Partiamo subito con uno spoiler: il terzo numero della rubrica non metterà in luce altri errori di Portland, i cui tifosi possono tirare, finalmente, un sospiro di sollievo. L’articolo parlerà invece della lungimiranza del Front Office dei Minnesota Timberwolves, che rinunciò, per due volte e senza battere ciglio, ad uno dei giocatori che stanno attualmente dominando la lega…
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, un piccolo giocatore proveniente dall’Università di Davidson, North Carolina, fece impazzire gli Stati Uniti. Il ragazzo, che tra le tante cose era anche un figlio d’arte, in tre anni di college mise insieme cifre da capogiro: 25.3 punti di media, ottenuti grazie al 46% dal campo, al 41% da tre e all’87% ai liberi. Il punto di forza (e allo stesso tempo di debolezza) del prodotto di Davidson era la sua normalità: due mani da pianista agganciate ad un fisico assolutamente nella norma.
Dopo la stagione da Junior, il ragazzo in questione decise di rendersi eleggibile per il Draft del 2009. Pur essendo senza dubbio il miglior tiratore nella nidiata dei futuri rookie, il suo metro e novanta scarso, accompagnato da un basso livello di fisicità, non lo rendeva appetibile per le primissime posizioni del Draft. In ogni caso sembrava comunque certo che Stephen Curry (perché, per chi non lo avesse ancora capito, stiamo parlando di lui) sarebbe stato scelto tra la quinta e la decima pick.
Il 19 maggio del 2009 la lottery aveva sancito il seguente ordine di chiamate:
- Los Angeles Clippers
- Memphis
- Oklahoma City Thunder
- Sacramento Kings
- Minnesota Timberwolves
- Minnesota Timberwolves
- Golden State Warriors
- New York Knicks
Come detto prima, era piuttosto scontato che il figlio di Dell Curry non sarebbe stato scelto tra le prime quattro chiamate. Di conseguenza la prima franchigia che, potenzialmente, avrebbe potuto scommettere la propria monetina sul prodotto di Davidson era Minnesota.
I Timberwolves dell’epoca cercavano disperatamente di costruire un backcourt competitivo e quale migliore opportunità poteva capitargli che pescare due rampanti giovani dalle prime scelte del Draft, per rimettere in carreggiata una franchigia allo sbando da dopo l’addio di Kevin Garnett? Ve lo dico io: nessuna.
Se il Draft fosse una scienza esatta, nel 2009 avremmo quindi celebrato il matrimonio tra i Timberwolves e Stephen Curry. Per fortuna, o purtroppo, il Draft è tutto meno che una scienza esatta (Portland docet) e David Kahn, GM dei T’Wolves di allora, si travestì da Don Abbondio, opponendosi con tutte le forze a questa unione.
Cerchiamo di capire il perché di una scelta tanto scellerata.
L’ultimo anno di Curry a Davidson non fu positivo a livello di risultati raggiunti dalla squadra, che, infatti, non garantirono ai ragazzi di Bob McKillop l’accesso al torneo NCAA. A livello personale, invece, Curry concluse la stagione come miglior marcatore dell’intera NCAA (oltre 28 punti di media) e con l’inserimento a furor di popolo nel primo quintetto All-American.
Nelle settimane precedenti al Draft, come al solito fioccavano report sui prospetti collegiali e per quanto riguarda Curry, gli scout erano tutti d’accordo nel dire che, nonostante le indubbie qualità, la sua carriera in NBA sarebbe dipesa dal contesto e dalla tipologia di gioco della squadra che lo avrebbe scelto. Sentendo ripetere sempre questo ritornello, il nativo di Akron aveva paura di finire in una squadra che premiasse la fisicità a discapito del talento e per questa ragione si rifiutò di svolgere i workout con alcune franchigie, tra cui, udite udite…i Golden State Warriors.
