“Le fondamenta di ogni Stato stanno nell’istruzione dei suoi giovani.”
Queste le parole con le quali Diogene il Cinico, uno dei pensatori che fanno parte di quell’epoca poco conosciuta che traghettò la filosofia da Aristotele al mondo romano, descrisse l’importanza dell’istruzione. L’istruzione è la linfa vitale dello Stato, la sua base più solida, il suo requisito fondamentale. Attraverso l’istruzione si formano i giovani, le future classi dirigenti, i personaggi pubblici e i cittadini a tutti i livelli. Una verità tanto pregnante che alcuni Stati ne hanno fatto una cultura, il proprio punto di forza, ponendo il limite dell’istruzione obbligatoria sempre più in alto. Eppure un rapporto molto particolare è sempre intercorso tra l’istruzione banalmente identificata come “scolastica” e l’attività sportiva, due sfere che spesso, soprattutto in Europa, vengono vissute come separate, se non dicotomiche. Questo ha portato (e, per la verità, ancora porta) a catapultare sui campi del Vecchio Continente giovani drammaticamente ipoistruiti. Una triste verità, spesso ammessa anche dai diretti interessati:
“A scuola avevo 2 in tutte le materie. Un risultato straordinario ottenuto grazie a un impegno costante. Sono stato bocciato sei volte tra elementari e medie.”
Una “confessione” targata Antonio Cassano, una delle personalità più controverse del calcio nostrano, di certo talento cristallino, ma altrettanto certamente non uno dei grandi pensatori del nostro tempo. Negli Stati Uniti questo tipo di discorso sarebbe impensabile: le classi dirigenti qui si sono assicurate di integrare il percorso che conduce i giovani allo sport professionistico a quello scolastico, per fare in modo che gli atleti abbiano anche un’istruzione e una via d’uscita nel caso le cose “andassero male”. Anche per questo motivo nella NBA vigeva la regola non scritta secondo cui per selezionare un giocatore al Draft bisognasse aspettare la sua maturazione e il completamento del suo percorso di studi nel college. Ma con il passare del tempo, la pressione mediatica sulla lega di basket più bella del pianeta si è fatta molto più pesante, e con essa è arrivata la necessità di portare prospetti sempre più giovani, sempre più freschi, sempre meno maturi. E così, mano a mano, i giocatori hanno cominciato a lasciare il college sempre prima, dopo solo due o tre anni. Eppure permaneva la tacita regola che quasi proibiva alle franchigie NBA di draftare giocatori provenienti dalle high school. I diciannovenni appena diplomati senza alcuna esperienza universitaria erano considerati poco o nulla preparati per affrontare le difficoltà di una lega professionistica super-competitiva come la NBA. Rimaneva la convinzione di fondo che non si potessero “sprecare” chiamate alte al Draft per scegliere dei liceali. Ma l’esperienza di giocatori come Shawn Kemp (scelta #17 al Draft 1989), Kevin Garnett (scelta #5 al Draft 1995) e Kobe Bryant (scelta #13 al Draft 1996), tutti senza un solo minuto di college basketball a referto, cominciò ad aprire qualche crepa in questo tabù. Ben presto si sarebbe giunti a chiamare un giocatore liceale con una scelta non solo altissima, ma con la prima assoluta, e a vedere questo investimento ripagare ampi dividendi. Basti pensare, naturalmente, a LeBron James, dalla St. Vincent – St. Mary High School di Akron, scelta #1 del Draft 2003. LeBron, che nella sua carriera ha già collezionato una lunga serie di record, ma che se ne è fatto mancare uno: quello di essere il primo giocatore liceale scelto da una franchigia NBA con la prima chiamata assoluta. Questo primato spetta a tutt’altra persona, al protagonista di questa storia: è il primato di Kwame Brown.
