Era una di quelle classiche domeniche sere in cui sei stanco, ma non hai realmente voglia che arrivi lunedì e quindi cerchi, invano, un escamotage per non cedere al sonno. Flavio Tranquillo con la sua voce stava accompagnando il mio dormiveglia, come molto spesso mi accade, questa volta però verso le due mi risveglio di colpo. La luce del mio cellulare spezzava il buio della cameretta, così lo prendo senza nemmeno rendermi bene conto di cosa fosse successo e leggo: “Kobe Bryant announces his retirement…“. D’istinto mi si gela il sangue, il mio primo pensiero però, è ‘Ma no dai, non è vero, lo dice per caricarsi, deve ancora vincere il sesto anello.. impossibile’. Poi però il bambino lascia spazio al ragazzo e mi rendo conto che sì questa è, sarà l’ultima stagione agonistica di Kobe Bean Bryant.
Ed a questo punto i pensieri sono milioni ed affollano la mia testa per ore, ma una domanda spicca sulle altre ‘Cosa mi rimarrà di Kobe?‘ Riafforano i ricordi di venti stagioni, tutte con la casacca gialloviola ovviamente, prima la 8 poi la sua 24. L’alzata per Shaq in gara7 contro i Blazers, l’overtime di gara4 di finale contro Indiana nell’anno del primo titolo a 21 anni, i due liberi da party crasher nell’ ultimo All Star Game di Jordan, la tripla allo scadere di gara2 contro Detroit nel 2004, gli 81 punti, le sfide con McGrady ed Arenas, il canestro vincente contro Phoenix, la perfetta gara6 a Denver nel 2009 quando tornò al titolo da mvp, l’aeroplanino di nuovo contro Steve Nash ed i suoi Suns nel 2010, l’incredibile terzo quarto di gara5 di finale a Boston, il quinto titolo, i due liberi segnati per portare i Lakers ai playoffs nel 2012 senza il tendine d’Achille e mille altre ancora. Ma non bastano, penso, a descrivere chi è stato questo fuoriclasse, che si è sempre allenato più di tutti anche quando era indiscutibilmente il più forte di tutti. Ed allora mi torna una frase, proprio di Flavio Tranquillo che dopo gli 81 punti contro i Raptors ha la lucidità di dire ‘Questo è Kobe Bryant, discutibile anche nella sera in cui ne mette ottantuno,discutibile per eccellenza’. Ed ha ragione, discusso e discutibile se ce n’è uno, ma c’è un motivo. E’ un uomo, a differenza di molti fenomeni dello sport, Bryant è terribilmente umano. Ed ecco ora so cosa mi ricorderò del ventiquattro: il 4o quarto di gara7 contro Boston, 2010.
Kobe sta giocando la sua miglior pallacanestro da quando è entrato nella lega, ma è esausto, ha giocato tre serie pazzasche trascinando i suoi contro Oklahoma, Phoenix e portandoli sino all’ultimo atto delle Finals. E’ l’uomo più atteso, è la sfida più attesa : Lakers contro Celtics. Ma quando Derek Fisher sta tenendo il discorso nell’ultima pausa prima dell’ultimo e decisivo quarto, Los Angeles è sotto di 4 e lui sta tirando con il 20% dal campo (5/20). Phil Jackson decide di tenerlo seduto per i primi minuti.
Il momento però arriva, rientra, Ha troppa pressione addosso ed è troppo stanco per fare il Kobe Bryant ed allora ecco l’uomo che capisce che vincere è troppo importante ed ha solo un modo per aiutare la sua squadra a vincere, dare tutto e più di tutto per i compagni. Chiuderà con 20 punti e 15, sì quindici, rimbalzi. Ed il tiro che spezza deifnitivamente le gambe dei Celtics che si sono visti rimontare 12 punti, è suo in isolamento dalla punta contro Ray Allen. Ha deciso la partita, senza farlo notare a nessuno, perchè la sua concentrazione gli ha permesso di fare tutto ciò che serviva alla squadra per vincere, compreso rinunciare per una volta ad essere l’uomo copertina.
Kobe non è Jordan. Jordan è dio, Kobe è un uomo. Un uomo che ha sfiorato l’olimpo con un dito, ma pur sempre un uomo. Un uomo che ha saputo essere un leader straordinario, travestendosi da dio quando i compagni ne avevano bisogno. Il più forte uomo ad aver mai scagliato qualcosa dentro un canestro. Thank you for the memories.
Marcello Ponti