Odiati, disprezzati, spesso insultai, la storia dei Detroit Pistons nell’ultimo ventennio del ‘900 si districa tra questi epiteti usati abbondantemente da chiunque non tifasse per i “Bad Boys”. I tempi di Isiah Thomas e Chuck Daly sono ormai un pallido ricordo per la MoTown, la quale dopo aver spremuto ogni goccia di basketball dall’incredibile talento di Chauncey Billups si è ritrovata smarrita, in cerca di una guida, aspettando una nuova generazione di talenti per tornare a guerreggiare con le grandi.
NBA Finals: 7
Vittorie: 3
Antefatti
La verità è che tutto ha iniziato a prendere una brutta piega nel 2013 quando, reduci da una stagione chiusa in undicesima posizione ad Est, i Detroit Pistons fecero il passo più lungo della gamba, cercando di passare dall’undicesima alla seconda posizione in Conference (finché c’è Lebron si gioca per la seconda). In estate arriva in pompa magna e sotto lo scrosciante suono delle banconote versate nel suo conto corrente Josh Smith, il quale si accasa a Detroit per la modica cifra di 54 milioni di dollari per 4 anni. Il salary cap era già abbastanza intasato da contratti pesanti ma non necessariamente adeguati (Villanueva, Stuckey) ma il GM Joe Dumars, ancora non del tutto soddisfatto, imbastì una trade per arrivare a Brandon Jennings. A percorrere la tratta opposta verso Milwaukee furono due prospetti di ottime speranze come Brandon Knight e Khris Middleton pronti a diventare pedine importanti nel rebuilding dei Bucks. Adesso mancava la guida spirituale per oliare i meccanismi e far girare l’orologio brillantemente. Per fortuna nello sport la componente romantica rimane un valore inestimabile, tuttavia quando interferisce con il processo decisionale rischia di traviare le scelte nella stanza dei bottoni. Dumars riporta a Detroit Chauncey Billups, alla non più florida età di 37 anni e con una vistosa propensione agli infortuni che nelle ultime tre stagioni gli ha permesso di giocare appena 63 partite. La bilancia rischia seriamente di pendere da una parte o dall’altra senza possibilità di correggere il tiro, e la squadra affidata a Maurice Cheeks va incontro ad una stagione tutt’altro che scoppiettante.
La squadra basa molte delle sue possibilità sulla verve sotto le plance dei sue due giovani lunghi Monroe e Drummond. Se il primo è un discreto rimbalzista che sta cercando di mettere in faretra un jumper affidabile dalla media (tira con il 31,9% dal mid range) l’altro è letteralmente un animale quando la palla sbatte sul ferro. Cattura 13,2 rimbalzi per partita (secondo soltanto a Deandre Jordan) di cui 5,4 sono offensivi, ben 1,4 in più del suo collega in maglia Clippers. Chiuderà la stagione con 57 doppie-doppie alle spalle di quella macchina da punti e rimbalzi di Kevin Love e se i Pistons sono la squadra che fa più punti da seconde opportunità (16,1 come i Blazers) e quella che fa più punti nel pitturato (51,9) buona parte del merito va attribuita al sophomore di Mount Vernon. Il problema è che le note positive per coach Cheeks finiscono più o meno qui. La contemporanea presenza di Monroe e Drummond sul parquet assicura certamente un buon numero di second chance ma complica incredibilmente le scelte dei tiratori e aiuta molto le difese avversarie. Entrambi i lunghi affollano considerevolmente l’area e la difesa può aspettare tranquillamente le penetrazioni dei vari Jennings, Bynum e Billups, di contro se i Pistons provano ad aprire il campo la situazione peggiora notevolmente.
Soltanto il 18,4% dei punti segnati in una partita provengono da oltre l’arco (Kings, Pelicans e Grizzlies fanno peggio), la squadra è quarta per tentativi dal campo ma prova soltanto 19,3 triple a partita che converte con un misero 32,1% meglio soltanto dei Sixers. La presenza di gente come Datome e Jerebko e l’arrivo via draft di Kentavious Caldwell-Pope dovevano funzionare da catalizzatore per le penetrazioni di Jennings e il gioco in post di Smith, essendo i tre sopracitati pronti a punire in situazioni di catch and shot. Peccato che i due europei finiscono ben presto nel dimenticatoio, Caldwell-Pope si dimostra un giocatore ancora acerbo e un tiratore sopravvalutato e le due superstar su cui la squadra avrebbe dovuto poggiare non fanno niente per meritarsi questo status. Risultato: le difese avversarie devono preoccuparsi soltanto di quello che succede nel pitturato, Cheeks viene cacciato a Febbraio e la squadra chiude con un record di 29-53, bissando l’undicesimo posto della stagione precedente. A coronare il fallimento del Front Office del Michigan ci sono gli impietosi numeri di Josh Smith: l’uomo arrivato per risollevare le sorti dei Pistons chiude la stagione con 3,4 tentativi da oltre l’arco per partita che rappresentato il suo massimo in carriera ma li converta con un poco confortante 26%. Inoltre tira 3,9 liberi a partita e qui invece siamo ai minimi in carriera e anche il 53% dalla linea di carità dimostra che le armi a disposizione del numero 6 sono decisamente inferiori al contratto offertogli.
