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Hassan Whiteside: All or Nothing

Si è visto sbattere in faccia più di una porta ma Hassan Whiteside non ha mai smesso di credere in futuro targato NBA; adesso sta vivendo il suo sogno e con lui ai playoff ci sarà da divertirsi.

 

Effettivamente l’unico modo per andare all-in è quello di essere disposti a perdere tutto, e poche persone sono disposte ad accettare un tale rischio. Eppure il combustibile più potente di cui la natura ci ha dotato si racchiude in quella linea sottile che unisce la paura di fallire alla spinta per andare oltre. Di paura il nostro protagonista ne ha avuta perché il fallimento nella sua carriera è stata una costante. Eppure si è sempre rimesso in piedi e qualche tempo fa ha rilasciato un’ intervista dove paragona la sua vita al quarto capitolo della saga con Sylvester Stallone protagonista. “Se ti sei allenato come Rocky, quando alla fine è il momento di batterti contro il Russo, sei pronto. Quando ho ottenuto il mio contratto con gli Heat era il mio momento di combattere con il Russo.”

Debbie Whiteside è stanca, vuole tornare in North Carolina, precisamente a Gastonia, dove ha puntato una piccola proprietà immersa nella natura selvaggia del sud. Ha bisogno di un posto tranquillo, perché il dottore le ha comunicato da poco che è di nuovo in cinta.

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Immagine perfetta del locus amoenus

A distanza di un anno da un parto gemellare la donna si vede costretta a sopportare altri 9 mesi di nausee, alzatacce e posizioni improbabili per prendere sonno. Il tutto con due bambini a carico di appena un anno e senza l’appoggio di quell’uomo tanto bravo a giocare a football quanto incapace di accontentarsi di una vita “familiare”. Il signor Hasson Arbubakrr ha conosciuto Debbie in una libreria a Newark, New Jersey. Fiori, candele e in un amen la povera donna, rimasta vedova da poco, si lascia confondere dalle promesse di un atleta sul viale del tramonto. Effettivamente, dopo la nascita dei primi due pargoli, Hasson lascia la NFL e prova per dieci minuti a fare il padre di famiglia. Quando però la donna, nuovamente gravida, lo informa che Newark non è il posto adatto per crescere i bambini, Hasson si tira indietro. In quel momento Debbie non vorrebbe averlo questo terzo figlio, la stabilità familiare è compromessa e le possibilità di una vita felice ridotte al lumicino. Come se non bastasse soffre di ernia e le sue costole non riescono a sorreggere il peso di ciò che si trova dentro il suo ventre. Il 13 Giugno 1989 si passa all’operazione d’urgenza e dopo un cesareo pericolosissimo per la salute di Debbie viene alla luce un essere vivente di quasi 5 kgx60cm! I dottori non pensavano che alla fine sarebbero riusciti a salvare sia madre che figlio, ma in North Carolina la fede cristiana è ben radicata e da quel giorno la donna continuerà a ripetere ad Hassan (almeno sul nome il padre deve aver influito) che Dio ha un piano per lui, è solo questione di tempo.

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Fin da quando muove i primi passi si nota quella goffaggine di chi si ritrova un corpo sproporzionato rispetto ai suo simili. In questo caso i fratelli maggiori fanno comodo e infatti è proprio il fratello Anthony a spingerlo in un contesto dove l’altezza aiuta eccome. Giocano in un playground a 10 minuti da casa ma nel basket (nello sport in generale) oltre al fisico conta la tecnica e Hassan quest’ultima non sapeva nemmeno dove fosse di casa. Comincia a lavorare sul suo gioco e mette insieme una discreta capacità di giocare dal palleggio, che, unita ai 190 centimetri raggiunti alla soglia dei 15 anni, può tornare utile sul parquet. Eppure al momento di scegliere la squadra liceale l’allenatore della Forestview High School lo esclude dai 12 che comporranno il varsity team. Hassan è un freshman ma ci rimane male per il motivo della sua esclusione, riconducibile al fatto che l’allenatore lo reputa troppo piccolo per giocare in area e troppo impacciato per giocare fuori. Ogni giorno Hassan si sveglia sperando di essere cresciuto di un paio di centimetri e ogni notte si addormenta triste perché ciò non era successo. C’è bisogno di una figura paterna e Hasson è presente. Si è lasciato con la madre in maniera piuttosto amichevole e adesso vuole dare una mano al ragazzo affinché possa coltivare questa sua nuova passione. Guarda una partita della scuola (Hassan comunque gioca con la seconda squadra) e rimane allibito dalla totale mancanza di organizzazione nel chiamare una giocata o semplicemente nel segnalare un fallo da parte degli arbitri. Finita la partita il padre media con Debbie per provare a crescere Hassan a Newark, dove potrà competere a un livello più accettabile cestisticamente parlando. Il ragazzo accetta ma impone una condizione: “Viene anche Anthony”.

