Se prima dell’inizio della stagione vi avessero detto che dopo meno di un mese i Lakers sarebbero stati una delle squadre più divertenti della NBA probabilmente avreste finito col farvi una risata. Pieni di talento, senza dubbio; un core giovane con ampissimi margini di miglioramento, ma certo che sì; una bella scelta come nuovo allenatore dopo i due anni nefasti di Scott, I like it. Ma pensare che in così poco tempo Luke Walton avrebbe reso questo gruppo acerbo e semi-disfunzionale in un collettivo unito, con dei princìpi di gioco chiari ed efficaci, e che soprattutto se la gioca contro chiunque (dopo dodici partite il record dice 7 vittorie e 5 sconfitte) questo proprio no.
Eppure i Lakers, liberati dalle pressioni della figura oramai divenuta ingombrante e limitante di Kobe Bryant ― che dopo una carriera leggendaria ha appeso le AirJordan al chiodo. Mamba Out! ―, hanno approcciato la nuova stagione con uno spirito completamente diverso rompendo con le tradizioni degli ultimi due anni e dimostrando di essere una squadra di pallacanestro.
Al nucleo di giovani talenti da sviluppare già presenti come Clarkson, Randle, D’Angelo Russell e Larry Nance Junior i Lakers hanno aggiunto in estate due veterani come Mozgov e Deng (pagandoli anche il disturbo, visti i 136 milioni di dollari in due) e la nuova stella uscita da Duke Brandon Ingram, una mantide religiosa di 2 metri e dieci con uno wingspan di un uccello leggendario e un talento sconfinato (ed ha poco più di 19 anni). Questo per dire che rispetto alla passata stagione i Lakers non hanno operato dei veri upgrade nel roster, cosa che invece hanno fatto alla grande nella scelta del nuovo staff tecnico. Luke Walton ha dimostrato già l’anno scorso di poter essere un bravo head coach e di essere in grado di approcciare positivamente i più giovani. Quello che però non era chiaro era se sarebbe stato in grado di implementare un sistema di gioco che risultasse funzionale già da questa stagione, sui cui poter tracciare la linea di continuità per il futuro. Se il buongiorno si vede dal mattino i tifosi dei Lakers possono iniziare a sperare davvero di essere arrivati alla fine del tunnel.
L’esperienza come assistente dei Golden State Warriors sembra avergli insegnato molto e infatti si possono riscontrare alcune similitudini tra questi Lakers e la franchigia californiana che giace sulla Baia. Dal voler alzare il ritmo della partita in maniera costante alla necessità di far trovare energia alla palla in attacco, dallo sfruttare in campo nella massima estensione in larghezza e lunghezza all’importanza del continuo movimento, con assist, tagli continui, altruismo: le basi dell’imprescindibile flow (flusso) del gioco.
Ma l’insegnamento più importante che gli ha lasciato Steve Kerr, e che Walton sembra aver recepito molto bene, è quello di mettere ogni giocatore nelle migliori condizioni di esprimersi. Ingabbiare i giocatori sotto rigidi dettami tattici non fa parte di questa filosofia: pochi schemi, grande capacità di lettura, di reagire positivamente a quello che le difese avversarie cercano di proporre ― ovviamente occorre grande dedizione e disciplina, oltre ad un mirato allenamento, per far sì che questo funzioni. Libertà non si traduce con improvvisazione, né tanto meno con disorganizzazione.
I nuovi Lakers invece dimostrano di aver già assorbito i concetti primari del flow e sono particolarmente efficienti nell’esecuzione offensiva. Dopo dodici partite viaggiano ad oltre 107 punti segnati (calcolati su 100 possessi) di media, tirando particolarmente bene visto il 57% di True Shooting che li pone al terzo posto dietro (non a caso) solo a Houston e Warriors. Come gli Warriors i Lakers corrono ogni volta che ne hanno la possibilità ― sono quarti per PACE ― e basano la loro produzione offensiva sulla oramai stra-citata regola del seven seconds or less della filosofia d’antoniana (sì, D’Antoni è l’attuale allenatore di Houston) visto che oltre il 30% della loro produzione offensiva proviene dai primi 9 secondi dell’azione, nei quali i ragazzi di Walton stanno tirando un irreale 66.5% di eFG.
