“La rimessa arriva nelle mani di Jordan, Michael dalla lunetta, tira sopra Ehlo….”
1970: la NBA ha deciso, già da qualche tempo a dire il vero, di far esordire al suo interno 3 new entry, che andranno a rimpolpare le fila delle squadre della Lega. Oltre ai Buffalo Braves ed ai Portland Trail Blazers, un nuovo Stato a stelle e strisce potrà fregiarsi di una squadra di basket professionistico. In Ohio, infatti, vengono creati i Cleveland Cavaliers, protagonisti, forse, di una delle più incredibili e controverse storie di tutte le franchigie NBA. Profondamente legata, inoltre, alle alterne vicende che hanno perseguitato le principali squadre professionistiche della città.
La prima stella dei Cavs fu John Johnson, ala da Iowa e primo giocatore di Cleveland a partecipare all’All Star Game (nei suoi primi due anni nella Lega). Le cose sul parquet, però, non andarono subito benissimo. Nonostante la presenza sul pino di coach Bill Fitch, futuro campione NBA, il tempo volse subito verso il cattivo. Da “buon” expansion team, i Cavaliers persero le prime 15 partite disputate e 34 delle prime 36, compilando a fine stagione il peggior record, con sole 15 affermazioni. In cambio la sorte diede loro la prima scelta assoluta del Draft 1971. Il front office decise di puntare tutto su una prolifica guardia da Notre Dame, che rispondeva al nome di Austin Carr. Sarebbe stato l’inizio di un lungo matrimonio.
Che la ria sorte si sarebbe abbattuta sui Cavs fu chiaro sin da subito. Le due stelle, lo stesso Carr ed il compagno di backcourt Lenny Wilkens, furono colpite da una serie di infortuni più o meno gravi, con il primo particolarmente tartassato ed incapace di mostrare con continuità la sua enorme classe. Nei suoi primi 5 anni di esistenza Cleveland non riuscì mai a qualificarsi per la postseason, pur mostrando qualche segno di inevitabile miglioramento. La squadra nel 1974 emigrò verso Richfield per giocare nel Coliseum, dato che la Cleveland Arena cadeva a pezzi ed i tifosi non avevano, come dire, risposto con entusiasmo e passione. Le tessere del mosaico stavano però iniziando a prendere forma. Oltre al già citato Carr, erano arrivati alcuni giocatori di valore per formare un nucleo molto solido: il centro Jim Chones e la guardia Jim Cleamons (poi storico assistente di Phil Jackson) dai Lakers, nonché giovani pescati dal Draft come Campy Russell, Jim Brewer o Bingo Smith.
La stagione 1975-76 sembrava essere la solita all’insegna della mediocrità. Ad inizio Dicembre il record era un balbettante 8-14. Altra annata in vacanza ad Aprile? Incredibilmente, il vento girò per una volta a favore degli uomini di Fitch. Complice anche l’acquisizione in corso d’opera del veteranissimo Nate Thurmond, una squadra equilibrata nelle bocche di fuoco riuscì a compiere la piccola impresa di qualificarsi per la prima volta ai Playoffs, col coach nominato pure Allenatore dell’Anno. Il compito di farsi strada però appariva improbo, in quanto gli avversari si chiamavano Washington Bullets, vera potenza all’epoca e finalisti solo 12 mesi prima. La serie fu una delle più intense e drammatiche di tutti i tempi. In gara-1 i Cavs persero davanti al proprio pubblico di 5 lunghezze, dopo esser stati sotto anche di 20 punti. Nella partita successiva, nella Capitale, lo 0-2 sembrava profilarsi all’orizzonte, quando Bingo Smith segnò da 9 metri a due secondi dal termine per pareggiare le sorti. Le squadre si divisero la posta in palio anche nelle successive due sfide, andando sul 2-2. Per la prima volta, l’interesse non solo cittadino ma anche nazionale si spostava sui Cleveland Cavaliers. C’era entusiasmo, tangibile e reale, un fattore mai sperimentato prima. In gara-5 toccò a Cleamons segnare il buzzer-beater per la vittoria di un misero punticino, per il 3-2 per la franchigia dell’Ohio. I Bullets vendettero cara la pelle davanti ai propri tifosi, trascinati dal solito Hayes per la vittoria al supplementare che significava gara-7. Una serie così equilibrata non poteva avere che un unico epilogo. Col punteggio in parità nella “bella”, Dick Snyder, con 4 secondi da giocare segnò il terzo canestro della vittoria allo scadere per i suoi, mandando Cleveland in paradiso. Era nata la leggenda del The Miracle of Richfield.