Infatti, il sogno, neanche tanto nascosto, di Curry, era di scivolare oltre la settima chiamata e di essere selezionato dai New York Knicks, allenati da Mike D’Antoni. C’è forse il bisogno di spiegare il perché? Immaginatevi la filosofia di gioco dei “seven seconds or less” elevata all’ennesima potenza grazie al talento smisurato dell’attuale MVP dell’NBA. Non serve aggiungere altro.
Finalmente arrivò il 25 giugno del 2009, giorno dell’attesissimo Draft e il primo a stringere la mano a David Stern fu Blake Griffin, scelto dai Los Angeles Clippers. Dopo di lui arrivò il turno dei Memphis Grizzlies che erano alla ricerca di lungo e quindi selezionarono Hasheem Tabeet (…magari ne parleremo un’altra volta). Con la terza scelta gli Oklahoma City Thunder, invece di prendere Rubio o Evans, sorpresero il Madison Square Garden scegliendo James Harden (Dio benedica Sam Presti). Venne quindi il momento dei Sacramento Kings che selezionarono Tyreke Evans. Dopodiché le cose si fecero interessanti.
I Minnesota Timberwolves con la fifth pick chiamarono il giocatore più intrigante ed esotico dell’intero Draft: Ricky Rubio. Per chi segue da poco il basket europeo e americano può sembrare incredibile che le aspettative su Rubio fossero maggiori di quelle su Curry, ma all’epoca era proprio così. Anzi, vi dirò di più: sembrò quasi un miracolo che lo spagnolo fosse scivolato oltre la quarta chiamata. Nelle stagioni al Badalona, Ricky aveva mostrato qualità incredibili ed era considerato il miglior prospetto di point guard degli ultimi dieci anni.
L’errore dei T’wolves, quindi, non fu di certo la quinta scelta, bensì quella successiva. Ricapitoliamo: il GM David Kahn si era portato inaspettatamente a casa il talento cristallino di Rubio, con eccellenti doti da passatore ma “qualche problema” di realizzazione. Per completare un backcourt potenzialmente devastante, Kahn non doveva fare altro che chiamare una shooting guard, un giocatore con molti punti nelle mani, che fosse in grado di sfruttare la visione di gioco dello spagnolo. E chi meglio di Stephen Curry, top scorer dell’ultima stagione NCAA, rientrava in questi parametri?
With the sixth pick in 2009, Minnesota Timberwolves select…Jonny Flynn, from Syracuse University
Ebbene sì, David Kahn decise di puntare su un’altra point guard, un altro portatore di palla, tra l’altro senza le doti da assist-man di Rubio ma con gli stessi problemi al tiro. Una scelta che, senza neanche bisogno del senno di poi, fu aspramente criticata da tutti gli addetti ai lavori. Se nelle prime due puntate di questa rubrica, abbiamo provato a dare una spiegazione all’operato del Front Office di Portland, questa volta non ci proveremo neanche.
A questo punto del Draft, il giovane Curry, a cui comunque non sarebbe dispiaciuto giocare a Minneapolis, vedeva il suo sogno ad un passo dal compimento: una sola chiamata, quella degli Warriors, con cui non aveva neanche svolto un allenamento, lo separava dalla pick dei New York Knicks, che avevano affermato di volerlo a tutti i costi.
Steph, però, non aveva fatto i conti con Don Nelson, coach della franchigia della Baia. Rispetto alle cinque dirigenze che, nel draft del 2009, avevano preferito altri giocatori a Curry, Nelson e il Front Office dei Warriors potevano disporre di giustificazioni serie nel caso in cui anche loro non lo avessero chiamato:
1) Curry non aveva voluto svolgere alcun work-out con i Warriors
2) La presenza nel roster di quello che sembrava un astro nascente della lega: Monta Ellis
Infischiandosene di tutto e di tutti, invece, Nelson convinse il GM di allora, Larry Riley, a puntare sul prodotto di Davidson. E mai una scelta si rivelò tanto azzeccata. Di conseguenza, tra i fischi del pubblico di New York (che sperava di celebrare Steph con la maglia arancio-blu), il 25 giugno del 2009, David Stern ritornò per la settima volta sul palco del MSG, annunciando che i Golden State Warriors avevano selezionato Stephen Curry, cambiando definitivamente il destino prossimo dell’NBA.
