, i nero-argento non furono in grado di mettere un altro granello negli ingranaggi dei Lakers, corsari due volte su due in Texas. Nonostante la delusione, Albeck caricò al massimo i suoi, che risposero vincendo incredibilmente al Forum la quinta partita, rimanendo così in vita. Si sarebbe trattato, a conti fatti, del canto del cigno di quel gruppo. In gara-6, all’ombra dell’Alamo, l’epilogo drammatico. Lakers avanti con una certa sicurezza ad un minuto dal termine, ma San Antonio capace di provare un ultimo colpo di reni per raggiungere l’avversario. A 35 secondi dal termine, col milionesimo finger roll della propria carriera, Gervin firmava il -1, mettendo pressione agli uomini di Riley. Wilkes sbagliò malamente il tiro, dando addirittura agli Spurs la possibilità di vincere la partita e forzare gara-7. Mitchell provò il tiro del miracolo, ma Cooper glielo stoppò. La palla rimase in mano alla stella dei Texani, che riprovò il jumper. La palla colpì il secondo ferro. Il rimbalzo fu di Gilmore, ma la sirena suonò prima che potesse provare a tirare. Il punteggio fu 101-100 per i Lakers, che si aggiudicarono così partita e serie. Neanche il più pessimista dei Baseline Bums poteva sospettarlo, ma per San Antonio sarebbe iniziato, proprio con quell’errore di Mitchell, un decennio buio.
Epilogo
L’epilogo della squadra che fece tremare i Lakers fu veloce e non particolarmente felice. Albeck, dopo quella sconfitta amara contro Los Angeles, fu il primo ad andarsene. Senza la sua guida, gli Spurs l’anno successivo si sfaldarono, vincendo solo 37 partite e mancando l’accesso alla postseason. Non meno clamorosa, all’inizio della stagione 1985-86, fu la cessione di Gervin ai Chicago Bulls, dove si ritrovò compagno di un numero 23 in leggera ascesa sul palcoscenico mondiale. Altrettanto traumatico fu lo stop di Johnny Moore, che venne fortemente debilitato da una rara forma di meningite, che lo costrinse, sostanzialmente, a smettere con l’attività agonistica. Gilmore e Mitchell rimasero a soffrire e combattere per altre stagioni, ma la squadra aveva preso una china pericolosa. Dopo un paio di annate, discrete e nulla più, sotto coach Fitzsimmons, gli Spurs diventarono una specie di barzelletta della Lega, compilando record non proprio lusinghieri. Con un veloce fast forward torniamo ai giorni nostri, vedendo scorrere in rapida carrellata le immagini dell’esordio di David Robinson, della scelta di Tim Duncan, dell’europeizzazione della squadra, dei tanti trionfi dal 1999 in poi. Questi ultimi hanno avuto l’effetto di far calare un po’ il sipario su quegli anni, eroici ma sfortunati, con i rovesci subiti nelle gare-7 e l’impossibilità di fare l’ultimo sorpasso ai danni dei Bullets o dei Lakers. Anche i Baseline Bums si sono annacquati col trascorrere del tempo, perdendo la garra dei bei giorni. Ma, soprattutto nei tifosi un po’ più in là con gli anni, gli eroismi di Silas, la classe di Mitchell, la potenza di Gilmore e l’elegante mitragliatrice che rispondeva al nome di George Gervin, avranno sempre un posto privilegiato nel cuore.
Alessandro Scuto