La notte del 29 novembre mi trovavo, come spesso mi capita a causa dei miei viaggi, in macchina. Era grossomodo l’una, stavo riportando a casa quella persona che potremmo assimilare alla mia Zelda, con cui talvolta remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato, prima di sfociare nei mari del futuro. Quando stiamo per entrare nel vialetto di casa sua, mi vibra il telefono. E’ una notifica della NBA: Kobe Bryant, dopo vent’anni, annuncia ufficialmente il suo ritiro dal basket professionistico. Non che la notizia non giungesse inaspettata, le magre prestazioni di questa stagione erano sintomatiche del fatto che qualcosa si fosse rotto, ma lì per lì non mi resi della Storia che si compiva davanti a noi. Io, ad esempio, non ho mai visto una singola stagione NBA senza Kobe Bryant. A dire la verità, quando Bryant è entrato nella Lega, io non avevo che pochi mesi. Mi sono perso il Mamba in versione 8, ma ho venerato il fu 24 come una divinità, invincibile ma allo stesso tempo umana, segnata dagli sbagli e dall’inevitabile scorrere del tempo che ha portato a galla tutte le imperfezioni che il senso di onnipotenza del giovane Kobe aveva cercato di oscurare. Essendomi perso i primi vagiti dell’epica kobesca, ho cercato di recuperare tramite video, libri, partite e interviste ciò che è stato, avendo come unico metro paragone il Bryant che di anno in anno si faceva sempre più Assoluto, con l’apice dei due titoli NBA vinti da protagonista, per poi assistere al crepuscolo, il lento sgretolamento, infortunio dopo infortunio, fino ad oggi, con le sue percentuali pessime e qualcuno che si prende gioco di uno di quei giocatori che hanno interpretato fino all’ultima goccia di sudore la massima di His Airness, quella che i limiti, proprio come le paure, a volte sono solo delle illusioni.
Questa riflessione sul tempo e sulla pallacanestro non ha però origine solo dalla commovente lettera di Bryant, pubblicata su The Player’s Tribune, in cui annunciava a suo modo il fatto che sì, ad Aprile sarà davvero finita. Perché Cosimo, un mio caro amico, ha usato quelle stesse parole quando ha saputo che a causa di un grave infortunio e di alcune imperfezioni genetiche ai legamenti delle caviglie avrebbe dovuto smettere di giocare a basket. Ovviamente il mio amico e Kobe non hanno nulla da spartirsi, se non l’amore assoluto per il gioco. Questo incessante susseguirsi della parola “fine”, negli ultimi giorni ha spalancato le porte dei miei quattro neuroni, pronti a interrogarmi sul senso di una fine. Perché se è vero che lo sport è un continuo atto catartico di chi crede in certi valori, allora tutto non può che cominciare da qui. All’alba dei miei vent’anni, godendomi gli ultimi istanti di Kobe Bryant e assaporando fino al midollo l’essenza della pallacanestro, ripenso alle parole del mio amico (così come all’esperienza di Claudio, che pur di continuare a giocare, rischia ogni volta l’infortunio drammatico) con cui ha sancito l’addio alla palla a spicchi e ci ritrovo quello per cui tutti noi amiamo The Game: “Per un attimo, che tu stia giocando le Finals o un 21 al campetto, quando ti butti in terra per salvare un possesso, quando strappi un rimbalzo, segni o fai segnare un compagno, sei il più forte del mondo e non importa se quel giorno hai preso un brutto voto, ti ha mollato la ragazza o ti è morto l’animale domestico. Niente potrà mai rimpiazzare i momenti in cui riesci a fare qualcosa per la tua squadra, e fino a quello che si è rivelato essere il mio ultimo istante trascorso su un campo da basket ho inseguito questi momenti”.
D’altronde noi non facciamo altro che questo, come ci erudisce Julian Barnes: Viviamo nel tempo. Il tempo ci forgia e ci contiene. Eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo. Sto parlando del tempo comune, quotidiano, quello che orologi e cronometri ci assicurano scorra regolarmente: tic, toc, tic, tac. Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi? Ma a insegnarci la malleabilità del tempo basta un piccolissimo dolore, il minimo piacere. Certe emozioni lo accelerano, altre lo rallentano; ogni tanto sembra sparire fino a che in effetti sparisce sul serio e non si presenta mai più. Kobe Bryant ha tentato più volte di fermare il tempo, decretando – con il morso del Mamba – che proprio quell’istante lì dovesse diventare una cartolina, il manifesto ideologico dell’essere qualcuno di diverso, qualcuno di superiore.
Il Black Mamba, nel corso di questi ultimi vent’anni, ha segnato trentasei tiri decisivi quando sul cronometro mancavano meno di dieci secondi alla fine della partita. Ha toccato un career-high di 81 punti, secondo solo a Wilt Chamberlain. Ha giocato partite da solo sull’isola, superato Michael Jordan nella classifica dei marcatori all-time NBA, vinto cinque anelli NBA e ispirato una generazione di giovani cestisti. Ma non basta per identificare quello che ha veramente lasciato Kobe al basket. Stiamo parlando di un giocatore egoista, una primadonna prestata al parquet, un eroe omerico traslato ai giorni nostri, con una capacità sconfinata di credere nel valore dei propri sogni. E di prepararsi a vincere.