Il South Carolina è uno di quegli stati meridionali e caldi degli USA che bagnano placidamente le loro coste sull’Oceano Atlantico. È uno stato piccolo ma abbastanza popolato che vanta un posto di rilievo nella storia del Nuovo Continente. Tra le sue città più importanti e significative c’è certamente Charleston, che, con le sue architetture, funge da primo scenario di questa storia. Proprio a Charleston infatti, il 10 marzo 1982, nacque Kwame Brown. Era uno dei “rampolli” di una famiglia numerosa, che contava, oltre a lui e ai suoi genitori, Joyce e Willie James Brown, ben sette fratelli, ma soprattutto, una famiglia tutt’altro che tranquilla. Come nei peggiori film drammatici made in Hollywood, infatti, papà Willie era un violento che picchiava la moglie e non disdegnava di alzare le mani anche sui figli. Man mano che il tempo passava si faceva sempre più feroce, sempre più cattivo, al punto che sua Joyce fece fagotto, prese tutti i bambini e lo piantò in asso, trasferendosi in Georgia. Fu una decisione saggia, perché Willie non fece che peggiorare e nel 1990 venne condannato all’ergastolo per l’omicidio della sua compagna 22enne. Kwame sapeva di dovere tutto alla madre, e voleva renderla felice: prima di tutto evitando di diventare come suo padre. Ma doveva trovare un modo per fuggire da quella vita, un talento che lo aiutasse a venirne fuori. Fortunatamente Kwame Brown era alto, era fisicamente dotato e sapeva giocare con la palla a spicchi. Quando si trattò di scegliere il liceo Kwame prese in mano la rosa delle sue opzioni e scelse la Glynn Academy di Brunswick.
Era una scuola storica, probabilmente una delle migliori scuole pubbliche degli Stati Uniti, che si fregiava di programmi sportivi gloriosi, abbinati a intensi corsi di studi. Era l’ambiente ideale per realizzare i desideri di Kwame: diventare un grande giocatore di basket e ricevere un’istruzione che gli permettesse di diventare diverso e migliore dell’uomo che gli aveva rovinato l’infanzia. Alla Glynn, Kwame scoprì di essere un fenomeno. Era un centro alto e mobile, dotato di una velocità e di una agilità fuori dal comune che lo rendevano una minaccia costante per le difese liceali dentro e fuori dal pitturato. Ma soprattutto Kwame riusciva a esprimersi al massimo nella sua metà del parquet: alla fine dei suoi quattro anni di high school fece segnare il record scolastico per rimbalzi catturati (1.235) e stoppate (605), divenendo al contempo il secondo realizzatore di tutti i tempi della Glynn.
Era universalmente considerato il “miglior giocatore liceale” in circolazione, venne nominato McDonald’s All-American, al pari di altri due lunghi liceali straordinari: Tyson Chandler ed Eddy Curry.
Ormai diplomato, Kwame Brown firmò una lettera di intenti con la quale annunciava di voler andare alla University of Florida. Era l’estate del 2001. Ma c’era un’idea costante e meravigliosa nella sua testa. L’idea di essere pronto, l’idea di poter fare il salto, l’idea di poter diventare un idolo. Fu così che, rinnegando quella lettera di intenti, Kwame Brown si dichiarò eleggibile per il Draft NBA del 2001. La NBA era entrata nel periodo di dominio dei Los Angeles Lakers a marca Shaquille O’Neal-Kobe Bryant, e sembrava che ogni squadra avesse bisogno di un centro che potesse tentare di reggere l’urto di Shaq nel pitturato. Non facevano eccezione i Washington Wizards che avevano chiuso la stagione 1999/00 con il record di 29-53 e la vittoria della Draft Lottery che aveva consegnato alla squadra la scelta #1. Il proprietario della franchigia era tal Michael Jordan, che con la maglia dei capitolini si apprestava anche a tornare in campo, per vivere gli ultimi ruggenti anni della sua carriera da giocatore. Con tutto un gruppo di giovani centri, freschi e rampanti (con Brown si erano dichiarati eleggibili anche Chandler e Curry), Jordan si trovava di fronte a una situazione rosea. Aveva la possibilità di rivoluzionare i destini di una franchigia, di portare Washington al successo. Bastava soltanto compiere una scelta oculata. Per questo His Airness fu attivamente presente ai pre-draft workout, osservando tutte le giovani promesse e puntando gli occhi, sempre più spesso, proprio su Kwame Brown. Di quel giovanotto dal passato difficile gli piacevano molto la mobilità e la rapidità. E anche la sua attitudine sembrava molto positiva: durante uno di quegli allenamenti si avvicinò al nuovo coach dei Wizards, Doug Collins, e gli disse:
“If you’ll draft me, you’ll never regret it!”
“Se mi draftate non ve ne pentirete mai!”
Michael Jordan dovette sentire anche quello. Così la notte del 27 giugno 2001, a New York, i Washington Wizards, con la scelta #1, draftarono Kwame Brown, il primo giocatore liceale della storia scelto alla prima assoluta. Subito dopo i Los Angeles Clippers seguirono l’esempio dei capitolini, chiamando un giocatore in uscita da una high school: Tyson Chandler (girato poi ai Chicago Bulls). Alla #3 i Memphis Grizzlies pescarono in Europa, portandosi a casa Pau Gasol. Alla #10 i Boston Celtics scelsero Joe Johnson, alla #19 Portland selezionò Zach Randolph, alla #28 i San Antonio Spurs chiamarono Tony Parker e addirittura alla #30 i Golden State Warriors draftarono Gilbert Arenas.
