Leopoldo II, re del Belgio, sino al 1908 poteva ritenersi il proprietario, come fosse una casa, un giardino o un bene possedibile privatamente, di una’area piuttosto estesa del centro dell’Africa: lo Zaire. Leopoldo non era esattamente un sovrano magnanimo, tanto è vero che risulta oggi nei primi posti della poco invidiata graduatoria dei più grandi sanguinari dell’umanità. Se ci fosse un Hall of Fame per la categoria ne sarebbe sicuramente membro, vantando al suo “attivo” almeno dieci milioni di vittime; abilissimo nell’arte della schiavitù e della mutilazione fu in grado di lasciare in eredità a quella terra non pochi strascichi nei rapporti tra popolazione indigena e popolazione coloniale. Nonostante l’indipendenza del 1960 e il tentativo invano di Patrice Lumumba di creare uno stato libero, antisecessionista e anticolonialista, lo Zaire, attualmente Repubblica Democratica del Congo, può ritenersi una vera e propria polveriera, un paese che ha vissuto tra spargimenti di sangue, rivoluzioni, corruzione e guerre civili sino ai giorni nostri.
Crescere in questo ambiente poco avvezzo allo sviluppo economico e sociale non è semplicissimo e lo prova sulla sua pelle, piuttosto scura, Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean Jacques Wamutombo (ora riprendete fiato). Nonostante il padre sia laureato, cosa non da tutti nello Zaire del 1966, e abbia un posto statale, la vita non è certamente una passeggiata, ma il miraggio di evadere da quel mondo pieno di insidie e povero di occasioni può essere una valida via da percorrere. A indicare la strada per raggiungere quel “sogno” è un colosso proveniente dalla Nigeria che, negli anni dell’adolescenza di Dikembe, riesce a diventare un icona dell’Africa nera, prima a livello collegiale e poi a livello professionistico in uno degli sport più popolari al mondo; il Basket. Dikembe e gli amici spesso si introducono clandestinamente all’interno dell’ambasciata americana nella quale trasmettono le partite dei Rockets per ammirare Hakeem Olajuwon. Immaginate la fantasia di un giovane ragazzo alle prese con una visione del mondo limitata alle sole strade polverose di Kinshasa, ex Leopoldville, che vede un suo fratello essere tanto noto. “Io voglio percorrere la strada di quel ragazzone nigeriano, voglio fuggire da questo angolo di mondo dimenticato da Dio e diventare famoso e ricco per ricoprire d’oro la mia famiglia.” Progetti, voli pindarici, sogni che solo l’ostinatezza e la volontà di chi veramente ha assaggiato la polvere può provare a trasformare in vita reale. E l’occasione si presenta: di certo il viaggio dall’Africa agli States non è minimamente paragonabile alla transoceanica con posto non esattamente in prima classe affrontata da Kunta Kinte nel capolavoro dello scrittore Alex Haley, Radici, ma la destinazione è la medesima, e ad offrire alloggio a Dikembe non è una piantagione di cotone nella quale spaccarsi la schiena ma l’Università di Georgetown. Obiettivo? Diventare medico e ritornare a Kinshasa per aiutare i più bisognosi. Ecco, non proprio, forse il destino ha in serbo qualcos’altro per il guerriero (significato di Mpolondo, terzo nome del giovane africano). Sono gli Hoyas di Georgetown a dare una borsa di studio a Dikembe e, ad assaporare il dolce gusto di una carriera cestistica di livello, è coach John Thompson, che nota il kilometrico virgulto venuto dal sud del mondo e gli offre di far parte della squadra di basket dell’ateneo di Washington. Deke non è propriamente a suo agio con la palla in mano, diciamo che a mala pena avrebbe fatto la differenza nella partita che Aldo, Giovanni e Giacomo disputano contro i vigili urbani in piazza Mercanti a Milano in “Chiedimi se sono felice”. Ma la volontà e lo spirito di sacrificio non mancano e il ragazzotto impara in fretta. Il sogno si sta facendo largo tra la realtà, Dikembe sta seguendo le orme di Hakeem. La sua carriera universitaria è un crescendo. Dal primo anno all’anno da senior salgono notevolmente minuti e statistiche. La doppia doppia in punti e rimbalzi sono una normale giornata in ufficio per Deke. Gli scout Nba pongono particolare attenzione nei confronti del prospetto da Georgetown e nel 1991 Dikembe Mutombo viene scelto alla 4 dai Denver Nuggets. Colorado e Kinshasa, cime montuose innevate e sole cocente, Stati Uniti d’America e Repubblica democratica del Congo. Quanto di più lontano si possa immaginare. Ma è proprio la Mile-High City il posto giusto per Deke. Primo anno incredibile, il migliore della carriera in punti, 16,6, conditi da poco meno di 13 rimbalzi e quasi 3 stoppate.