Il sogno però finì presto. Il top scorer Chones si ruppe il piede prima dell’inizio della Finale della Eastern Conference contro i Boston Celtics. Senza il suo giocatore di riferimento i Cavaliers riuscirono a render pan per focaccia ai bianco-verdi fino in gara-6, poi vittoriosi e, qualche settimana più tardi, Campioni NBA. Cleveland centrò la qualificazione alla postseason anche nelle due stagioni seguenti, ma il giocattolo, complici infortuni e trade, si stava iniziando a rompere. La formazione dell’Ohio venne eliminata al Primo Turno, prima dai Bullets, desiderosi di vendetta, e poi, pur avendo tra le proprie fila un certo Walt Frazier, anche dai New York Knicks. Al termine della stagione 1978-79, a seguito di un’annata da solo 30w, Fitch si dimise da allenatore. Il peggio per Cleveland, però, doveva ancora arrivare.
Il 12 Aprile 1980 i Cavaliers furono acquistati dal magnate Ted Stepien, desideroso di portare a termine i tanti progetti che aveva in mente per la squadra. La sfortuna di Cleveland fu che riuscì a compierli. Sotto la gestione del nuovo owner, i Cavs, semplicemente, diventarono gli zimbelli della Lega. Sul campo, le sconfitte andarono ammassandosi: 28-54 il primo anno, un disarmante 15-67 il successivo e 23-59 nel 1983. Da novello Zamparini, il proprietario fece fuori uno dopo l’altro quasi tutti gli allenatori ingaggiati, con la chicca dei 4 che si succedettero, con scarse fortune, durante la stagione 1981-82. Cleveland, nel frattempo, venne rinominata Cadavers a causa di prestazioni non sempre esaltanti, La squadra perse anche 24 partite di fila, le ultime 19 del 1982 e le prime 5 dell’anno seguente. Le stelle in campo erano poche (Mike Mitchell, World B. Free), incapaci di far compiere una sterzata ad un ambiente ormai depresso e pronte a cogliere l’occasione per abbandonare il Titanic già inabissato. Il peggio, incredibilmente però, la nuova proprietà lo diede fuori dal parquet. I Cavaliers, con quel record imbarazzante, vendettero, per volere di Stepien, 5 prime scelte consecutive, con delle mosse incomprensibili, che spesso vedevano pick (alte, dato i record della squadra) e giocatori di un certo livello scambiati per scelte più basse e veri e propri carneadi. Il colpo dei colpi fu la trade con Los Angeles che portò in Ohio tale Dan Ford e la scelta numero 22 del Draft 1980 in cambio della loro scelta del Draft 1982, che si rivelò essere la prima assoluta e che per i Lakers significò un certo James Worthy. Altri nomi che sarebbero potuti sbarcare in Ohio? Sam Perkins (quarta chiamata assoluta ceduta ai Mavs per Mike Bratz, rimasto solo 12 mesi a Cleveland), Derek Harper (pick ceduta per due giocatori uno dei quali vestì l’uniforme dei Cavaliers solo per 3 gare), Detlef Schrempf (anche qua Dallas beneficiaria) e Dennis Rodman (con i Pistons particolarmente grati). Il Commissioner Larry O’Brien non ci vide più: con una decisione senza precedenti stabilì che ogni mossa di mercato del front office di Cleveland sarebbe dovuta essere stata prima approvata dalla Lega e, soprattutto, istituì la Ted Stepien Rule, la regola, ancora vigente, secondo la quale una squadra non può cedere in anni consecutivi la propria prima scelta del Draft. La storia era stata fatta, anche se al contrario. Il pubblico si disinnamorò ulteriormente dei Cavaliers, che giocavano spesso e volentieri davanti a tribune deserte, con i tifosi che si riunivano occasionalmente solo per contestare il proprietario. Dopo 3 anni consegnati alla leggenda di quest sport, Stepien decise di vendere la squadra alla famiglia Gund.
Per risollevarsi dalle ceneri lasciate dalla sciagurata gestione precedente ci sarebbero volute, come prevedibile, alcune stagioni. Nel corso degli anni’80, con mosse sicuramente più oculate e lungimiranti, il front office riuscì ad assemblare una squadra che, sul finire della decade e con l’inizio degli anni’90, si rivelò molto forte. A guidare le redini di una Cleveland finalmente competitiva, con coach Wilkens a predicare dalla panca, c’erano i vari Brad Daugherty (prima scelta assoluta nel 1986), il mortifero Mark Price (anche lui frutto di quel Draft), il funambolico Larry Nance, l’estroso Ron Harper ed un giovane tiratore di Dell Curry. Lo spauracchio, temibile, per una squadra che si reputava pronta per salire sul grande palcoscenico era uno solo. Vestiva la maglia numero 23, bianca in casa e rossa in trasferta, saliva nella stratosfera ogni volta che aveva la palla in mano e tendeva sinistramente a metterla quando contava. Era giunto il tempo per i Cavaliers di incrociare le lame con Michael Jordan ed i Chicago Bulls.