Dopo aver analizzato le dinamiche che hanno portato il baby faced assassin all’ombra del Golden Gate, proviamo come al solito a buttarci nei corridoi pieni di ipotesi e speculazioni, per provare a capire cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente. Ecco, quindi, la nostra solita serie di What if:
What if n°1
Dopo aver scelto Rubio, David Kahn non si confonde, segue la logica e sceglie Steph Curry. Poi, alla chiamata numero 18, il GM resta concentrato e prende Ty Lawson (così come avvenuto nella realtà). Stavolta però Kahn non scambierà Ty per una pick protetta dei Nuggets del Draft 2010 (da cui uscirà nientemeno che…Luke Babbit), bensì inserirà definitivamente nel roster il prodotto di North Carolina. Diamo un’occhiata al roster di Minnesota per la stagione 2009/2010:
Rubio non compare nella lista perché rimase in Spagna per altri due anni, approdando in NBA soltanto nel 2011. Ora, al posto di Jonny Flynn e Jason Hart inserite i nomi di Curry e Lawson. Ecco quale sarebbe stato il probabile quintetto: Lawson, Curry, Brewer, Love, Jefferson. Qualcuno ha il coraggio di dirmi che è un brutto quintetto da cui ripartire? Un quintetto senza potenziale? Certo, ci sarebbe voluto qualche anno e qualche trade di qualità, ma con una squadra del genere Kahn avrebbe posto ottime basi per costruire una contender nel giro di qualche stagione.
E invece no. Lasciamo Rubio in Spagna, saltiamo Curry, prendiamo Flynn e scambiamo Lawson per una scelta futura…Tifoso dei Timberwolves, cosa vuoi di più dalla vita?
What if n°2
Oltre ai Golden State Warriors ed ai New York Knicks, Stephen Curry era il sogno proibito di un’altra franchigia: i Phoenix Suns, allenati all’epoca da Alvin Gentry. La squadra dell’Arizona, pur avendo un roster competitivo, non era riuscita a qualificarsi ai playoff a causa del grave infortunio occorso ad Amar’e Stoudemire nel corso della stagione 2008/2009.
Il GM dei Suns aveva capito il potenziale del giovane Steph e, pur avendo a disposizione solamente la scelta numero 14 in quel Draft, cercava un modo per assicurarsi il prodotto di Davidson. Volete sapere il nome del GM? Steve Kerr.
Ecco, l’attuale coach dei Warriors, in un’intervista di qualche tempo dopo, ha dichiarato che nelle settimane precedenti al Draft aveva trovato un accordo di massima con Larry Riley, GM dei Warriors: se Curry fosse sceso fino alla n°7, Phoenix e Golden State avrebbero imbastito una trade attraverso la quale Curry sarebbe finito in Arizona e Stoudemire in California. Perciò quando Minnesota selezionò Jonny Flynn, lasciando via libera ai Warriors di scegliere Steph Curry, Kerr era stra-convinto che la trade si sarebbe conclusa positivamente.
Neanche l’ex compagno di Michael Jordan, però, aveva fatto i conti con Don Nelson, che fino alla sera del Draft era stato tenuto all’oscuro della trattativa. Una volta scoperto l’affair, Nelson si oppose con tutte le sue forze, convincendo Riley a non portare avanti la trade.
Cosa sarebbe successo se Nelson non fosse stato tanto convinto del talento di Curry o tanto diffidente sugli infortuni di Stoudemire?
