Fino all’anno scorso, sulla panchina dei Miami Heat, potevate scorgere la figura rassicurante e ieratica di un omone, alto, impostato e con lo sguardo, quasi sempre, impenetrabile ed impassibile. Dietro quell’espressione apparentemente imperscrutabile, in realtà, sta nascosto un vissuto con pochi eguali all’interno della storia della Lega. Il personaggio in questione, infatti, da novello Garibaldi, è stato un vero e proprio eroe dei due mondi, conquistando vette inavvicinabili nel Vecchio e nel Nuovo Continente, dai Junior College americani sino ai palazzetti del Centro Italia. L’appuntamento di oggi della nostra rubrica approfondirà la carriera di un giocatore particolarmente amato e celebrato nel Belpaese, Bob McAdoo.
Una carriera di alti(ssimi) e bassi (ssimi), di glorie e disdette, vissute in un continuo saliscendi avviatosi sin dagli anni universitari, iniziati in un Junior College per poi spiccare il volo nella North Carolina di Coach Dean Smith. Con i Tar Heels, McAdoo mise in mostra a livello nazionale tutto il suo enorme talento, non corrisposto però dal taglio dell’ultima retina stagionale: UNC, infatti, venne sorprendentemente estromessa dalla Finale NCAA, nonostante i prodigi del giovane Bob.
Il talento cristallino era troppo per passare inosservato: al Draft 1972, infatti, i Buffalo Braves selezionarono con la seconda scelta assoluta Bob McAdoo, una chiamata di cui non si sarebbero pentiti, almeno per un po’ di tempo. Per curiosità e dovere di cronaca riportiamo che al numero uno venne selezionato dai Portland Trail Blazers tale LaRue Martin, abbondantemente riconosciuto come la peggior prima scelta di tutti i tempi (con il convitato di pietra formato da Anthony Bennett, Kwame Brown e Michael Olowokandi).
Il coach dei Braves, Jack Ramsay (un altro che avrebbe avuto a che fare con i Blazers da lì a breve), studiò appieno le caratteristiche del suo nuovo prospetto. Certo, le carenze difensive erano tante, forse troppe, ma in attacco McAdoo era una vera macchina da guerra. Dopo una prima fase difficile, iniziò a fiorire sino a sbocciare del tutto e vincere il trofeo di Matricola dell’Anno. Le medie della sua prima campagna NBA? 18 punti e 9 rimbalzi. Il meglio però doveva ancora venire.
Già nel suo secondo anno nella Lega, la carriera e le quotazioni di Bob McAdoo conobbero una drastica impennata. Le difese avversarie erano terrorizzate da una macchina da punti con pochi eguali in quel periodo, soprattutto per le sue caratteristiche tecniche. Venne convocato per il primo di cinque All Star Game consecutivi, vincendo la classifica dei marcatori con 30,6 ad incontro, a cui abbinò il massimo in carriera alla voce rimbalzi, 15,1, il tutto tirando con la miglior percentuale dal campo di tutta la NBA. A tutt’oggi, si tratta dell’ultima volta che un giocatore abbia terminato la stagione con un 30+15 di media. A livello di squadra non mancarono nemmeno le soddisfazioni: Buffalo, infatti, si qualificò per i primi Playoffs della propria storia. Pazienza se arrivò la sconfitta contro i Boston Celtics futuri campioni, che ebbero la meglio di Bob e soci solo in sei partite, con le ultime due terminate con uno scarto complessivo di cinque punti e JoJo White a mettere i due liberi della vittoria a tempo scaduto in gara-6. Una stella era decisamente nata: chi poteva fermare Bob McAdoo?
Nessuno, perlomeno a quei tempi. Nella sua terza annata, infatti, l’ex Tar Heels fece, se possibile, ancora meglio. Rivinse il titolo di top scorer con la sua più alta media di sempre, 34,5, e conquistando, soprattutto, il titolo di MVP della Lega. I Braves sfiorarono il colpo grosso, portando i Washington Bullets sino a gara-7 delle Semifinali di Conference. Bob, ancor più strepitoso in postseason, si ritrovò solo proprio nella “bella” ed il sogno si dovette infrangere. Altro anno ed altro giro: terza corona di miglior marcatore, sempre e rigorosamente oltre i 30, e prima serie vinta dalla franchigia, segnatamente contro i 76ers. A sbarrare l’accesso ai sogni di gloria furono nuovamente i Celtics e sempre in 6 partite; così come due anni prima, i bianco-verdi avrebbero poi vinto l’anello qualche settimana più tardi.
