Libano, culla delle civiltà antiche; Sidone e Tiro nate sotto la civiltà fenicia, Ciro il Grande imperatore persiano, Alessandro Magno e la sua idea di dominare il mondo secondo i dettami della cultura greca , la dominazione romana, l’avvento dell’Islam con le campagne dei Mamelucchi e l’assoggettamento all’Impero Ottomano. Fino ad arrivare ai giorni nostri, un paese che da anni vive tra sottili equilibri e continue lotte tra cristiani, ebrei e mussulmani. È il Libano e più precisamente Beirut la terra natia di un uomo che farà parlare di se a migliaia di kilometri di distanza. Il Libano in effetti non è entrato spesso nella cartina geografica dei grandi eventi sportivi, ma in questa storia ricopre un ruolo importante, perché agli albori di una carriera sportiva da destinare ai posteri, la terra del vicino oriente fa da culla e da motore propulsivo.
La vita di Steven è all’insegna dei grandi trasferimenti, come accade ai figli dei diplomatici. Un po’ qui e un po’ la in giro per il mondo, che se da un lato può sembrare faticoso e fastidioso, perché manchevole di una dimora fissa e di amici da abbandonare ancor prima di poterli definire tali, in realtà è ciò che di più formativo ci possa essere. Una vita all’insegna della comprensione di lingue e culture diverse da cui attingere il meglio di ognuna di esse. Il giovane Steven cresce e si dedica al basket, e dopo gli innumerevoli viaggi al seguito del padre, decide di frequenta l’università di Arizona e di tornare quindi nella terra madre, gli Stati Uniti d’America.Il pedigree del ragazzo di Beirut non è il classico mix di stenti e problemi familiari dei fratelli neri ma le storie da raccontare sono tante e il carattere è piuttosto particolare. È il 1984, quando nel campus dei Wildcats arriva la telefonata che non ti aspetti. Dall’altra parte del telefono c’è un caro amico di famiglia che ha il compito ingrato di raccontare a Steven l’accaduto. Un miliziano libanese ha ben deciso di prendersi la vita di Malcom Kerr, allora presidente dell’American University a Beirut, togliendo all’amore della famiglia il mentore, la guida, il faro. Il figlio Steven, a tutti noto come Steve, non fa una piega, appoggia la cornetta e torna in camera sua. Il giorno dopo, invece di presenziare alla tumulazione del padre, disputerà la miglior partita della sua stagione da matricola; 5 triple su 7 e vittoria per gli Wildcats di Arizona, una prestazione pazzesca in un clima surreale vista la delicatezza dei fatti appena accaduti, il tutto attraverso uno sguardo impenetrabile e un aplomb disarmante che genererà il soprannome per Steve: “Ice”. In Arizona resta dal 1983 al 1988 e all’ultimo anno raggiunge le Final Four, prima di essere scelto al secondo giro dai Suns con i quali resterà solo un anno prima di essere ceduto ai Cavs di Cleveland. La svolta nella carriera da Pro di Steve è nel 1993. A firmarlo sono i Bulls, appena abbandonati da Jordan volenteroso di cimentarsi nel Baseball dopo aver realizzato il suo primo Three-paet . La squadra non è un gran che senza il 23 e i playoff sono troppo duri per poter andare avanti. Serve un rinforzo, o meglio un ritorno. Jordan torna, viste anche le alterne fortune nel baseball, ma ha bisogno di dimostrare di essere ancora il padrone di casa, di rimettere in sesto quelle gerarchie che lo hanno portato a tanti successi. E l’occasione di abusare di un biondino, tra l’altro nato in Libano, è piuttosto ghiotta. Baruffa nella quale il piccoletto da Beirut non si tira indietro. Sarà il suggello della nascita di un rapporto di fiducia tra Michael e Steve che culminerà con il secondo Three-peat e la totale fiducia del capo nel fido scudiero. L’emblema di questo rapporto sta tutto in una semplice azione. United Center di Chicago, “Be ready Steve”. E Steve si fa trovar pronto. Canestro decisivo in Gara 6 contro Utah quando tutti si aspettano l’ennesima magia di MJ ed ennesimo titolo per la franchigia dell’Illinois.
Dopo i tre titoli a Chicago Steve si trasferisce in Texas sponda San Antonio nella quale incrementerà la sua argenteria contribuendo ai primi due titoli degli Spurs prima di abbandonare il basket giocato. La vita da ex giocatore resta comunque legata alla palla a spicchi, la famiglia e i figli diventano la priorità, ma Steve da commentatore per TNT resta all’interno di un mondo che lo affascina e che non riesce a lasciar andare via. Ma per un competitore come Steve il microfono non può bastare. La storia si ripete, è di nuovo Phoenix ad aprire le porte della NBA; dal 2007 al 2010 viene assunto come General Manager, ruolo nel quale non si distinguerà per affari favorevolissimi per la sua franchigia (vedi scambio Marion – Shaq che segnerà la fine del Seven Second or Less dei Suns D’Antoniani). Anche il ruolo di GM va stretto a Steve che necessita di qualcosa di più, di un ruolo che gli ridia l’adrenalina del campo, come ai tempi dei Bulls o di San Antonio. È il 2014 quando le strade degli Warriors e di Mark Jackson si separano. La baia ha bisogno di un nuovo Head Coach e per Steve si materializza il sogno di tornare a respirare l’aria del parquet.
Ai suoi ordini una quantità di talento fuori misura, gestita da una proverbiale saggezza e calma che infonde sicurezza e consapevolezza ai propri giocatori. Una famiglia, un’isola felice, un emblema alla collaborazione e al sacrificio dalla quale non è mai traspirato un intoppo o una crepa. Alzi la mano chi ha mai visto Kerr approcciare un time out in modo isterico; una calma olimpica, una pace interiore che trasmette a Curry & C. la sicurezza di poter ribaltare in ogni momento qualsiasi situazione, anche contro lo strapotere di Lebron nelle Finals 2015. Il primo anno è da incorniciare, allenatore della Western Conference all’All Star Game e titolo per gli Warriors. La stagione 2015/2016 inizia con Kerr lontano dalla panchina per problemi alla schiena ma la sua mano si vede anche in contumacia. Luke Walton inizia la stagione con un 39-4 e la stagione si conclude con 73 W e 9 L, record assoluto nella storia NBA. Lo Steve allenatore batte lo Steve giocatore che con i Bulls fece registrare il 72-10 nel 1996. Stanotte Kerr, con la vittoria dei suoi Warriors contro Houston, vittoria che ha sancito il passaggio al secondo turno, ha alzato per la prima volta in carriera il titolo di Coach of the Year. Una carriera da allenatore che nel giro di due anni ha riservato solo soddisfazioni. Ora la strada si fa impervia perché se vincere è difficile, ripetersi lo è molto di più, soprattutto con il tuo giocatore di riferimento fermo ai Box. Ma Steve ha le risorse per tirar fuori dai suoi uomini la convinzione che tutto è possibile. Perché come in una famiglia, l’unità di intenti e la protezione reciproca permettono di uscire indenni dalle difficoltà della vita, proprio come aveva insegnato papà Malcolm.
Checco Rivano