Questo era il roster dei Phoenix Suns nella stagione 2009/2010:
Con questa squadra i Suns arrivarono alle Finali di Conference contro i Los Angeles Lakers, uscendo sconfitti con onore in Gara 6. Adesso leviamo Stat dall’equazione e aggiungiamo Curry. Innanzitutto, ai Suns la trade sarebbe convenuta poiché, soltanto un anno dopo, Amar’e abbandonò comunque la causa di Phoenix per trasferirsi nella Grande Mela. Inoltre, anche se, probabilmente, i Suns non avrebbero ottenuto gli stessi risultati nella stagione 2009/2010, nel lungo periodo avrebbero avuto maggiori possibilità di fare il definitivo salto di qualità. Il mio cervello non riesce neanche a pensare a Nash nel suo prime che smazza assist a Curry in uscita dai blocchi.
Con tutto il materiale a disposizione nel roster, Kerr non avrebbe avuto troppe difficoltà a mettere in piedi una trade per un lungo in grado di sostituire degnamente Stoudemire e forse, e sottolineo il forse, Nash sarebbe riuscito a infilarsi quel maledetto anello al dito.
Un’altra domanda mi sorge spontanea: con un progetto tanto coinvolgente, Kerr avrebbe abbandonato i Suns nel 2010 per tornare a fare il telecronista/opinionista? Avrebbe prima o poi rimpiazzato Gentry e preso in mano la panchina dei Suns? Avremmo assistito all’accoppiata Curry/Kerr con qualche anno di anticipo? Troppe domande che, temo, rimarranno senza risposta.
What if n°3
Per qualche ragione a noi sconosciuta, dopo Minnesota, neanche Golden State sceglie Stephen Curry, preferendogli magari DeMar DeRozan (scelto invece alla nove dai Raptors). Di conseguenza Mike D’antoni si fionda su Curry e inizia una lunga storia d’amore tra il miglior tiratore della storia dell’NBA e l’allenatore che lo avrebbe inserito nel contesto di gioco a lui più adatto, almeno teoricamente.
Con Curry che dimostra le sue qualità, con l’esplosione del nostro Danilo Gallinari e di Wilson Chandler, con l’arrivo di Stoudemire e con la solidità di un giovane come Mozgov, i Knicks avrebbero dato comunque vita al MeloDrama? Conoscendo l’ambiente di New York la risposta è semplice: sì. Un giovane Curry affiancato da Carmelo Anthony nel suo prime, il tutto sotto i dettami offensivi di Mike D’Antony. Magari quei Knicks non avrebbero comunque vinto il titolo, ma ne avremmo viste delle belle.
P.S. Nel mondo reale, con la chiamata numero 8, New York, non potendo più chiamare Curry, selezionò un giocatore altrettanto spettacolare: Jordan Hill.
What if n°4
I tre precedenti punti interrogativi ci portano al quarto ed ultimo what if. Ora come ora il binomio Curry & Golden State ci sembra la cosa più naturale del mondo, ma abbiamo visto che le cose sarebbero potute andare diversamente. Bastava che Don Nelson fosse stato esonerato a maggio invece che a settembre, che Kerr riuscisse a convincere totalmente Riley o che durante la lottery New York fosse pescata una posizione prima di Golden State. Oppure, ancora più semplicemente, bastava che David Kahn…non fosse David Kahn.
Se uno qualunque di questi eventi avesse cambiato il corso della storia, non avremmo assistito alla nascita-crescita-consacrazione dei Golden State Warriors, agli Splash Brothers, alle due finali contro LeBron, all’esplosione di Draymond Green e al record delle 73 vittorie in Regular Season.
In compenso avremmo visto i Minnesota Timberwolves diventare una contender con Darko Milicic nel roster o magari i Suns vincere il titolo. O forse Curry, in un’altra città, in un altro sistema, con altri allenatori, non avrebbe mai avuto la possibilità di esprimere a pieno il suo potenziale, finendo in panchina per far spazio al Jonny Flynn della situazione.
In fondo però, vedendo quello che il numero 30 sta combinando in maglia giallo-blu, difficile lamentarsi di come è andata…
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