Ma come giocava Bob McAdoo? Semplicemente, decenni prima rispetto al resto della concorrenza. Si è trattato, con largo anticipo, del primo caso di lungo tiratore, ossia con la stazza e la forza nei pressi del canestro ma dalla mano dolcissima e morbidissima, con un rilascio peculiare che, grazie a quel secondo in più prima di far uscire la palla dai polpastrelli, lo rendeva quasi impossibile da stoppare. La bolla papale, ovverosia la consacrazione definitiva, arrivò da un’autentica icona, Bill Russell, che così definì la nuova star: “Non è il più grande big man tiratore di tutti i tempi. E’ il più grande tiratore di sempre e basta”. Eppure nuvole nere andavano addensandosi su Bob.
Buffalo, non certo una città dal clima mite o gradevole, si trovava anche un po’ ai confini dell’Impero Romano NBA. La mancanza di attenzioni, soprattutto in un periodo in cui la diffusione dei mass media all’interno dello sport professionistico era ancora in una fase embrionale, iniziò ad irritare McAdoo. Sentiva che i Braves non potevano garantirgli quel proscenio che un giocatore del genere doveva e poteva avere. Iniziò ad avere attriti col management, venendo sospeso per una partita per non aver voluto sostenere una visita col dottore della squadra. Quasi all’improvviso, poi, ecco il colpo di scena.
Timorosi di perderlo per niente, causa scadenza del contratto, i Buffalo Braves decisero di cedere McAdoo ai New York Knicks, privando la squadra del proprio faro. Nella Grande Mela i riflettori erano sicuramente di tutt’altra pasta e la franchigia era tra le più in voga di tutti gli Stati Uniti. Le cose per Bob, tuttavia, peggiorarono ulteriormente.
Tra uno scontro con l’altra star di una certa caratura, Spencer Haywood, e, forse, l’incapacità di reggere costantemente tutt’altro tipo di pressioni ed aspettative, McAdoo ai Knicks non brillò particolarmente. Non fece complessivamente male, ma il suo impatto su squadra e spogliatoio non fu proprio indimenticabile. Tempo 12 mesi e venne spedito ai Boston Celtics. Bob seppe del trasferimento solo leggendo i giornali ma, cosa ben peggiore per lui, lo stesso si può dire anche di Red Auerbach e Dave Cowens, dato che la mossa era tutta farina del sacco del proprietario, John Brown. Per questo motivo venne quasi subito messo in disparte e, pochi mesi dopo, ceduto ai Detroit Pistons. Tra un infortunio ed un altro, in un ambiente non proprio scintillante, la carriera di Bob non spiccò il volo in Michigan. Rescisse il contratto e si accasò, per il resto della stagione 1980-81, ai New Jersey Nets. Si era però ormai costruito, suo malgrado, la fama di piantagrane ed “appestato” NBA, considerato sul viale del tramonto e solo in grado di far parte di contesti perdenti ed allo sbando. Non rinnovato dai Nets, a nemmeno 30 anni si ritrovò sul proverbiale e metaforico marciapiede.
In maniera quasi del tutto inaspettata, anche a causa del grave infortunio a Kupchak, i Los Angeles Lakers dello showtime decisero di puntare fortemente proprio su McAdoo. Avevano bisogno di allungare la panchina di quello squadrone, per affrontare l’agguerrita sfida delle Boston e Philadelphia di turno. La risposta del reietto fu più che positiva, calandosi immediatamente in un contesto vincente e ritrovando grinta ed entusiasmo. La mossa pagò subito dividendi. Bob giocò una grande postseason, realizzando in doppia cifra in tutte le partite (esclusa una) ed andando in abbondante doppia cifra di media nelle NBA Finals 1982. Cosa ben più importante, al termine delle 6 partite, poteva finalmente fregiarsi del titolo di campione del mondo, un sogno inseguito tanto a lungo e magicamente divenuto realtà.
Nelle seguenti stagioni McAdoo continuò a togliersi altre soddisfazioni. Sempre uscendo dalla panca ne mise 15 di media in un anno e 13 (top di Lega) in un altro, raggiungendo sempre le Finals nel suo periodo ai Lakers. Nel 1985 arrivò il secondo titolo personale, dando il proprio mattoncino anche nelle Finals contro gli arci-rivali Boston Celtics. Dopo un’altra stagione da comprimario, questa volta in quel di Philadelphia, nel 1986 era giunto il momento di dire addio all’NBA. Era ora di mettersi in gioco oltreoceano.