Kwame Brown giunse nel District Columbia preceduto da un’attesa spasmodica e da una pressione mediatica senza precedenti. Michael Jordan lo prese sotto la sua ala, investendo su di lui una grossa fetta della sua sconfinata credibilità, un investimento di cui Kwame era ben cosciente:
“Lui [Michael Jordan] si è preso probabilmente il più grosso rischio della sua vita, prendendo un liceale con la prima scelta. Sono cosciente che se farò schifò avrò a che fare con la reputazione di Michael. So che mi farà lavorare fino alla morte.”
Ma in questo modo MJ non fece altro che aggiungere pressione alla pressione. Quello di cui ci si accorse immediatamente, appena Kwame fece il suo ingresso sul parquet del training camp dei Wizards, fu che se non avesse messo su massa muscolare sarebbe stato trucidato ogni singola notte. La preponderanza atletica e fisica che ne aveva fatto una star alla high school infatti, veniva meno ora che Brown aveva fatto il grande salto tra i pro, e in mancanza di un background collegiale, a Washington ci si trovò a dover fare tutto da zero. Ma più Kwame si allenava e metteva massa, più diventava lento, prevedibile e impacciato, e non riusciva a esprimersi sul parquet. Il problema principale fu che ai tifosi Kwame Brown era stato presentato come il fenomeno che poteva cambiare tutto, il prediletto di sua altezza MJ. Tutti si dimenticarono che aveva 19 anni. Non ci si poteva permettere di aspettarlo. Le prestazioni di Brown in quella stagione furono ancor meno che scadenti: fece segnare 4.5 pts (a un pelo dal record negativo di LaRue Martin) e 3.5 rbd in 14 minuti circa di utilizzo medio, tirando anche con un terribile 38% dal campo (che per un lungo è una miseria). A differenza di quanto Brown aveva promesso a Collins, il coach, ma soprattutto Michael Jordan, cominciarono a rimpiangere di averlo scelto.
Ma l’ex #23 dei Bulls non è certo diventato famoso per essersi arreso nella sua carriera, e non voleva farlo nemmeno con Kwame Brown. Così invitò il giovane pupillo a casa sua, per lavorare con lui, insegnargli qualche trucco del mestiere, aiutarlo a far emergere quanto di buono aveva fatto vedere alla high school, prese le sue difese durante le interviste, si comportò, in tutto e per tutto, come un padre. Gli allenamenti dettero qualche piccolo risultato: più coinvolto nel gioco della squadra, nella sua stagione da sophomore, Brown migliorò lievemente le sue prestazioni e le sue cifre, passando a 7.4 pts, 5.3 rbd e 1 blk a partita, ma non era ancora abbastanza per giustificare la prima scelta spesa per lui. E se essere il protetto di Michael Jordan aveva avuto i suoi lati positivi, c’erano anche dei risvolti negativi, e la pressione mediatica era soltanto uno di questi. His Airness fu inflessibile con lui, duro fino all’abuso verbale e psicologico, pensando che sarebbe riuscito a rendere Brown più forte solo spezzandolo. Arrivò persino a ridurlo in lacrime di fronte al resto della squadra, a chiamarlo “flaming faggot” (non proprio un’espressione delle più gentili per insinuare l’omosessualità), andando anche a colpire quel legame fortissimo tra lui e sua madre. Kwame non aveva scudi contro questo atteggiamento, contro il trash talking portato fino alle estreme conseguenze. Era soltanto un ragazzino che provava a dimostrare di poter giocare con quelli più grandi.
Nonostante tutto qualche miglioramento continuò a esserci: nel 2002/03, alla sua terza stagione nella lega, finalmente Kwame Brown cominciò a far vedere sprazzi di quello di cui era capace: chiuse a 10.9 pts, 7.4 rbd e 1.9 blk a partita, con un picco da 30 pts e 19 rbd in un match contro i Sacramento Kings. L’investimento pagava finalmente dividendi? I Wizards erano convinti di sì, e, con l’avvicinarsi della scadenza del contratto di Brown decisero di offrirgli un rinnovo a cifre piuttosto importanti: 30 milioni $ in 5 anni. Ma Kwame era deciso a capire quanto valeva testando il mercato dei free agent e, ormai alle porte del suo quarto anno in NBA, respinse l’offerta. Purtroppo quell’annata 2003/04 fu nient’altro che un ritorno nell’incubo. Una serie di infortuni lo tenne fuori per 40 partite, e anche nelle 42 che giocò il suo apporto fu limitato: regredì a soli 7 pts e 4.9 rbd a partita, con un season high di 19 pts. In più, senza MJ, ormai definitivamente ritiratosi, si dimostrò una testa calda, e cominciò ad avere problemi con i compagni di squadra (soprattutto con Gilbert Arenas, altra personalità poco conciliante) e con il coach, Eddie Jordan. La sua avventura nella Capitale era ormai giunta al capolinea.