In estate parte la rivoluzione e Joe Dumars è la prima testa a cadere, dopo 29 lunghissimi anni alle dipendenze della franchigia, prima come giocatore e poi come executive. I Pistons devono trovare un allenatore e la scelta ricade su Stan Van Gundy il quale oltre al pino vuole anche una scrivania a-la-Phil Jacskon, diventando quindi President of Basketball Operations. L’obiettivo primario è capire in quale direzione vuole andare la squadra e l’idea di Van Gundy è concentrare le difese in area, rallentare il ritmo se necessario, e poi aprire il campo. Già ma passare dalle intenzioni ai fatti risulta un’ impresa non da poco e a fine Dicembre diventa necessario rilasciare Josh Smith tramite stretch provision. La mossa suggerisce una propensione verso una chiamata alta al draft ma sorprendentemente è come se la squadra si fosse liberata di un fardello e adesso giochi senza nulla da perdere. Arrivano 7 vittorie in fila, finalmente da tre punti la squadra comincia a ingranare segnando 8,6 triple a partita e sotto i tabelloni è sempre un dominio della MoTown. Tuttavia il 25 Gennaio Jennings è costretto a fermarsi per via del tendine di Achille sinistro che ha fatto crack; sarà necessaria un’operazione e l’ex virtussino non tornerà in campo per il resto della stagione e per buona parte di quella seguente. Il nuovo GM Jeff Bower si rituffa sul mercato e durante la trade deadline porta a casa una point guard di prospettiva che risponde al nome di Reggie Jackson in cambio di Singler, D.J. Augustin e una seconda scelta al draft. Nello stesso giorno c’è un’altro ritorno altrettanto romantico perché da Boston arriva Tayshaun Prince in cambio del nostro Gigi e di Jerebko. Qualche giorno prima di questa trade, l‘ultima recita di Billups al Palace of Auburn Hills
La stagione si chiude con 32 vittorie e un anonimo dodicesimo posto ad Est ma intanto la squadra subisce 106,4 punti ogni 100 possessi (3,3 in meno rispetto alla passata stagione), il 26,1% dei punti sono scaturiti da un tiro da 3 e il 58,2% dei canestri sono assistiti, decisamente meglio del 53,9% della gestione Cheeks figlio di cattive spaziature e pessime letture. Adesso c’è una base da cui partire e l’evoluzione del gioco convince Van Gundy a puntare su uno stretch four che risponde al nome di Ersan Ilyasova. Arriva anche un uomo di esperienza come Steve Blake e un’ ala reduce da buone stagioni a Phoenix come Marcus Morris, il tutto considerando che il problema della convivenza tra Drummond e Monroe non esiste più dal momento che quest’ultimo ha accettato il contratto dei Bucks. Le alchimie della squadra adesso si basano sui lampi di Jackson e sulla crescita esponenziale di Drummond, il quale macina record tra punti e rimbalzi che a Novembre lo portano ad essere l’unico giocatore insieme a Chamberlain e Jabbar ad aver collezionato tre prestazioni da 20+20 nelle prime sei partite. Il suo impatto è mostruoso, ha un’esplosività devastante e chiuderà la stagione con 14,8 rimbalzi a partita e 4,9 offensivi primeggiando a mani basse in entrambe le categorie. Si concederà il lusso addirittura di superare un record stabilito da Chamberlain, infatti il 20 Gennaio a Houston sbaglierà 23 tiri liberi in una singola partita, quando il semidio di Philadelphia si era fermato a 22. Le percentuali dalla lunetta e una difesa spesso e volentieri troppo passiva sono gli unici motivi per cui non è considerato ad oggi il miglior centro in attività del pianeta (non è detto che non lo possa diventare). Tuttavia si fa strada nei pensieri di Van Gundy il sospetto che sia sorto un altro problema di convivenza tra Ilyasova e Morris ma questa volta la squadra arriva all’All-Star break con il record di 27-27, ancora in corsa per un posto ai playoff. Il vecchio Stan decide di tagliare la testa al toro e imbastire una trade sacrificando Ilyasova e Jennings per arrivare a Tobias Harris e qui cambia tutto. Harris si presenta dopo la scambio ai microfoni di ESPN con la frase: “I’m ready to make the playoffs!”.