A 35 anni di età, in un contesto a lui sconosciuto, in molti si interrogavano su quale sarebbe stato il suo impatto e la sua motivazione in ambito FIBA. Se lo chiedevano soprattutto i sostenitori dell’Olimpia Milano di coach Dan Peterson, che se ne accaparrarono i servigi in quell’estate. L’accoglienza dei tifosi alla prima esibizione stagionale lasciò di stucco “Doo-Doo”: era nato un amore a prima vista. Le annate meneghine di Bob furono un qualcosa di indelebile per la città e per tutto il basket europeo. Già al primo tentativo l’apoteosi: lo scudetto vinto in finale contro Caserta, la Coppa Italia contro Pesaro e, soprattutto, la Coppa dei Campioni, superando all’ultimo atto il Maccabi Tel Aviv. L’ultimo pallone della partita, ovviamente, cadde nelle mani di Bob.
L’anno dopo le pance della formazione milanese non erano evidentemente ancora piene. La squadra completò il Grande Slam vincendo la Coppa Intercontinentale contro il Barcellona e la seconda Coppa dei Campioni consecutiva, battendo nuovamente il Maccabi. McAdoo, non più giovanissimo, fu semplicemente straordinario, mettendone 28 di media e venendo nominato MVP del torneo continentale. Nel 1989, invece, Milano si ritrovò in Finale scudetto contro un’agguerritissima Livorno. In gara-5, la bella, una battaglia senza esclusione di colpi. Col punteggio in bilico, in transizione difensiva, inseguendo un lanciatissimo Tonut, Bob, che era sempre stato acclamato per le sue doti nella metà campo offensiva, si fece notare nella propria. Forse si ricordava di quando era stato marchiato come un perdente o non interessato alle sorti della squadra. Aveva pure una certa età e, in fin dei conti, vinto tutto quello che si poteva vincere. Eppure, in un frangente, decise di tuffarsi per fermare il contropiede avversario, in un gesto che lo immortalò per sempre nelle menti e nei cuori dei suoi tifosi italiani. Quello scudetto, come è noto, andò a Milano tra mille polemiche, andando ulteriormente a rimpinguare il personalissimo bottino di Doo-Doo.
Dopo un’altra annata con l’Olimpia, condita da oltre 27 di media a 39 anni, l’esperienza ad alto livello poteva dirsi conclusa. Giocò ancora in Italia un altro paio di stagioni, spese tra Forlì e Fabriano, mettendo sempre in mostra una classe impareggiabile e delle cifre sorprendenti, anche in un contesto sicuramente meno competitivo. Appese le scarpe al chiodo a 40 anni suonati, tornò in America, questa volta nelle vesti di assistente allenatore dei Miami Heat. In Florida Bob mise tutta la propria esperienza al servizio dell’era-Riley, consigliando i giovani, aiutando i big men nel loro sviluppo e diventando una figura di rilievo all’interno dello spogliatoio. Come ricompensa, sotto questa veste, ha vinto ben 3 titoli NBA, tutti quelli della franchigia (2006,2012 e 2013).
Una carriera tutta sulle montagne russe, scoprendo gli allori e la gloria nei momenti esaltanti e rapidi manrovesci quando le cose non sono andate per il verso giusto. Anche la NBA, forse, ha un po’ dimenticato quanto grande sia stato McAdoo, anche a dispetto dell’elezione nella Hall of Fame: si tratta, infatti, dell’unico vincitore dell’MVP stagionale a non esser stato eletto tra i più grandi 50 giocatori di tutti i tempi, ai tempi della celeberrima cerimonia a Cleveland nel 1997. Hanno pesato forse troppo quegli anni bui, con la reputazione che precipitava vorticosamente verso il basso e quelle pericolose etichette appiccicate addosso. Non ha mai portato, da primo violino, la squadra verso lidi o traguardi importanti o a farla uscire da certi pantani tecnico-tattici. Forse siamo stati abbagliati dalla folgorante ed irripetibile carriera europea, che lo hanno reso uno dei migliore americani a giocare nel Vecchio Continente (se non il migliore..). La verità, in fin dei conti, è che Bob McAdoo è stato un giocatore rivoluzionario, un incubo per i propri difensori ed un vincente in tutti i contesti, dimostrando di sapersi riadattare e sacrificare per il bene della squadra, che essa fosse i Lakers o Milano. Un eroe dei due mondi, insomma.
Alessandro Scuto