Giocatori come Russell, Lou Williams, Nick Young (redivivo!), Clarkson o Ingram permettono di essere letali in transizione (di cui fanno grande uso), di costruire dal palleggio, di ricevere uscendo dai blocchi, di spaziare il campo o di finalizzare in situazioni di isolamento, situazione in cui i Lakers sono i più efficienti della lega (54%). A differenza delle passate stagioni ― nelle quali Bryant monopolizzava l’attacco ― la distribuzione dei possessi è suddivisa in maniera più democratica e questo ha contribuito a responsabilizzare tutti.
Nonostante delle percentuali tutto sommato normali da oltre l’arco ― dove non sono neanche tra le prime quindici squadre della lega ― i Lakers sono bravissimi nell’aprire le difese avversarie ed arrivare velocemente in area dove solo Atlanta ed ancora gli Warriors stanno facendo meglio di loro (66.3%). Questo grazie a due fattori: la presenza di lunghi come Randle, Nance J. o Tarik Black, che sono dei buoni rollanti da situazioni di pick-and-roll e le grandi capacità di lettura da parte di tutti o quasi, che permettono tagli estremamente efficienti (65.9% di eFG, tantissimo) che compongono una grossa fetta dell’attacco giallo-viola con oltre il 7% del totale.
Non importa essere dei mostri di atletismo come Nance Junior, ma basta semplicemente farsi trovare posizionati correttamente, o sapere quando muoversi, o rollare con decisione per risultare pericolosi. Le capacità atletiche dei singoli garantiscono anche una notevole efficacia a rimbalzo d’attacco, dove i Lakers sono stra-primi nei putbacks.
Chi è davvero bravo in questo fondamentale è Julius Randle, forse il principale fattore di questo inizio. Quello che era uno dei punti interrogativi più grandi prima dell’inizio di stagione è ad oggi un’arma tattica fondamentale per lo scacchiere di Walton. Randle è un lungo anomalo, non eccessivamente contemporaneo vista la (quasi, per ora) totale assenza di pericolosità perimetrale ma neanche troppo vintage. Nonostante sia un difensore nella norma possiede una buona mobilità laterale che gli permette ― quando è coinvolto mentalmente ― di tenere botta anche contro esterni come Iguodala o giocatori piccoli e rapidissimi come Schröder. In attacco è pericoloso sia quando riceve in situazioni statiche che quando può sfoderare la sua forza diventando un carrarmato, in quelle dinamiche. In più da quest’anno sta affinando anche le qualità di passatore e capita sempre più spesso che ― soprattutto dopo un rimbalzo catturato ― conduca lui stesso la transizione creando per i compagni.
Randle che inoltre domina la lotta a rimbalzo, soprattutto sotto il proprio ferro, e che possiede la miglior Ast/Ratio (assist dati su 100 possessi) di squadra ― escludendo Huertas, che però ha giocato pochissimo ― con 20.6 assist. Nonostante inizi le partendo ricoprendo il ruolo di Power Forward con Mozgov da centro diventa assai pericoloso quando in campo c’è Nance Jr., con cui può scambiarsi posizione e compiti e col quale compone una coppia di lunghi tanto anomala quanto efficace. Nessuno dei due possiede un tiro da fuori e per caratteristiche tecniche dovrebbero finire col sovrapporsi o annullarsi ma in questo inizio sembrano funzionare perfettamente un po’ come la Teoria del Calabrone, che anatomicamente non dovrebbe poter volare ma lui non lo sa e se ne infischia allegramente, e così loro (soprattutto Nance Jr. che in quanto a volare non è secondo a nessuno).
Il reparto esterni, oltre a un Nick Young on fire rigenerato nella sua nuova vita di 3&D ― e senza quegli atteggiamenti che gli hanno pregiudicato la carriera ―, è intercambiabile e duttile e Walton sta girando molto i suoi interpreti a seconda delle situazioni di gioco. La capacità naturale di ognuno di poter segnare in qualsiasi momento è letale per le difese, punite da palleggi-arresto-tiro fulminanti o penetrazioni chiuse da morbidi floater. Williams è un attaccante naturale, Clarkson un esterno dotato di atletismo e D’Angelo Russell sta continuando il suo processo di crescita che lo sta trasformando sempre di più in un attaccante straordinario.