Hassan e il fratello si trovano a dover vivere con uomo che di solito li accudiva per un mese durante l’estate. Vivere a Newark vuol dire stare lontano dagli altri fratelli (causa terze nozze della madre la prole conta sei elementi in tutto) e confrontarsi con una realtà ben diversa dalla tranquillità amena di Gastonia. Il padre decide di iscrivere i due fratelli alla East Side High School e la giornata tipo subisce decisamente dell’influsso di un ex professionista: mattina sveglia presto e shootaround casalingo prima di andare a scuola, dopo le lezione basket con la scuola, in serata fondamentali con papà e dopo cena i compiti. Hassan si è sempre distinto per la sua vivacità ma quando Debbie chiama (e lo fa spesso) per sentire come vanno le cose, Hasson racconta di un ragazzo educato e taciturno. Magari il termine “cotto” è più appropriato.

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“Strana questa pallacanestro”

Fatto sta che, se per Anthony il talento è una moneta greca di tanti anni fa, per l’altro Whiteside le basi su cui lavorare sono assai promettenti. Nel suo anno da junior chiude la stagione in doppia-doppia di media, sfonda il muro dei due metri di altezza, e riceve la chiamata per un torneo AAU. In questi tornei sono soliti presenziare gli emissari delle varie università a caccia del pezzo mancante per il proprio ateneo. Il problema è che Hassan deve ancora finire il liceo. A notarlo infatti è un certo Chris Chaney, allenatore della Patterson School, un liceo privato famosissimo in North Carolina per il suo programma di basket. Il padre è euforico e il ritorno nello stato dove abita la sua famiglia è cosa fatta. Come ogni grande allenatore anche Chaney ha un approccio piuttosto anticonvenzionale: la sveglia suona alle 5AM e si comincia con una “corsetta” per i Monti Appalachi, dopo colazione si seguono le lezioni e dopo pranzo in palestra per quattro ore buone al giorno. Inoltre Coach Chaney si rapporta con Hassan come se fosse “un cucciolo di cane abbandonato a cui devo insegnare come comportarsi”. Ne ridisegna il posizionamento in post e la tecnica per andare a rimbalzo. Quando ci sono le partite importanti, con mamma Debbie che si fa 90 km di auto ogni venerdì per vederlo giocare, lo tiene quasi sempre seduto. Whiteside non ha idea di quello che passa per la testa di Chaney ma se attualmente è considerato uno dei migliori allenatori liceali della nazione un motivo ci sarà. Chris Chaney ha capito che per Hassan sarebbe controproducente misurarsi con ragazzi che impallinano avversari da quando hanno cominciato a palleggiare. Di ciò però, oltre al morale di Whiteside, ne risente anche il recruting. Il telefono di Chaney suona quasi esclusivamente per sondaggi esplorativi verso il nativo di Gastonia senza particolare interesse per accaparrarselo. Al coach questo non piace e infatti piazza il suo assistito alla prima università che dimostra di fare sul serio: Marshall University.

