L’oscurità di una fredda notte invernale ha ormai definitivamente conquistato e riempito il cielo dell’Arizona e il sonno ha finalmente avuto la meglio anche sugli irriducibili intenti festaioli dei più ostinati e gaudenti teenagers di Tucson.
Sono scoccate le quattro di mattina quando nella sua stanza del Babcock dormitory, Steve apre gli occhi, svegliato da qualcuno che anche a quell’ora tarda non ha nulla di meglio da fare che venire a bussare alla sua porta. Apre. I fastidiosi e inaspettati visitatori sono il coach Luke Olson e l’assistente Scott Thompson. Nota subito che qualcosa non va: i loro volti sono dispiaciuti, angosciati, afflitti.
Non potrebbe essere altrimenti.
D’altro canto quando ti chiedono di riferire ad un ragazzo di 18 anni appena, con la famiglia sparsa per il mondo e non una persona cara vicina, che da quel momento non potrà più nemmeno sperare di rivedere suo padre per Natale, il minimo che tu possa fare, il minimo che tu possa concedergli è un po’ del tuo dolore, della tua compassione, un velo di tristezza nei tuoi occhi. Vera o finta che sia.
Sono le nove di mattina del 18 gennaio 1984 a Beirut, quando, al termine di un meeting di lavoro, il Dr. Malcom Kerr viene assassinato con due colpi di pistola dietro la nuca. L’omicidio verrà immediatamente rivendicato dall’Islamic Jihad Organization, un gruppo fondamentalista particolarmente attivo durante la guerra civile libanese degli anni ’80, ostile alla missione di pace internazionale promossa da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia, e alla permanenza in loco di soldati e diplomatici occidentali.
Rettore dell’Università Americana di Beirut, descritto dal New York Times come “a model of liberal Western education in the Arab world”, Malcom Kerr era una delle figure istituzionali americane più influenti e di spicco di tutto il Medio Oriente. Dopo aver speso gran parte della sua gioventù in Libano (i genitori erano professori alla UAB), aveva poi deciso di completare i suoi studi negli Stati Uniti, dove si sarebbe fermato per più di vent’anni anche dopo la laurea divenendo professore a UCLA.
Nonostante un lavoro culturalmente ed economicamente appagante ed una vita ormai stabilmente radicata, Malcom non riesce però a resistere al richiamo della città natale, dove decide di tornare e dove il 27 settembre 1965 la moglie Ann dà alla luce il suo quarto figlio: Stephen Douglas Kerr.
Steve passa i primi anni della sua vita letteralmente da vagabondo, da cittadino del mondo alla ricerca di nuovi costumi da scoprire, nuove tradizioni da conoscere e fare proprie. Sarà, a detta dello stesso Kerr, uno dei periodi più importanti nella formazione del suo carattere e della sua personalità, un periodo speso tra Tunisia, Francia e Egitto durante il quale avrà la possibilità di abbracciare il mondo “beyond typical American culture”, di formare quel substrato socio-culturale che lo renderà diverso, più ricco, in una società americana troppo spesso limitata a specchiarsi e a compiacersi della propria singolare tipicità.
È alla fine del primo anno di high school che prende – come suo padre prima di lui – la decisione di trasferirsi in California per completare gli studi e iscriversi al college; sarà questa la scelta cruciale, quella che influenzerà in maniera determinante la sua vita, indirizzandola in maniera irreversibile su una strada lastricata di fatiche e dolori, di lacrime e sudore, di sofferenza e nostalgia.
Una strada lunghissima. Una strada in salita. Almeno fino a quella sera.
13 GIUGNO 1997, UNITED CENTER, CHICAGO, GARA 6 CHICAGO BULLS – UTAH JAZZ
L’espressione di Phil Jackson, dell’intera panchina dei Bulls, di Michael, di Scottie raccontano tutta la fatica di una stagione da 69 vittorie, di una serie estenuante, e di una partita, quella partita, spesa costantemente ad inseguire l’armata guidata da Stockton e Malone, fino al vantaggio a due possessi dalla fine. Raccontano però anche la delusione e lo scoramento di chi ha visto il titolo allontanarsi di nuovo quando era ormai ad un passo dalla vittoria.
Tripla di Bryon Russel a 28 secondi dal termine, pareggio Utah 86-86, timeout Chicago. Michael Jordan si siede, si disseta, scuote la testa per l’incredulità. Sono passati pochi giorni dalla memorabile “flu game”, da quella meravigliosa gara 5 a Salt Lake City, giocata, dominata con 38 punti e vinta nonostante un’intossicazione alimentare lo avesse relegato a letto fino a poche ore dall’inizio.