L’uomo che più di tutti ha potuto osservare da vicino la metamorfosi di Bryant da bizzoso ragazzino a leader carismatico è stato Phil Jackson. Coach Zen ha assistito allo sviluppo della sua personalità, dal primo incontro con Michael Jordan (quando gli disse, testuali parole, “posso romperti il culo in uno-contro-uno”) al dualismo con Shaquille O’Neal, fino agli anni bui e alla rinascita, con il back-2-back di titoli vinti da assoluto protagonista. Una carriera passata all’inseguimento di MJ, con cui non ha in comune solo i movimenti di gioco, ma anche il carattere. Famelico, con quella sensazione perenne di non averne mai abbastanza. Con una sostanziale differenza, come sostiene Rick Fox: “Non ho incontrato nessun essere umano che voglia vincere quanto loro due. Per loro vincere è l’unica cosa che conta, a tutti i costi, e pretendono che tutti attorno a loro si comportino alla stessa maniera. Michael tuttavia doveva vincere a qualsiasi cosa. Che tu lo volessi o meno, lui si metteva in competizione con te. Kobe invece è in competizione con se stesso. Si pone da solo dei limiti e delle sfide ed è solo un caso che abbia bisogno di altre persone attorno a lui per riuscire a raggiungere e superarli”. Che, se vogliamo, è addirittura più logorante dell’essere in competizione con un metro di paragone visibile e spiega la durezza mentale di un giocatore che è passato sopra una quantità infinita di infortuni pur di scendere in campo e comporre una nuova strofa d’amore nei confronti della pallacanestro.
Dentro di me quindi si scatena una lotta interiore: nella mia breve esistenza sono sempre rimasto fedele alla mourinhana idea del “stiamo inseguendo un sogno, non un’ossessione”. Eppure, come suggerisce Franco Bolelli, personaggi come Kobe, MJ, Steve Jobs, Bruce Lee e Tom Brady sono accomunati da un’unica amicizia, più fedele addirittura del loro talento, della loro forza, delle grandi visioni e del senso d’impresa: l’ossessione, appunto. Il senso di responsabilità, la pressione del mondo addosso, la palla che brucia fra le mani nell’istante decisivo. Quello che può diventare leggenda. Perché la Storia è fatta di bivi: se scegli, diventi un uomo. Se hai la bravura di scegliere bene, rimarrai nella Leggenda.
Ci si può interrogare sul punto più alto della carriera di Kobe e sul suo punto più basso. Eppure io credo che ciò che contraddistingua Bryant è la continuità del suo essere, rimasta invariata nel corso della sua carriera: la sua attitudine trascende il mondo dello sport e si consegna a noi, giovani in cerca di risposte, pronta per essere applicata in ogni ambito della nostra vita, declinandola a piacimento. L’esempio è lì, davanti a noi, ancora per poco in azione, ma immortale nelle nostre menti. Come si convive con il fatto che tutto questo sta per finire, ma puoi ancora eseguire gli ultimi movimenti, sentire ancora una volta l’odore del sangue, mordendo senza pietà, quando fa più male e quando tutti ti danno per finito?
E’ innegabile che, quest’anno, del Mamba che fu non rimanga nulla, se non l’autorità e la capacità di inventarsi la giocata estemporanea durante una partita. Ma l’abuso di minuti e palloni stanno logorando i Lakers, tanto da far sbottare addirittura Nick Young, uno dei giocatori più guasconi della Lega. Arriva infatti la fine della vita: no, non della vita in sé, ma di qualcos’altro. La fine di ogni probabilità che qualcosa in quella vita cambi. Per Kobe, questo momento è giunto. Tuttavia ci viene concesso un lungo momento di pausa, quanto basta per rivolgerci la domanda: che altro ho sbagliato? E Kobe, a quanto pare, questa domanda se l’è fatta di recente. Tanto che, proprio due giorni fa, ha chiesto al suo head coach Byron Scott di non farlo entrare nell’ultimo periodo (più overtime) contro i Timberwolves, per far respirare le giovani leve della squadra. Forse in quel gesto simbolico, Bryant si è reso conto che i Los Angeles Lakers esisteranno anche dopo il suo ritiro. L’auto-panchinamento è stato il suo modo di rassegnarsi all’idea della vita, che non si fermerà quando il Mamba appenderà le scarpette al chiodo e la 24 verrà issata sui bastioni dello Staples Center. La Lega passerà nelle mani dei talenti più giovani, bramosi di essere per le generazioni future quello che Bryant è stato per loro.
I discorsi sul fatto che Bryant sia stato o meno più forte di Michael Jordan, onestamente, non mi interessano. Nè tantomeno mi interessa ricordare le diatribe con Shaq, o le mille polemiche che un giocatore di questo calibro si porta con sé. Il destino dei grandi è quello di dividere, sempre. Kobe Bryant è un’idea, sui dogmi che si è imposto si potrebbe costituire un culto pagano. Qualcosa che va oltre il concetto di sport e si aggrega a quei Misteri che da sempre appartengono alla nostra cultura, quelle entità che rivelano il Grande Spirito e il rapporto tra le nostre vite e le divinità. Qualcosa che non va per forza capita, ma semplicemente vissuta e accettata, dai limiti alle possibilità che essa ci dà. Sta a noi cercare le frontiere dell’eternità oppure scegliere di vivere con il senso d’adesso che impelle e ci regala ogni giorno sensazioni nuove, da assaporare fino in fondo. Forse per questo Kobe ha chiesto di non applaudirlo all’inizio di ogni partita in trasferta. Non vuole venire omaggiato per ciò che è stato, fintanto che ancora è. Poi si vedrà.
Marco Lo Prato