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Già qualcosa si avvertiva

Sul pino di Marshall siede tale Donnie Jones, il quale è divenuto head coach dopo una decina di anni passati a lavorare nello staff di Billy Donovan in Florida. Nel 2009 per la prima volta si trova ad allenare un ragazzo che potrebbe ambire a diventare un pezzo pregiato per l’NBA di domani. Il problema è che Whiteside non ha particolare voglia di spendere quattro anni della sua vita al college; è intenzionato a starci un anno per poi provare il grande salto. Donnie Jones capisce subito che questo qui ha i mezzi per riuscire nel basket, e proprio per questo pretende da Hassan un impegno maggiore rispetto ai suoi coetanei. Il ragazzo non si capacita del perché deve lavorare maggiormente rispetto a chi non ha il suo talento, ma quando il campo parla, la ragione passa a Coach Jones. A Dicembre c’è la prima tripla doppia, a Gennaio e Febbraio le altre due e nella storia dell’ateneo nessuno le aveva mai fatte. Chiude la stagione con 13,1 punti e 8,9 rimbalzi di media. “Appena arrivato i ragazzi del terzo e quarto anno ridevano perché pensavano che non fossi in grado di giocare 5 al college. Adesso non ridono più”. No effettivamente quei ragazzi non ridono, ma nemmeno Donnie Jones, il quale era riuscito a far breccia nella scorza di Whiteside, convincendolo a farsi almeno un altro anno a Marshall, prima di ricevere la generosa offerta di UFC per il posto di capo allenatore. Sedotto e tradito Hassan non vede altra strada se non quella di buttare il suo nome tra quelli eleggibili al Draft 2010. E qui cominciano i guai.

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I Sacramento Kings lo chiamano con la numero 33 e dopo una discreta Summer League firma un contratto garantito per due anni. Alla guida dei californiani c’è Paul Westphal il quale fa esordire Hassan nella prima partita, concedendogli un minutino scarso nel primo tempo. Questo è il tempo effettivo che Whiteside ha passato su un parquet NBA durante la sua stagione da rookie. Not bad! Viene assegnato ai Reno Bighorns in D-League e finalmente incontra un uomo che lo mette faccia a faccia con la realtà. “La D-League è la cartina tornasole di un giocatore. Non puoi giocare qui pensando che magicamente tornerai un giorno in NBA”. Il pensiero di coach Musselmans diventa un macigno nella testa del nostro. Anche il fratello Anthony prova a fargli capire che il suo body-language è sbagliato; Hassan gioca ogni partita con i Reno Bighorns come se fosse un semplice allenamento, e passa le ore in attesa di una chiamata dai Kings per tornare su un parquet NBA. La stagione successiva, con l’arrivo di Keith Smart in panchina, gioca 18 partite in biancoviola, senza lasciare minimamente il segno. Non basta nemmeno il solito amore incondizionato di mamma Debbie, la quale a week-end alterni si metteva ai fornelli per il figlio (attitudine di cui beneficiava soprattutto Demarcus Cousins) e passava parecchio tempo a parlarci. “Tutti mi chiedono che cosa sia scattato dentro di me. A dire la verità io pensavo di poter fare la differenza anche allora, semplicemente non c’erano le condizioni per dimostrarlo”. No qualcosa deve essere scattato, i Kings lo scaricano nel 2012 e Whiteside capisce che non può vivere con l’ossessione di dover elemosinare un decadale per il resto della sua vita, meglio andare dove il basket è ancora in fase embrionale. Un conto, tuttavia, è andare a giocare altrove, un conto è firmare con l’Amchit Club, IN LIBANO!

