In molti credono che andare incontro ad un destino annunciato renda almeno in parte più semplice riuscire ad assorbire il colpo. Lo sai che prima o poi deve succedere, hai tutto il tempo per rifletterci e ragionarci su. Per “prepararti” (dicono) all’inevitabile. Al fatto che nessuno è eterno, che tutto scorre e che in fondo ad un certo punto è giusto dire basta.
Tim Duncan ha capito che quel momento è arrivato ed ha annunciato che non giocherà più a basket. Niente più partite con gli Spurs, niente più vittorie, niente più record da aggiornare.
Basta. 19 anni del genere sono più che sufficienti, ma pensare di non potersi più abbeverare a quella fonte di sapienza cestistica ci lascia già a bocca asciutta, prima ancora di iniziare a non vederlo più sul parquet.
In un mondo fatto di eccessi, personalismi e riflettori sempre accesi, Duncan ha incarnato alla perfezione il ruolo dell’antidivo. Una persona semplice in tutta la sua complessità, per molti versi intangibile e pure così maledettamente presente negli ultimi 2 decenni.
Eh già, perché il numero 21 degli Spurs c’è sempre stato. Da 1997 ad oggi. Sempre. 1158 vittorie, 5 titoli NBA, il 71% di vittorie conquistate in carriera. Un giocatore capace di essere decisivo a 23 anni, così come a 38. Un supereroe silenzioso, di quelli che puntualmente vengono fuori nel momento del bisogno.
A mio avviso, il simbolo della carriera di Duncan è tutto racchiuso in una giocata: il canestro sbagliato contro gli Heat nella decisiva gara-7 di finale del 2013.
Tim per 20 anni è stato questo. Prima di tutto un riferimento. Quel tiro non poteva che prenderlo lui. Poi, un lottatore: a 37 anni, all’ultimo minuto di una gara-7 di finale ha ancora la forza di mettersi spalle a canestro, “fare a botte” con il Battier di turno, tirare, sbagliare, seguire a rimbalzo e ri-sbagliare.
Un errore decisivo. Per molti LA differenza che passa tra il vincere e il perdere un titolo NBA. Il suo momento di massima vulnerabilità, in una carriera in cui era spesso risultato infallibile. Una mazzata, tremenda, per chiunque. Ma non per lui. Non per chi da quel canestro mancato è riuscito a trarre la giusta forza per dar vita ad una delle più belle cavalcate vincenti che il Gioco ci abbia mai regalato.
L’ennesima rinascita, quando in realtà non si è mai stati morti. Quando non si è mai scesi sotto le 50 vittorie stagionali. Quando più che ad una bacheca da riempire, ci si è dedicati a creare un ecosistema unico, fatto di etica del lavoro, impegno e sudore. Una questione culturale prima ancora che sportiva.
“Quando tutto è perduto, vado a guardare un tagliapietre che colpisce il masso cento volte senza neppure riuscire a scalfirlo. Eppure al 101esimo colpo la pietra si spacca in due, e io so che non è stato quel colpo, ma tutti quelli che sono venuti prima”
Questa la frase che più di tutte racchiude il successo di una punta di diamante meravigliosa che ha saputo più di chiunque altro incastonarsi in un collettivo. Questione di testa, ma soprattutto questione di cuore.
Qualche tempo fa ho letto una frase meravigliosa, scritta da una ragazza al suo fidanzato su Twitter:
“Voglio che mi abbracci come Duncan stringe la palla da basket”.
In quelle stretta ci siamo tutti noi, coccolati e convinti del fatto che quell’abbraccio non si sarebbe mai sciolto, consapevoli che non saremo mai pronti a dire addio a Tim Duncan.