In effetti il contributo dell’ex Magic è notevole anche perché gioca il pick and roll da bloccante come da portatore di palla e in più con Morris da 4 e le percentuali al tiro decisamente migliorate (Harris tira con il 37%, Morris con il 36%) i difensori avversari devono cominciare anche a preoccuparsi di quello che succede lontano dal pitturato. Con Harris in campo l’Offensive Rating schizza a 120, dato un po’ pompato dalle sole 27 partite giocate, ma indicativo del contributo che può dare nella metà campo offensiva. Quando bisogna alzare l’intensità in difesa da 3 gioca Stanley Jhonson rookie da Arizona che, oltre ad essere un difensore tra i migliori in prospettiva, tende anche a surriscaldare le sfide contro personaggi leggermente più conosciuti di lui. Alla fine l’obiettivo playoff viene raggiunto grazie a un 44-38 finale che garantisce l’ottavo posto ad Est e il conseguente sweep subito dai Cavs.
Situazione attuale
Partendo dal presupposto che, nonostante l’aumento del salary cap, lo spazio a disposizione dei Pistons non sia tantissimo la priorità è assolutamente convincere Andre Drummond a restare. Il prodotto di UConn sarà restricted free-agent e i Pistons saranno liberi di pareggiare qualsiasi offerta proveniente da altre franchigie. Il suo nome è stato accostato ai Celtics, agli Heat e soprattutto agli Hawks qualora dovessero perdere Al Horford. Appare comunque chiara la strategia di Van Gundy il quale si è mosso prima del dovuto per arrivare a Harris e formare fin da subito un core competitivo in grado di suscitare l’interesse di uno come Drummond, bramoso di farsi plasmare da uno degli allenatori più esperti in materia di centri (citofonare Howard). Qualora arrivasse la tanto agognata firma su un max contract la free agency di Detroit non avrà tanti altri capitoli da leggere, se non qualche pagina marginale che prevede la firma di un backup per mister 80 milioni (sarà Blake se accetterà un contratto al minimo o poco più), un lungo in grado di offrire più garanzie di Baynes e Anthony (si parla di Mozgov) e forse un altro esterno. Probabile che uno di questi profili emerga dal draft dove i Pistons posseggono la scelta numero 18 (oltre alla 49 ma insomma) e dopo un’ iniziale indecisione sullo scambiarla o meno sembrano intenzionati a tenerla; ottima decisione secondo il parere di chi scrive. Infatti siamo in piena zona steal of draft e se la suggestione Sabonis in questi ultimi giorni è in continua ascesa posizionale, uno come Denzel Valentine potrebbe solleticare eccome le fantasie di coach Van Gundy. Il senior degli Spartans ha concluso il suo percorso al college con una stagione da 19,2 punti ad allacciata di scarpa, il 44,4% da 3 e la soddisfazione di aver soffiato a Hield uno dei riconoscimenti più apprezzati nell’ambiente. Tuttavia c’è da considerare l’età più avanzata della maggior parte dei suoi colleghi al draft e le vistose lacune difensive causate anche da un atteggiamento pigro e una struttura fisica che lo vede soffrire contro le guardie più piccole e andare sotto contro le ali più esplosive.
Qualora i dubbi su Valentine prevalessero il Front Office potrebbe puntare su un giocatore meno nba ready come Malik Beasley o addirittura Cheick Diallo e in quest’ultimo caso il termine “scommessa” calza a pennello per quanto poco abbiamo visto e per quanto potremmo vedere se il maliano troverà l’ambiente giusto.
Prospettive future
Maturare. L’unico obiettivo per le prossime due stagioni (almeno) deve essere quello di maturare a livello tecnico, mentale e anche fisico per qualcuno. Stan Van Gundy ha ancora tre anni di contratto durante i quali può migliorare le letture di Reggie Jackson e il suo pick and roll, limare la meccanica di tiro di due fenomenali all-around in prospettiva come Harris e Morris, aumentare la fiducia in Caldwell-Pope e convincere Andre Drummond a tirare qualche libero in più in allenamento. Già perché se la Hack-a-Shaq è sul tavolo della NBA per modifiche e/o abrogazione resta il fatto che le percentuali dalla linea della carità continuano a fare la differenza, soprattutto per un centro come Drummond che sotto i tabelloni avversari da sempre battaglia. Ecco perché essere il sesto giocatore che tira più liberi a partita in NBA (7,2) ed essere quello che li converte meno in tutta la lega (35%) è un paradosso che se risolto farebbe le fortune dei Pistons. In ogni caso la stagione 16/17 sarà un banco di prova per capire se effettivamente il core della squadra sarà in grado di bissare l’accesso ai playoff con uno degli ultimi due posti disponibili (auspicare qualcosa in più ci sembra poco realistico). A quel punto si potrebbe pensare ad una free agency 2017 più movimentata, pur sempre con la spada di Damocle di Josh Smith che peserà a bilancio fino al 2020 per 5,4 milioni di dollari. Non si tornerà ai tempi di Isiah e Chuck ancora per un po’ tuttavia è importante partire da una squadra con un’ età media di 25 anni e aspettare il momento propizio per tentare una cavalcata verso le Finals. Per i prossimi quattro/cinque anni non dovrebbe succedere, ma mai scommettere contro Stan Van Gundy!