La stanchezza è tanta, è visibile sul suo viso. Vorrebbe prendersi l’ultimo tiro ma sa che quasi certamente verrà raddoppiato e segnare sarà un’impresa. Gira la testa. A due poltroncine da lui il ragazzo di Tucson è ormai diventato un uomo. E’ un onesto “operaio della pallacanestro”, uno di quei giocatori costantemente costretti a sopperire alle evidenti mancanze fisiche, tecniche e atletiche con una intelligenza cestistica raramente reperibile su quei parquet NBA dominati dai centimetri e dalle percentuali di massa muscolare, dall’esplosività e dalla forza.
La stima reciproca a livello sportivo è incondizionata, il rapporto umano molto stretto anche a causa di un drammatico minimo comune denominatore che, dal 13 agosto 1993, da quando James Jordan era stato ritrovato senza vita con il proiettile di una calibro 38 nel petto, li rendeva entrambi orfani di padri assassinati. Michael lo chiama.
“Hey, be ready if they double-team me”
Tieniti pronto qualora mi raddoppiassero.
“If he comes off, I’ll be ready”
Il resto è storia nota. La palla arriva nelle mani di Jordan, raddoppio puntuale di Stockton, finta, rischio di infrazione di passi, scarico. Quando riceve, nelle mani e nella testa di Steve Kerr non c’è paura.
Non c’è mai stata, fin dagli anni in maglia Wildcats, quando i compagni di squadra lo chiamavano “Ice” per la sua freddezza, il suo autocontrollo, la sua capacità di gestire situazioni complicate e intricate rimanendo sempre impassibile, fermo, distaccato in maniera quasi inumana.
Due secondi, rilascio, solo rete.
Chicago Bulls campioni NBA 1996/1997. Steve Kerr è l’eroe bowiano, l’eroe mai, l’eroe “just for one day”. Finalmente inizia la discesa
“Hiting the big shot in ’97 is my most memorable moment”
Steve Kerr però è molto più di quel tiro allo scadere, molto più di quel titolo, molto più del playmaker nei Bulls dei Big Three, quello del quale a stento si ricorda il nome. E’ uno di quei giocatori che in qualsiasi squadra vincente – o che si ponga come tale – non può mancare: per la sua continua dedizione al lavoro, la sua guida silenziosa, il suo carattere, la sua disposizione ad accettare tranquillamente anche ruoli secondari, a volte marginali eppure mai privi di importanza, ma soprattutto per la smisurata intelligenza che gli permette, come dirà Kukoc, di conoscere:
“I suoi limiti. Il sistema. Tutto ciò che c’è da conoscere sul basket”.
L’antitesi della superstar ribelle e l’antesignano del silenzioso gregario, pronto a seguire obbedientemente e fedelmente chi è disposto a prenderlo per mano e a guidarlo alla vittoria. Sarà Gregg Popovich, qualche anno dopo a fornire la sua migliore descrizione:
“Steve era ovvio che sarebbe diventato un grande allenatore. Ci sono alcuni ragazzi nella tua squadra che tu sai che hanno una sensibilità intuitiva per il gioco. Loro sono anche leader naturali e brave persone. Comunicano in maniera ottimale, hanno una grande etica del lavoro e una spiccata intelligenza. Lui aveva tutte queste cose. Ed era molto semplice notarlo.”
Proprio Gregg, alla fine della stagione 1997/98 – l’ultima dell’era Jordan-Bulls – capisce di aver bisogno anche di lui per portare il Larry O’Brien Trophy in Texas e lo richiede alla sua dirigenza, che riesce ad ottenerlo in cambio di Chuck Person e di una prima scelta al draft. Steve Kerr vince ancora, vince il suo quarto titolo consecutivo negli Spurs delle “Twin Towers” Duncan-Robinson, e diventa, insieme a Frank Saul, l’unico giocatore non appartenente alla “Boston dinasty” degli anni ’60 a riuscire nell’impresa.
Dopo una breve – e infelice – parentesi a Portland, torna poi a San Antonio dove, con un ruolo molto marginale in termini di minutaggio ma essenziale dal punto di vista del carisma e della leadership, riesce a mettersi al dito il quinto anello nella stagione 2002/2003: la prima del trio Duncan-Parker-Ginobili, l’ultima di “The Admiral”, di Michael Jordan, di John Stockton, l’ultima anche dello stesso Kerr che deciderà di abbandonare definitivamente il gioco all’età di 37 anni. Non prima però di aver regalato a tutta l’NBA una delle scene più straordinariamente romantiche della sua storia.
29 MAGGIO 2003, DALLAS MAVERICKS – SAN ANTONIO SPURS, A. A. CENTER, DALLAS
Ci sono momenti, situazioni, eventi inconsueti che nella loro infinita peculiarità e stranezza riescono a presentare lo sport nella sua forma più bella e “vera”, più lirica e poetica, quella che va oltre il razionale e il comprensibile, oltre i pronostici e le aspettative, talvolta addirittura oltre il tifo stesso, e ti strappa sempre un sorriso di incredulità, a volte perfino se sostieni la squadra avversaria.