Il primo scontro di un certo livello ed importanza si ebbe al Primo Turno nel 1988. Già in stagione regolare le due squadre avevano terminato due partite al supplementare, preludio insospettabile di cosa sarebbe successo in quel periodo storico. Jordan veniva da un’annata spaziale, in cui aveva vinto MVP di stagione regolare ed All Star Game e titolo di Difensore dell’anno. Pronti via ed in gara-1 MJ ne mette 50, per chiarire subito come sarebbero andate le cose. His Airness appagato e più ecumenico? Non proprio, dato che nella seconda sfida ne segnò appena 55. Tornati tra le mura amiche, però, Cleveland, con le unghia e con i denti, riuscì ad equilibrare le sorti della serie. Nella decisiva gara-5 i Cavs scapparono subito via, ma i rimbalzi di Oakley (tra l’altro scelto proprio da Cleveland e poi ceduto) ed il solito Michael ricucirono lo strappo, dando nel finale la vittoria ai Bulls per 3-2. La voglia di rivincita e di rivalsa, però, pervase l’intera franchigia, tanto che nel 1989 vinsero ben 57 partite di stagione regolare, ovvio record. E, subito al Primo Turno, ecco di nuovo l’occasione di sfidare Chicago, questa volta col fattore campo favorevole, battuta 6 volte su 6 durante la regular season. Jordan e soci però controllano la prima partita e si portano poi sul 2-1, pronti a chiudere i conti. Come l’anno precedente, con le spalle al muro, i Cavaliers danno il 1000%, sbancando all’overtime in gara-4 il Chicago Stadium e superando il solito cinquantello del satanasso col numero 23. Si va a gara-5, questa volta al Coliseum.
Ci sono momenti che definiscono carriere intere, così come le sorti di due franchigie stesse. A 19 secondi dal termine, dopo una tripla di Craig Ehlo, Cleveland si ritrovò avanti di una lunghezza, prima che MJ riportasse i suoi avanti con un tiro dalla media. Con una rimessa ben disegnata lo stesso Ehlo con un layup ridiede una lunghezza di vantaggio ai Cavs, che avevano solo uno stop difensivo da compiere.
Micheal ricevette la rimessa e si diresse verso la lunetta, con 3 secondi restanti sul cronometro. L’eroico Ehlo, che aveva giocato la partita della vita per di più su di una caviglia malandata, riuscì pure a prendergli bene il tempo, ma Jordan fluttuò in aria e scagliò il tiro per vincere. The Shot aveva per sempre lanciato MJ verso l’Olimpo della NBA, con uno dei momenti più iconici della sua leggendaria ed inimitabile carriera.
La maledizione di gara-5 colpì Cleveland anche l’anno seguente, costretta ad arrendersi contro la Philadelphia di Charles Barkley. Nel 1991 gli infortuni si abbatterono in massa, con la conseguente mancata qualificazione ai Playoffs. Nella stagione 1991-92, però, con il recupero dei lungodegenti (sebbene Price non sarebbe più riuscito a ritornare come prima), la squadra sembrò riprendere da dove aveva lasciato. Dopo 57 vittorie in regular season, era chiaro a tutti che quel gruppo potesse fare strada. Nei Playoffs, arrivò la prima serie vinta dal 1976 (e seconda in assoluto) ai danni dei New Jersey Nets di Drazen Petrovic. Al round successivo, in una sorta di ripetizione di quanto successo 16 anni prima, gli avversari erano i Boston Celtics degli “originali” Big Three. Bird, con una schiena ormai malmessa, fu costretto a saltare gara-1, vinta agilmente dai Cavs. I bianco-verdi risposero vincendo le due sfide successive, prima di perdere al Garden la quarta partita sull’errore del rientrante Larry. Le squadre vinsero le rispettive partite casalinghe, con Cleveland ad aggiudicarsi un’infuocata gara-7, l’ultima da giocatore di Larry Bird. Nella Finale dell’Est, il nuovo/vecchio scontro, ancora con Chicago, ancora con Jordan. La sfida tra queste due grandi rivali fu nuovamente molto accesa ed equilibrata, con Michael per di più rallentato da un polso dolorante. Dopo il 2-2 delle prime partite, i Bulls distrussero nel quarto quarto di gara-5 i propri avversari, guadagnandosi un match point sulla racchetta. Al Coliseum, purtroppo per i Cavaliers, la storia si dovette ripetere: MJ, con un gioco da tre punti, ruppe la parità a pochi secondi dal termine e portò i suoi alla Finale NBA, sogno che sfuggiva nuovamente a tutta la città di Cleveland. 12 mesi più tardi, nuova delusione dallo stesso sapore: in Semifinale Cavs sconfitti da Chicago per 4-0, con Jordan, tanto per cambiare, a segnare l’ennesimo canestro della vittoria per completare lo sweep.