Parliamoci chiaro: a livello tecnico non ce n’era per nessuno ma vivere tutto il giorno scortato da poliziotti che imbracciano un AK-47, pronti a sparare a vista, non è proprio il massimo dal punto di vista umano. Dopo un annetto scarso decide di provare in Cina, dove l’asticella è un po’ più alta, il tenore di vita decisamente più alto, ma per il resto siamo punto a capo. Hassan non riesce ad abituarsi a usi e costumi (ma soprattutto al cibo) di una popolazione che vede uno statunitense come un corpo estraneo, un esploratore indesiderato. All’ombra della Grande Muraglia si guadagna il premio di MVP e difensore dell’anno in regular season, guidando il Sichuan Blue Whales alla conquista del titolo. Tuttavia a livello di ambientamento proprio non ci siamo e nel 2013 torna in Libano, per poi pentirsi e tornare ancora una volta in Cina e avrebbe continuato così all’infinito se non fosse stato per Darren Tillis. Ex cestista passato anche per Pesaro e assistente di quel Donnie Jones seduto sulla panchina di Marshall University nel periodo in cui frequentava Whiteside. Tillis è in Cina per visionare dei giocatori e quando vede giocare un ragazzo con un potenziale simile non riesce a capacitarsi di come non abbia ancora sfondato nel basket, quello vero. “Senti se vuoi rimanere un signor nessuno almeno vai in Europa, io ci sono stato e ti assicuro che si vive molto meglio. Ma se vuoi lasciare il segno torna in America, non te ne pentirai”. Il mondo NBA non si è nemmeno accorto del suo passaggio intorno alla stratosfera della lega più famosa al mondo, Hassan è veramente uno sconosciuto che nei radar ci deve ancora entrare. A dargli una chance in D-League è Iowa Energy.

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Al primo allenamento coach Hazard rimane allibito di fronte al gioco del nativo di Gastonia, promettendogli che se questo sarà il suo impatto in partita allora in NBA ci andrà e guadagnerà anche bene. La prima partita (contro i Reno Bighorns tanto perché il destino si fa gli affari suoi) piazza un 30+22 con 8 stoppate che scredita ogni tipo di illazione circa la sua condizione fisica dopo un paio di anni lontano dai parquet statunitensi. A fine partita si dirige verso Hazard e riemerge quel lato strafottente che aveva soffocato durante i suoi anni di esilio: “Coach avevi detto che un giorno potevo ambire a un contratto da 20 milioni di dollari. Dopo questa partita direi anche 40!”. Passano un paio di giorni e Pat Riley lo convoca a Miami per un work-out sotto la supervisione di Erick Spoelstra. Il giorno dopo firma con i Sioux Falls Skyforce, l’affiliata in D-League degli Heat. È il 24 Novembre 2014 quando Whiteside firma il suo primo, e unico, decadale con i Miami Heat. Bisognerà aspettare il mese di Gennaio prima di alzarci tutti in piedi, levarsi il cappello, e ammettere che in Florida c’è un nuovo principe del Foro. Il 4 c’è la prima doppia-doppia contro i Nets, il 25 lo United Center è teatro di una performance totalmente irrazionale del numero 21: 14 punti, 13 rimbalzi, 12 stoppate. Nessuno negli ultimi 25 anni si era avvicinato a statistiche simili, nessuno nella storia dei Miami Heat aveva scritto dodici alla voce stoppate, lui tutto questo lo ha fatto partendo dalla panchina. Verticalmente è uno dei primi 5 giocatori NBA, ha iniziato la stagione 2015-2016 mettendo a referto almeno due stoppate per le prime 21 partite. Meglio di lui hanno fatto soltanto Mark Eaton e Shaquille O’Neil. Attualmente viaggia a 14,1 punti 11,8 rimbalzi e 3,8 stoppate ad allacciata di scarpa; qualora riuscisse a scrollarsi definitivamente di dosso la nomea del ragazzo irascibile (citofonare Len e Olynik) allora, a 27 anni ancora da compiere, potrebbe seriamente onorare l’arduo paragone pronunciato da Bob Cousy. Tra l’altro non è detto che lo faccia vestendo la maglia degli Heat, dal momento che a fine anno sarà unrestricted free-agent e un tipo di 213 centimetri che corre, salta, schiaccia e difende alla morte rischia di far comodo a parecchi. L’impressione che Ivan Drago sia destinato ad andare giù sotto i colpi di un Rocky Balboa from Gastonia è molto forte.

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