Il 2 agosto del 2005 Kwame Brown venne incluso da Washington in una trade con i Los Angeles Lakers in completo restyling post-Shaq. Verso la West Coast con lui si avviò Laron Profit, mentre nella città della Casa Bianca arrivavano Caron Butler e Chucky Atkins. La mossa non fu particolarmente apprezzata dai tifosi gialloviola, che consideravano Brown un giocatore sopravvalutato. E i loro timori sembrarono essere confermati. In tutta la prima parte di stagione il nuovo centro di riserva dei lacustri fece segnare soltanto 6.1 pts e 6.3 rbd di media, ma raggiunse il punto più basso il 26 dicembre 2005, quando tornò a Washington per la prima volta da avversario. I biglietti della sfida andarono a ruba e i tifosi dei Wizards riempirono i 20.173 posti dell’MCI Center e cominciarono a fischiare Brown prima ancora dell’inizio della sfida. Ogni volta che entrava in campo, ogni volta che toccava il pallone Kwame era sommerso da una valanga di fischi e di imprecazioni. Una situazione quantomeno destabilizzante. Al punto che Brown non riusciva a concentrarsi. E così quando Sasha Vujačić sparò un passaggio verso di lui, Kwame era distratto, voltato dall’altra parte. Il pallone lo colpì in testa e uscì dal campo tra le risate dei tifosi Wizards, che ebbero l’ulteriore soddisfazione di vedere la loro squadra vincere quella partita. Intervistato nel post-game, un Kwame Brown molto deluso disse che quella era stata:
“Una presa debole. Staranno festeggiando [i tifosi dei Wizards] che me ne sia andato.”
Eppure una svolta era dietro l’angolo. Il centro titolare dei Lakers, Chris Mihm si infortunò, spianando la strada del quintetto a Kwame, che seppe cogliere l’occasione che gli si presentava: le sue statistiche si impennarono nella seconda parte di stagione, passando a 12.3 pts e 9.1 rbd a partita, abbastanza per assicurarsi il posto da titolare anche nelle sette gare di playoff contro i Phoenix Suns, che però terminarono con la sconfitta dei Lakers. Tuttavia le prestazioni di Brown convinsero Phil Jackson ad accordargli l’occasione della vita: il posto di centro titolare dei Los Angeles Lakers per l’intera stagione 2006/07.
Ma non andò secondo i piani. Un infortunio colpì Brown a inizio stagione, e con Mihm ancora fuori coach Zen decise di mettere dentro un ragazzino, Andrew Bynum, che con una prestazione convincente dopo l’altra finì per scalzare entrambi i compagni di squadra. Così Kwame venne di nuovo confinato in panchina (anche a causa di qualche infortunio di troppo) e giocò poco e con risultati altalenanti fino quasi al termine dell’anno. Visse anche un’esperienza tra il tragico e il buffonesco quando venne citato in giudizio per il lancio di una torta. Il “cake-incident” era avvenuto in dicembre, la sera del compleanno di Ronny Turiaf, all’epoca anche lui ai Lakers. Brown aveva tentato di lanciare al compagno di squadra una grossa torta al cioccolato, colpendo però un malcapitato di passaggio. Vista la natura palesemente comica dell’incidente, Kwame riuscì a trovare una soluzione pacifica, offrendo all’uomo una cena nel ristorante dello Staples Center. Sul finire della stagione, quando un infortunio al ginocchio tagliò fuori Bynum mettendo a rischio le speranze playoff dei gialloviola, Kwame Brown venne chiamato di nuovo a salvare la baracca, come aveva fatto dopo l’infortunio di Chris Mihm, ma stavolta le cose andarono in modo diverso. Il giocatore che ogni sera scendeva in campo con la maglia #54 dei Lakers era il grottesco sosia di Kwame Brown: svogliato e sconcertante, mise insieme 4.8 pts e 4.9 rbd a partita. Era una nuova involuzione rispetto ai numeri che aveva fatto registrare nel primo anno della sua esperienza losangelina. Ricevette dure critiche da parte dei tifosi per la sua mancanza di concentrazione sul campo e arrivò persino a giocare una partita in cui fece registrare 7 palle perse a fronte di 6 rbd, sbagliando anche una schiacciata. I tifosi lo fischiarono in maniera inclemente e nemmeno le parole di Kobe Bryant riuscirono a difenderlo. Nonostante tutto i Lakers arrivarono ai playoff, ma al primo turno vennero di nuovo eliminati dai Phoenix Suns. Qualcosa però si era rotto tra la franchigia di L.A. e Kwame Brown. Il 1 dicembre 2008 l’establishment gialloviola mise in piedi un miracolo di mercato, organizzando una trade per portare a Hollywood Pau Gasol: ai Memphis Grizzlies andarono i diritti su Marc Gasol, due scelte al Draft, Javaris Crittenton, Aaron McKie e proprio Kwame Brown.