Infatti oltre ad avere una piuma al posto della mano sinistra e una velocità d’esecuzione folgorante, è anche molto forte nella parte superiore del corpo, cosa che gli permette di portare il suo avversario in post basso e batterlo a piacimento, soprattutto dopo aver perfezionato un movimento in rotazione sulla spalla destra (che ricorda un po’ Bryant) con il quale si stacca quel tanto che basta dall’avversario per punirlo con il jumper. Questo uno-due con cui prima batte Klay Thompson dal palleggio e poi spara una tripla in faccia a Curry dopo un movimento à-la-Curry sono la miglior riprova della sua debordante personalità: è lui il leader della squadra, soprattutto adesso che il regno di Bryant è finito e Ingram deve ancora ambientarsi ― nonostante stia facendo vedere cose interessanti molto in stile durantesque ― al mondo NBA.
È sicuramente presto per dare qualsiasi tipo di giudizio ma Walton ha sicuramente accelerato i tempi di un rebuilding che sembrava non andare mai nel verso giusto. La strada per tornare ad essere competitivi è ancora lunga, e nonostante sia giusto esaltarsi per i pregi ed i progressi mostrati in queste prime partite è giusto sottolineare anche come il nuovo sistema abbia comunque delle falle molto visibili. Sia in attacco, dove a volte D’Angelo e compagni tendono a fidarsi troppo delle loro doti balistiche finendo per incartare l’attacco su se stesso, che soprattutto in difesa dove sono emerse le vere lacune della squadra.
Infatti nessuno concede più tiri in Restricted Area dei Lakers (32.1 a partita) e soltanto Houston ha una percentuale di difesa del ferro peggiore del 65.7% che gli avversari tengono contro i Lakers. Mozgov sarebbe anche un buon rim protector (anche se notevolmente calato rispetto a qualche anno fa) ma la facilità con cui gli avversari arrivano nel pitturato lascerebbe poche speranze di reazione a chiunque. Anche se spesso manca proprio la concentrazione.
Walton vuole una difesa aggressiva che cerchi di intercettare le linee di passaggio per poi scatenarsi in transizione e i Lakers sono molto bravi in questo, considerando appunto gli atleti a disposizione, ma il banco salta sempre troppo facilmente. Spesso sembra anche che i Lakers preferiscano subire un canestro piuttosto che spendere un fallo, di modo da non spezzare il ritmo della partita e poter continuare a giocare ad alta velocità. Nonostante la presenza di una macchina da rimbalzo difensivo come Randle la squadra non è sempre prontissima in questo fondamentale e concede molte seconde chance; i Lakers che invece sono molto efficaci nei close-out perimetrali e più in generale nella difesa della linea da tre dove sono settimi per percentuale concessa, con il 32% scarso.
Roma comunque non è stata costruita in un giorno e questi Lakers non possono passare dal secondo peggior record della lega ad essere una squadra totalmente funzionale in così poco tempo. Chiuse queste dodici partite i giallo-viola sono attesi da un altro filotto di dodici partite ma con un coefficiente di difficoltà maggiore ― tra cui Golden State (due volte), San Antonio, Westbrook City e Barba Town ― che ci diranno di più sulla reale forza della squadra. Per di più bisognerà capire meglio i piani futuri visto che continuare su questa via potrebbe portare i Lakers a vincere più di 30 partite dopo tre anni ma che costerebbe di fatto la prima scelta nel prossimo draft (cosa che sarebbe ancora più grave perché porterebbe automaticamente anche a privarsi della prima scelta 2019, che andrebbe a Orlando).
C’è di certo che questo che l’inizio resta incoraggiante e dopo due anni veramente bui il peggio sembra davvero alle spalle. Cosa riserverà il futuro non si sa ma Lakers are fun again e questa è la miglior notizia per adesso.