Mai sentito parlare di effetto NIMBY? Nimby è l’acronimo di “Not in my back yard”, e sta ad identificare un atteggiamento tanto egoista quanto ipocrita da parte di chi, pur essendo d’accordo nel voler una determinata opera o miglioria di interesse sociale, voglia comunque che i potenziali effetti di questa non si ripercuotano su se stesso o nelle sue immediate vicinanze, insomma, non nel suo back yard. Per fare un esempio che non tocchi nessun aspetto di natura politica o sociale il caso sarebbe il seguente: vorreste che non esistesse più il fallo sistematico per mandare in lunetta un pessimo tiratore di liberi? Assolutamente no; fa parte del gioco, sta ad ogni singolo giocatore presentarsi in campo in grado di compiere un gesto fondamentale del gioco con percentuali quantomeno decorose. A meno che….. Si, a meno che non siate il GM o il capo allenatore dei vari Howard, Jordan o Drummond: in quel caso niente più “Hack a”! Ma Mutombo è un vero, un genuino, l’ipocrisia non la conosce e a Denver crea qualcosa di affine all’effetto Nimby ma l’atteggiamento è molto più deciso, più sicuro, si direbbe impositivo. ”Not in my House”, con tanto di sventolata di dito in faccia al malcapitato. Pensate a chi tenta di presentarsi senza invito ad una festa di prim’ordine. Solo chi è abilissimo nell’arte dell’imbucata la può scampare. Gli altri? Respinti al mittente. Ritenta, sempre se hai coraggio, e difficilmente sarai più fortunato. Segnate molte crocette sotto la voce “stoppate” nel referto. A Denver Mutombo si sente a casa e oltre a migliorare continuamente tutte le voci statistiche legate alla fase difensiva del gioco, partecipa a scrivere una pagina di storia della lega. Nel 1994 i Nuggets si qualificano ai play off per il rotto della cuffia, partono in tabellone con la numero 8 e a sfidarli c‘è la testa di serie numero 1: i Seattle Supersonics di Kemp e del Guanto Gary Payton. Denver fa saltare il banco e batte Seattle 3 a 2. Caso che fa scuola; per la prima volta da quando esiste la NBA la numero 8 batte la numero 1 ai play off. Mutombo diventa l’emblema della difesa delle arene Nba. Anche ad Atlanta difende il ferro come fosse la casa dei suoi fratelli di Kinshasa, stoppa, intimida, raccoglie rimbalzi e la furia e l’agonismo con cui interpreta il ruolo lo innalzano al top della lega. Viene eletto miglior difensore della Nba per 4 anni tra il 1995 e il 2001 e diventa una presenza abitudinaria all’All Star Game. Indimenticabile quello di Washington nel 2001, nel quale, con i suoi 22 rimbalzi, strappa la vittoria all’Ovest in rimonta dando una mano non di poco conto a Steph Murbury e Allen Iverson, invasati ed insensati, in quella che è una delle partita delle stelle più avvincente dell’era moderna. Quello è l’anno che più avvicina Deke al sogno di arrivare al titolo NBA; raggiunge le finali con i Sixers, ai quali si aggrega in corsa a febbraio, ma nonostante la memorabile gara 1 di Iverson e Co. soccombe allo strapotere Lakers. La carriera del lungagnone da Kinshasa sembra dover iniziare la parabola discendente dopo il picco raggiunto nel 2001 ma Deke ha ancora tanto da dire e da dare.
Se avete mai preso in mano un libro di Wilbur Smith potrete comprendere senza affanni il senso di ritmo di vita africano. Gli africani vivono seguendo i ritmi della natura, non hanno fretta, non si preoccupano del tempo che scorre; c’è il tempo per fare qualsiasi cosa e in questo Mutombo è un maestro. Deke dal 2002 al 2009 cambia tre casacche. Quella dei Nets, all’epoca ancora confinati a East Rutherford, con la quale raggiunge le Finals scontrandosi e perdendo contro le torri gemelle Duncan e Robinson; quella dei Knicks senza lasciare segni degni di nota e quella di Houston. A Houston viene firmato per fare da chioccia a Yao Ming, ma gli innumerevoli infortuni del centro cinese spingono Deke agli straordinari. Raggiunge sistematicamente i playoff, sola eccezione il 2006, senza però mai fare troppa strada. Nel 2008 alla veneranda età di 42 anni, raggiunge statistiche impensabili per un veterano e nel 2009, dopo un infortunio al ginocchio, decide di lasciare il basket giocato abbandonando l’idea di raggiungere il canguro Kevin Willis (fermatosi a 44 anni) nel lodevole primato di giocatore più anziano ad aver militato nella NBA. Calmi ragazzi, sappiamo cosa state pensando, ma sul passaporto di Mutombo c’è scritto 25 Giugno 1966 sotto la voce “date of birth”, quindi ogni teoria che sostiene che Dikembe abbia avuto più dei 18 anni che ha dichiarato alle autorità al momento di lasciare il suo paese di origine rimane un’ipotesi non verificabile. Mutombo chiude la sua carriera al secondo posto nella classifica all time degli stoppatori NBA dietro a quello che è stato il suo idolo e il suo punto fermo: Hakeem “the Dream” Olajuwon. Come Patrice Lumumba resterà nella storia dell’ex Zaire; come Lumumba sarà ricordato per la tenacia e l’abilità nel perseguire un sogno e raggiungerlo, segnando la strada per le generazioni future. Ma a differenza di Lumumba non verrà sacrificato sull’altare della corruzione e del cleptocrazia ma il guerriero di Kinshasa sarà per sempre riconosciuto come uno dei cestisti, se non degli sportivi, più noti e più importanti del continente africano.
Checco Rivano