In Tennessee Brown non ebbe maggior fortuna di quanta ne aveva avuta ai Wizards prima e ai Lakers poi: nelle sole 15 partite che giocò fece registrare 3.5 pts e 3.8 rbd di media, non abbastanza per guadagnarsi né l’affetto di tifosi e compagni né il rinnovo contrattuale. Alla fine della stagione i Grizzlies non gli fecero alcuna proposta, lanciandolo nel mercato dei free-agent dove l’ex prima scelta riuscì a strappare un contratto da 8 milioni $ in due anni ai Detroit Pistons. Ma la parentesi a Motown non fu affatto più felice di quella precedente. Pochi minuti in campo, poca partecipazione alle azioni della squadra e delle statline assolutamente indegne per una prima scelta, perennemente in calo in quanto a cifre e qualità del gioco. In più l’enorme dolore per la perdita della madre Joyce, che morì nell’estate del 2009, dopo una vita dura e difficile, fatta di sacrifici per i suoi otto figli e di dolore (anche fisico). Alla scadenza dei due anni nemmeno i Pistons sentirono il bisogno di dargli una nuova opportunità, e lo lasciarono ad affrontare la free agency del 2010. Kwame Brown aveva appena 28 anni ed era già considerato un giocatore finito.
Ma c’era qualcuno che su di lui aveva investito, che su di lui aveva puntato, che lo aveva preso sotto la sua ala. Quel qualcuno era, naturalmente, Michael Jordan. Mai domo, mai rassegnatosi all’idea di aver potuto commettere un errore di valutazione così grosso, MJ irruppe di nuovo nella vita di Kwame Brown proprio nell’estate del 2010. Non erano più gli stessi colori (Jordan aveva infatti acquistato i Charlotte Bobcats), ma l’idea era la stessa: tentare il rilancio con His Airness. Funzionò soltanto in parte: ai Bobcats Brown visse la sua miglior stagione individuale dal 2006/07, segnando 7.9 pts e 6.8 rbd in 26 minuti di utilizzo a partita, ma la squadra chiuse la stagione con un record di 34-48 e finì per non confermarlo l’anno successivo.
Fallita anche la reunion con Jordan, a Brown riuscì di strappare un altro contratto con i Golden State Warriors nel 2011. Ma nella Baia finì per essere decisamente sottoutilizzato, giocando soltanto 9 partite nella prima metà di stagione. Per questo la dirigenza, impegnata nella ricerca di un centro che potesse dare sicurezza nel pitturato, lo inserì nello scambio con i Milwaukee Bucks che portò a Oakland Andrew Bogut e Stephen Jackson e sulla via inversa Monta Ellis ed Ekpe Udoh (oltre appunto a Brown). Ma per la franchigia del Wisconsin la ex scelta #1 del 2001 non giocò un solo minuto. Strappò ancora un contratto, un’ultima opportunità nel 2012, con i Philadelphia 76ers, ma dopo soltanto 22 apparizioni un infortunio lo tenne lontano dai campi, e la franchigia del GM Hinkie lo tagliò senza tante cerimonie.
La carriera di Kwame Brown non è ancora ufficialmente finita, ma ormai la sua riserva di “seconde occasioni” si è abbondantemente esaurita, e si possono tirare le somme: 6.6 pts e 5.5 rbd a partita, tirando con il 42% dal campo in 13 stagioni complessive, nelle quali ha giocato 607 partite a 22.1 minuti di media. Cifre che raccontano in modo impietoso, il fallimento di una carriera. La storia di Kwame Brown è una storia di fretta, di errori di valutazione, di pressioni insostenibili. È la storia di un ragazzino che ha voluto lottare con i giganti senza essere pronto. Un ragazzino a cui era stato fatto credere di poter diventare un dominatore senza aver ma costruito le basi per un dominio. Troppo giovane, troppo presto. Solo questo il motivo del suo fallimento, solo questi i perché della sua caduta.