Quelle rarissime occasioni che alla fine vedono il più forte soccombere e il più debole festeggiare, o che vedono i campioni arrancare e i gregari prendere il comando, almeno una volta. Western Conference Finals, Gara 6, gli Spurs guidano la serie per 3-2 nonostante una rovinosa sconfitta casalinga subita in rimonta qualche giorno prima. I Mavs, a quattro minuti dalla fine del terzo quarto, senza il loro go-to-guy Dirk Nowitzki, sono in pieno controllo della partita, sia dal punto di vista fisico che mentale mentre il tabellone luminoso dice +15.
Popovich chiama timeout e guarda la sua panchina. La fatica è palese e la rassegnazione sta ormai per prendere il sopravvento. C’è bisogno di un eroe. L’eroe di quella sera adesso ha 37 anni, un ginocchio scricchiolante, qualche ruga in più sul viso e fino a quel momento ha giocato 12 minuti – male, per inciso – in tutti i playoffs. Finisce il timeout, Parker e Claxton sono in panchina, in campo c’è Steve Kerr. Passa un minuto, Ginobili riceve palla sul lato destro del campo, ignora Duncan in post, va da Jackson sul lato sinistro che serve Kerr nell’angolo: tiro contestato, parabola che si alza, canestro. Ne metterà altri tre chiudendo con 12 punti, 4/4 da tre, 2 rimbalzi, 3 assist e un +21 di plus/minus in 13 minuti di gioco. 42-15 di parziale dal suo ingresso in campo e vittoria Spurs 90-78.
Eppure i numeri non dicono niente, neanche questa volta: i numeri non raccontano di come un trentasettenne con mille acciacchi fisici difese su uno dei migliori playmaker della storia del Gioco (Steve Nash, ndr), di come, sul 71-71, si lanciò per prendere una palla praticamente persa e diede il via all’azione che portò al vantaggio proprio con una sua tripla, e non raccontano nemmeno di come tutta la panchina letteralmente impazzisse dalla gioia ogni volta che Steve segnava un canestro, a dimostrazione di quanto fosse amato e rispettato dall’intero spogliatoio.
No, non raccontano niente della vita di Steve Kerr. Non raccontano niente della vita di un “mediano”.
Una vita da mediano, da chi segna sempre poco che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco. Una vita da mediano, lavorando come Oriali anni di fatiche e botte e vinci casomai i mondiali
In uno dei suoi testi più ispirati, Ligabue, con una meravigliosa metafora calcistica, esalta gli “invisibili”, i mai celebrati o ricordati, coloro che passano la vita “dietro le quinte” per la miglior gloria di qualcun altro che quasi sempre fatica meno di loro, lavora meno di loro, si dispera meno di loro, ma guadagna di più, da ogni punto di vista, perché “Natura gli ha dato lo spunto della punta”, e quello o lo hai o non lo hai.
Steve Kerr non ce l’aveva, proprio come Oriali. E proprio come Oriali non avrebbe vinto quel mondiale senza Paolo Rossi e Marco Tardelli, così Steve Kerr non avrebbe vinto 5 titoli NBA senza Michael Jordan e Tim Duncan, su questo vi sono pochi dubbi.
Tuttavia, anche al netto di questa relativa certezza, limitarsi a considerare la fortuna è operazione tanto superficiale quanto ingrata, degna di chi non riesce a comprendere quanto possa esserci oltre i numeri e le fredde statistiche, degna di chi non ha la più pallida idea di cosa sia un mediano.
No, ai mediani la fortuna, da sola, non basta mai.
Non basta la fortuna senza l’umiltà, quella che ti porta ad accettare un contratto al minimo salariale con i Chicago Bulls per andare a giocare con il più forte di sempre e che ti spinge, conscio dei tuoi limiti, a non chiedere mai più di quanto non pensi di meritare (e a volte anche meno). Non basta senza l’intelligenza che ti convince a metterti al seguito di chi sai potrebbe condurti verso orizzonti che per te sarebbero altrimenti impensabili e inarrivabili.
Non basta senza la perseveranza e l’etica del lavoro che ti portano a tornare in campo due giorni dopo la notizia della morte di tuo padre e a disputare la miglior partita da freshman dei Wildcats proprio contro Arizona State, in uno dei derby più sentiti di tutto il panorama universitario americano. Non basta senza la costanza, l’allenamento, la dedizione, la passione.
E non basta nemmeno senza un pizzico di bravura e di abilità, quella che ti porta ad essere il giocatore con la miglior percentuale da tre punti nella storia del gioco (45,4%) e in una stagione regolare(52,4%) (capito Steph…). Quella che convince Michael Jordan a metterti in mano uno dei tiri più importanti della sua carriera. Quella che ti porta a segnarlo e a vincere, ma mai col “numero 10”, mai con lo spunto della punta.
Sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai.