La firma di Kevin Durant per i Golden State Warriors ha rappresentato molto di più di un cambiamento epocale nella storia recente della NBA. A differenza per esempio di The Decision, con la quale LeBron James decise di abbandonare l’Ohio per portare i suoi talenti a South Beach, la scelta di KD ha abbinato allo scalpore relativo al cambio di maglia una sensazione di impotenza tecnica, visto che gli Warriors erano una macchina semi-perfetta anche prima del suo arrivo ― a differenza di quella Miami, che andava costruita quasi da zero.
Siamo davanti alla squadra più forte di sempre? Secondo Steve Nash, sì. Non solo: come sarà possibile fermare un attacco come quello di Golden State adesso, quando già prima di Durant erano riusciti a polverizzare tutti i record e a vincere un anello (perdendone un altro solo dopo una leggendaria Gara-7 dopo aver condotto la serie per 3-1)? Il titolo è davvero già assegnato?
Ovviamente no, ma l’aggiunta di Durant ― oltre a rappresentare l’avere un fenomeno assoluto in più a roster ― complica terribilmente il gioco che più di tutti era apparso indecifrabile nelle due passate stagioni: il pick-and-roll centrale tra Curry e Draymond Green.
Questo tipo di equazione è rimasta irrisolvibile (e per molti versi lo è tuttora) fino a quando Donovan nel corso della scorsa finale di conference tra i suoi Thunder e gli Warriors ha deciso di usare lo stesso Durant contro Green ― quello che ha la valigetta coi codici ― con risultati molto positivi. Capite da soli che il fatto che adesso Durant giochi per gli Warriors rende la situazione quasi grottesca. Ma quello che deve preoccupare maggiormente è quello che potrà essere capace di fare, adesso, proprio Golden State.
Quello che ha rende ingiocabile questo pick-and-roll è l’impossibilità di fare scelte che risultino corrette continuativamente nel tempo, anche solo nel corso della stessa partita. Gli Warriors sono maestri nello spaziare il campo e grazie ad un continuo movimento di uomini e sfera costruiscono un flusso (flow in inglese) dal quale non c’è via di scampo.
Raddoppi Curry? Si crea un 4 vs 3 con Green che ha gioco facile; resti attaccato a quest’ultimo? Steph ti spara una tripla in faccia; decidi di togliere la palla dalle mani di Curry e di forzare il passaggio a Green? Meglio, c’è Klay Thompson, che da oltre l’arco tira il 42% in carriera (44% in situazioni di catch-and-shoot una macchina); se anche questo non va bene c’è festa per il lungo di turno che può schiacciare un comodo alley-oop e infine da quest’anno c’è appunto anche Durant. Insomma avete capito, Houston abbiamo un problema!
Nel corso degli ultimi due anni le difese hanno provato decine di approcci diversi, e dopo un’analisi approfondita possiamo affermare che i temi difensivi principali da rispettare sono due. Il primo riguarda la gestione di Steph Curry, ovvero il problema primario. Trovandosi davanti un vero e proprio malware del sistema gli allenatori con Curry non hanno mezze misure, cercando di togliergli la palla dalle mani a qualsiasi costo, anche a quindici-sedici metri dal canestro.
Alcuni, anche se è una corrente minoritaria, cercano di incanalarlo dentro l’area sperando così ti fargli sentire contatti più duri ― a quali l’alieno ormai è immune ― e soprattutto impedendogli di aprire il fuoco da tre entrando in quella trance agonistico-emotiva che finisce col coinvolgere tutto il palazzo e ammantare tutto in una sorta di brina mistica che fa accadere cose irreali.
Il secondo tema difensivo riguarda quello di lasciare intenzionalmente un giocatore libero, data l’impossibilità materiale ad eseguire tutte le rotazioni, sperando in una vena poco ispirata. In entrambe le ultime due edizioni delle Finals i Cleveland Cavaliers hanno deciso di battezzare il giocatore che loro ritenevano peggiore. Il primo anno è toccato a Iguodala, ma il veterano campione olimpico non ha tremato, risultando decisivo ― non a caso MVP delle finali ― nella conquista dell’anello. Lo scorso giugno invece l’indiziato è stato Harrison Barnes, che invece ha prodotto una prestazione al tiro insufficiente risultando spesso un limite per l’attacco di Steve Kerr.
Neanche il tempo di urlare al famoso Eureka! che gli Warriors hanno convinto Kevin Durant ad unirsi a loro, facendo sprofondare nuovamente tutti gli altri 29 allenatori in un buco nero. Va da se che KD non potrà essere lasciato solo come tante volte è successo a Barnes la passata stagione, e di conseguenza c’è bisogno di ricalcolare tutti i parametri.
Le prime tre partite di pre-season hanno mostrato un Durant molto rilassato, quasi leggero, capace di prendersi zero o quasi tiri forzati e molto predisposto anche all’extra pass. Ammesso e non concesso che questo tenderà a cambiare nel corso della stagione non c’è altrettanta sicurezza che un fenomeno come il numero 35 non possa lasciarsi contagiare dall’armonia del flow degli Warriors; e se fosse così il finale è uno soltanto: Golden State campione.
Anche perché, in conclusione, la sola presenza fisica di Kevin Durant sul parquet tende a generare un riflesso involontario di rispetto, che a suo volta genera istinti da scala gerarchica: non voglio che Curry abbia la palla in mano quindi lo raddoppio anche in spogliatoio, non voglio che Durant abbia un tiro facile quindi su di lui ruoto e aiuto in qualsiasi situazione.
Teoricamente questo è ancora più inquietante di pensare “Vedete questa tripla aperta sbagliata da Barnes? Pensate che il prossimo anno lì ci sarà Durant”; perché per motivi di status appunto nessun allenatore (neanche se fosse Steve A. Smith che pensa che Durant non abbia il clutch gene ― ammesso che lui stesso sappia di cosa stia parlando) lascerebbe un tiro aperto a Durant. Sempre involontariamente potrebbero, anzi, potrebbero essere costretti, a lasciarlo a Klay Thompson.
Quante possibilità di vittoria pensate ci siano contro una squadra che ha un tiro gratis per Klay Thompson tutte le azioni? Sì, esatto. Houston abbiamo un problema!