Cleveland – All Star Game 1997
Mr. Spalding: <Vede dottore quei due ragazzi in piedi vicino a Wilt, Magic, Larry e Michael?
Medico: <Si, mi sembrano un pochino fuori contesto. Ma chi sono?>
Mr. Spalding: <Si ricorda il giorno che ci siamo conosciuti? A Pasadena, nell’ottantotto. Un amico chiamò il 911 dalla cabina appena fuori dalla palestra in cui stavamo giocando tra amici. Il mio carissimo amico si accasciò a terra e perse conoscenza. Lo portarono in ospedale ma non ci fu nulla da fare. Ricorda?>
Medico: <Ah si, ricordo eccome. I paramedici raccontarono che l’ambulanza arrivò a sirene spiegate ma la situazione sembrava essere già ampiamente compromessa. Quando arrivò all’obitorio uno strano sorriso solcava il viso del suo amico, quasi a dire “finalmente sono riuscito a rivivere, a riassaporare la gioia nel mio cuore”. L’autopsia mi fece trasalire. Pensai “questo è un pazzo”. Alla sua età, senza l’arteria coronaria sinistra, come gli saltò in mente di mettersi a giocare a basket. È stato un suicidio. Una persona con quella malformazione cardiaca non sarebbe dovuta sopravvivere oltre i primi anni di vita. Ricordo benissimo>
Mr Spalding : < Ecco Dottore, quei due ragazzi sono i suoi figli. Si segga qui che le racconto la vita del mio caro amico Pete.>
Immaginatevi di essere seduti in una panchina alla fermata dell’autobus nella quale a raccontarvi la storia è l’unica cosa al mondo che abbia stretto un forte legame con il nostro personaggio. La sua storia ha dell’incredibile, tanto quanto quella di chi, della sua storia raccontata seduto in una panchina con una scatola di cioccolatini in mano, in attesa dell’autobus, ha fatto la fortuna di Robert Zemeckis e Tom Hanks, facendo emozionare migliaia di persone.
Mr Spalding: < Caro dottore, lei deve sapere che, originario della Serbia, Petar, noto Press per il suo impiego adolescenziale da ragazzo dei giornali, causa volontà dell’amata, serba anche lei, dovette abbandonare la carriera da pilota di caccia per dedicarsi ad una attività meno pericolosa. La scelta ricadde nel basket, più precisamente allenatore di basket, e non nelle migliaia di fornaci e acciaierie che a cavallo fra l’ ‘800 e il ‘900 avevano invaso la Pennsilvanya e tutto l’Est degli Stati Uniti attirando migliaia di migranti europei alla ricerca di un posto di lavoro e di una crescita sociale. Dio benedica tale scelta. Quella di Press per il basket era una passione immensa, senza limiti che sfocia in ossessione nel 1947, alla nascita del suo secondogenito. Pete. È grazie a Press che ho conosciuto Pete. Un giorno mi prese, mi infilò dentro una scatola e quando rividi la luce del sole mi trovai di fronte il viso estasiato di un timido bambino di due anni. Canotta, scarpette , un canestro e me, fino dagli albori della vita. “Palleggia Pete.” “ Fai qualche tiro Pete.” “ Sali su in macchina e mentre io guido aumentando la velocità, tu tieni vivo il palleggio coricato a pancia in giù sul sedile posteriore facendo rimbalzare la palla al di fuori dell’abitacolo.” “Ok ora puoi tornare a tirare”. E Pete eseguiva, al chiuso e all’aperto, al sole e sotto la pioggia, sul cemento e sul fango, farfugliandomi parole dolci, prendendosi sempre cura di me. Poco importava dove si trovasse, l’importante era farmi rimbalzare, creare un rapporto inossidabile con me. Di certo crescere così significa lasciare poco spazio ai rapporti con gli altri esseri umani e Pete cresce particolarmente introverso e poco propenso alla socializzazione. Ma una cosa la sa fare bene. Giocare a Basket e le sue interminabili sessioni di