19 giugno 2000, giorno di gara 6: gli Indiana Pacers allenati da Larry Bird sono con le spalle al muro. Sotto 3-2 con i Lakers (ancora loro…), devono vincere allo Staples di L.A. per trascinare la serie a gara 7.
Voglio che i ragazzi diano tutto per arrivare alla sfida decisiva – racconta Bird alla stampa – perché voglio che provino, almeno una volta nella vita, cosa significhi giocare per il titolo.
Ma questo non succederà: i Pacers combattono ma cedono con onore 116-111 ai gialloviola di Kobe & Shaq. Quelli erano i Pacers di Mark Jackson, Reggie Miller, Chris Mullin, Dale Davis, Jalen Rose, Austin Croshere, Sam Perkins e del centro olandese Rik Smits: una squadra forte ed esperta, in grado di lasciarsi alle spalle una certa legacy. Bird concluderà quella sera la sua esperienza da head coach, mantenendo fede alle parole pronunciate al momento di assumere l’incarico: “Allenerò solo per tre anni”.
Nel 1997 i Pacers, allora guidati da Larry Brown, avevano mancato l’accesso ai playoff. Il presidente Donnie Walsh aveva bisogno di dare una scossa alla franchigia. In quel periodo Bird, ritiratosi da cinque anni, passava il tempo in Florida giocando a golf, nascondendosi dai media, seguendo di tanto in tanto i Miami Heat di Pat Riley (“Ma non ho mai parlato con lui: diamine, era uno dei Lakers!”) e facendo il consulente speciale dei Boston Celtics. Parlando con Walsh di coach Brown, che Bird aveva suggerito ai Celtics, il chairman di Indiana propose allo stesso Bird la panchina dei Pacers. Dopo averci riflettuto un po’, decise di accettare: la competizione gli mancava da morire e l’opportunità di lavorare nel suo Indiana fece il resto. Dalle parti di casa scoppiò la febbre-Bird.
Larry affrontò la nuova avventura con la fiducia in se stesso che lo ha sempre contraddistinto. Una sicurezza che ora doveva riuscire a trasmettere ai giocatori, senza intimorirli né stressarli. Aveva fiducia in loro e loro si sarebbero buttati nel fuoco per “The Legend”.
Sono certo di poter gestire senza problemi questa situazione – raccontò in un’intervista – Sono stato giocatore, credo di sapere cosa serve a una squadra NBA. Ci vuole pazienza e io credo di averla. Capita a tutti di avere momenti difficili durante una stagione, ma siccome li ho provati anche io, so come reagire e far reagire gli altri. Non c’è niente di diverso tra me giovane e questi ragazzi. La voglia di giocare è la stessa.
Un bellissimo reportage della giornalista Jackie MacMullan di Sports Illustrated intitolato Tornando a casa, raccontò magistralmente il ritorno in Indiana di Larry e la sfida che gli si prospettava. Coach Bird fu un successo: riusciva a relazionarsi con i giocatori parlando in modo chiaro e spingendo concetti semplici. In panchina restava calmo e delegava molto lavoro ai suoi assistenti Rick Carlisle e Dick Harter. Si ispirava a Bill Fitch e a K.C. Jones, i suoi due maestri ai Celtics, ma anche a Riley, che arrivò a definire “il Michael Jordan degli allenatori” per la sua capacità di adottare qualsiasi tipo di gioco adatto alla situazione del momento. Non tollerava i giocatori egoisti, svogliati, ritardatari e poco attenti alla cura del proprio fisico. Portò Indiana a due finali di conference consecutive, perse con i Bulls nel 1998 (58-24 in regular season) e con i Knicks nel 1999 (33-17, nella stagione breve del lockout), prima dell’esaltante viaggio alle Finals del 2000 (56-26).