Michael Jordan aveva sostanzialmente distrutto le speranze di un’intera comunità, arrestando di forza e violentemente l’evoluzione di un gruppo che poteva ambire a qualche sogno di gloria non del tutto ingiustificato. MJ aveva strappato il cuore ad una città che, stante le quasi contemporanee debacle nel football e nel baseball, aveva subito la nascita della maledizione di Cleveland, specchio di una città a cui sul più bello ne succedeva una, incapace di vincere un qualsiasi titolo professionistico dai tempi dei Browns nel 1964. Nell’NBA, tranne un paio di annate quasi al top, i Cavaliers erano stati una specie di barzelletta. Anche nel resto degli anni’90 le cose non andarono meglio, anzi. Sotto la guida di coach Mike Fratello diventarono una tremenda squadra difensiva, ma che ai Playoffs veniva puntualmente estromessa al Primo turno, ivi compreso un altro 3-0 subito da Chicago, per di più senza Jordan. Tutti i vari protagonisti delle epiche sfide con i Bulls a poco a poco, falcidiati dagli infortuni, dovettero uscire di scena. Nemmeno il ritorno a Cleveland per giocare nella nuova Gund Arena fece cambiare lo status quo, né tantomeno l’arrivo in città del fenomeno Shawn Kemp, che proprio in Ohio iniziò la parabola discendente della propria carriera. La fugace apparizione in postseason nel 1998 fu l’ultima per ben 8 anni.
L’ambiente, a cavallo col nuovo millennio, tornò ad essere depresso. A ciò contribuirono i ripetuti infortuni a Zydrunas Ilgauskas, la cui classe non fu supportata a dovere da piedi sani, che lo costrinsero a rivedere il proprio gioco ed a saltare innumerevoli partite. I Cavs tornarono ad essere una squadra da 30 vittorie a stagione, sotto coach Wittman e sotto coach Lucas, con diversi giocatori ormai sul viale del tramonto e pochissime speranze per il futuro, riuscendo nel contempo anche a farsi battere per l’ennesima volta da Jordan con un tiro sulla sirena. L’unico giovane di un certo livello, Andre Miller, dopo aver vinto la classifica degli assistmen nel 2002 , cambiò prontamente squadra in estate, finendo ai Clippers. Il punto più basso venne toccato nella stagione 2002-03, quando, sotto Lucas prima e Smart poi, Cleveland vinse solamente 17 partite, chiudendo col peggior record NBA e con spettacoli poco edificanti sul parquet, come quella volta che Ricky Davis, per completare una tripla doppia, sbagliò appositamente un tiro nel proprio canestro per catturare un rimbalzo.
Eppure, a ben vedere, i tifosi dei Cavaliers dovrebbero ringraziare uno per uno quell’Armata Brancaleone: Carlos Boozer (allora rookie e vittima di un episodio che la dice lunga sullo stato dei Cavs di allora), Tierre Brown (visto poi a Napoli e Varese), Bimbo Coles, il già citato Davis, DeSagana Diop, Tyrone Hill, lo zio Ilga (quell’anno all’All Star Game), Jumaine Jones (anche lui con sprazzi di Italia), Chris Mihm (acquistato da Cleveland per Jamal Crawford e soldi), Darius Miles, Milt Palacio, Smush Parker (proprio lui! Per dirla alla Piccinini), Michael Stewart e Dajuan Wagner, la prima scelta di quell’anno ed ovviamente fermato dagli infortuni.
Proprio grazie alle loro gesta ed a tutte quelle sconfitte, oltre ad una discreta botta di fortuna, i Cleveland Cavaliers poterono vantarsi della prima scelta assoluta al Draft 2003. Stava per iniziare l’era LeBron James.
Alessandro Scuto