tiro si fermano solo quando gli occhi non mettono più a fuoco il ferro per sopraggiunta oscurità e anche li, devo dire che il più delle volte , faceva finire la mia corsa tra il cotone della retina, tranquillizzandomi ad ogni rilascio. Così si crea un mostro, e Pete la mostruosità del suo talento cestistico, frutto dei geni slavi e dell’allenamento incessante, la dimostra già da appena tredicenne nei confronti di chiunque abbia una palla in mano. Con me al suo fianco si sente invincibile, sfida chiunque, e chiunque batte. Gli allievi del padre sono sonoramente bastonati a ogni gara di tiro e il tiro dall’anca, quasi a scimmiottare Clint Estwood che estrae la Colt dalla fondina, gli vale l’appellativo di Pistol Pete. Quando un uomo con una palla in mano incontra e sfida un ragazzino di nome Pistol Pete, l’uomo con la palla in mano è un uomo morto. Pete cresce e del suo gioco se ne parla fin da subito. È letteralmente fuori epoca, sembra sbarcato dal futuro, fa cose che gli umani non possono nemmeno immaginare e insegnerebbe tanto anche in questo All Star Game caro Dottore. Un ball handling inaudito ad una velocità mai vista. E quello che mostra alla high school è ben presto fonte di attrazione per i college di tutti gli States. Figuratevi quale ateneo possa scegliere. La squadra allenata dal padre naturalmente: LSU.
LSU diventa il college da seguire per gli amanti della palla arancione della costa atlantica, ondate di pubblico si riversano nelle città nelle quali arriva il circo dalla Luisiana, con attrazione principale il pistolero da Aliquippa. È inutile star qui a spiegare ogni singolo movimento, azione, passaggio, sia esso dietro la schiena, sopra la testa in mezzo alle gambe o stile bowling. Le basti sapere che la sua media realizzativa al college fu 44 punti, senza il tiro da tre, e chi se ne frega se non ha mai vinto il titolo NCAA. Ventotto volte sopra i cinquanta. Impraticabile, impensabile. Il miglior giocatore di college basket mai visto. Il tutto in un corpo smilzo, che però, adorno di quella capigliatura, con quei calzini al ginocchio e quella musicalità tutta nuova nel modo di giocare, fa tendenza. Eccome se la fa. Esce dal college con la numero 3 e si rimane nel sud degli stati uniti. Atlanta Hawks. Un giorno lo sentii parlare tra se e se: “They don’t pay you a million dollars for a two hand chest passes”. Questo è il mantra dell’inizio carriera Nba di Pistol Pete, questa frase racchiudeva tutta la sua essenza e la sua unicità. E un milione di dollari a stagione è il suo stipendio da rookie; una follia nel 1970, ma d’altronde era l’unico artefice in tutto il pianeta terra in grado di inscenare un tale spettacolo con la palla in mano. Gli Hawks cambiano in fretta il parere sul giovanotto da LSU. Accolto come Gesù a Gerusalemme ben presto ci si rende conto che il divario di interpretazione del gioco tra lui e i veterani a contratto è abissale. Non si prendono, non si capiscono e gli Hawks vanno fuori al primo turno dei play off. Crocifissione in pubblica piazza per Pete. Il rapporto con Atlanta non decollerà mai, Pete prende sul personale le critiche e nonostante metta in mostra un basket celestiale la squadra non lo supporta e lui si isola. È da li che arriva il mio suggerimento:“È ora di cambiare aria Pete, andiamo via da qui, a New Orleans ci aspettano, hanno creato una squadra nuova e li noi siamo i benvenuti, siamo amati.” E Pete si fidava di me, sapeva che quella era la scelta giusta, per ritornare a essere felice in un campo da basket, per tornare a deliziare tutti. New Orleans fu.
I Jazz non erano proprio fortissimi, anzi diciamo pure che erano una delle peggiori squadre della lega, ma in Luisiana Pete era il re del parquet, nessuno lo giudicava per la sua spregiudicatezza dentro al campo, nessuno criticava le sue visioni. Lo adoravano. Fece impazzire tutte le difese della lega, chiuse una stagione a 31 punti di media con il picco di 68 punti contro NY marcato da Walt Frazier. Ma si sa che tutto è destinato a finire, a diradarsi, ad affievolirsi verso una inesorabile fine. L’inizio della curva discendente purtroppo lo decreta un infortunio gravissimo al ginocchio, dal quale Pete non si riprenderà più. Tornerà con i Jazz nel frattempo trasferitisi a Utah ma non sarà più lo stesso. Avrà anche l’occasione di giocare per Boston, una squadra da titolo, per raggiungere il giusto premio per tanta capacità di gioco. Ma Boston vincerà solo quando Pete , resosi conto di non essere più il giocatore più straordinario che la lega avesse mai visto, avrà deciso di ritirarsi, nonostante il suo 67% dal campo, nonostante continuasse a regalarmi il profumo del cotone piuttosto che la durezza del ferro. Pete e me, io e Pete. Una volta lasciato il basket, a soli 34 anni, Pete si perde nei meandri di una psicologia labile, di un carattere socialmente inadatto. Mette da parte il nostro rapporto per dedicarsi ad altro; è il periodo più brutto della mia vita, abbandonato da chi mi ha sempre trattato come un fratello, ma soprattutto è il periodo più brutto per lui. Abbraccia teorie ultraterrene, si ritiene convinto dell’arrivo degli alieni sulla Terra, assume alcool a perdizione, cambia religione come fosse un abito, entra in una spirale che lo rilegherà ad un contesto mentale paranormale, come paranormale era il suo modo di esprimersi in campo. E perde il padre ormai da tempo ammalato di cancro. Ma nessuno si scorda di Pete, i Jazz ritirano la sua maglia e a soli 39 anni viene inserito nella Hall of Fame, il più giovane di sempre a godere di tale privilegio. Il cristianesimo lo redime, lo fa risollevare, gli da un motivo per credere che la vita debba essere vissuta anche fuori dal campo. Riallaccia i rapporti con me e mi porta con sé a Pasadena: “Si torna in scena amico mio, si torna in scena”. Ero elettrizzato,aspettavo da tempo quel momento, la possibilità di ricongiungermi con colui che ho sempre stimato e rispettato e con cui ho condiviso tutta la mia vita. Scendiamo in campo e il dolce abbraccio del cotone mi fa risentire giovane, mi riporta indietro nel tempo; ben tornato amico mio, penso tra me e me, e l’umore è alle stelle. “I feel graet” mi sussurra con il sorriso stampato in faccia appena prima dell’ennesima gita verso il fondo della retina, e…..boom!!! Nel mentre rotolo verso di lui si accascia a terra, a rivivere, in quegli attimi di respiro che separano la vita dalla morte, tutto ciò che il basket gli ha dato, ma soprattutto tutto ciò che lui ha dato al Basket. L’espressione del suo volto sembrava dire “ tranquillo amico mio sono felice di concludere qui il mio viaggio su questa terra, con il profumo del tuo cuoio e il suono indimenticabile del cotone”. Ecco dottore, questa è la vita di chi ha ha analizzato sul quel lettino da obitorio.>
Medico: < Tutto questo non è possibile, non è realistico>
Mr Spalding: <Lo so è incredibile ma non mi stupisco che lei non creda a tutto ciò, perché francamente a tutto ciò che ha fatto Pistol Pete Maravich hanno faticato a credere tutti quelli che, pur essendo presenti, non sono mai riusciti a spiegarsi se fosse tutto vero o se se fosse tutto un trucco.>
Ora alzatevi da quella panchina sulla quale avete ascoltato questa incredibile storia e ogni volta che ricordate di aver visto Magic fare un dietro schiena o un no look, ogni volta che rivedrete Larry Bird fare il passaggio sopra la testa dal post, per ogni volta che ricorderete le giocate di Isaiah Thomas, e ogni volta che vedrete Curry tirare dal palleggio, da fuori dal campo in riscaldamento, da centrocampo o dalla sua area, pensate che c’è stato un genio in grado di ispirare ognuna di quelle singole giocate: Pistol Pete Maravich.
Checco Rivano
@checcorivano