Se nasci in Sud Africa, da mamma gallese e padre inglese, a diciotto mesi ti trasferisci in Canada e sei un amante del calcio e dell’hockey, in linea di massima, difficilmente diventerai un appassionato di basket. Figuriamoci un professionista NBA. È risaputo che il contesto in cui si cresce è parte integrante nello sviluppo di un uomo e incide fortemente sulle sue scelte e interessi. Seguendo questa teoria, crescere in Canada (nazione famosa per molte cose ma sicuramente non per il basket) con un papà professionista di soccer e con vicini di casa che giocano in NHL, indirizza il 99% dei canadesi verso orizzonti sportivi che non prevedono parquet e retine di nylon.
Tutto vero e inconfutabile. Fortunatamente, però, esistono le eccezioni. E sono proprio le eccezioni che solitamente ci permettono di sognare.
Steve Nash nasce a Johannesburg nel 1974 e passa i primi tredici anni della sua vita a provare tutti gli sport meno che la pallacanestro. Steve si appassiona soprattutto di soccer (per la felicità di suo padre John, all’epoca calciatore professionista, e di suo fratello Martin), di hockey sul ghiaccio e di lacrosse.
Poi, proprio come nelle tragedie greche, un evento non previsto scombina i normali meccanismi di causa ed effetto, cambiando definitivamente la vita del protagonista. A rivestire il ruolo di Deus ex machina, è semplicemente un amico della famiglia Nash, che regala al piccolo Steve un pallone da basket. Il feeling è immediato:
Avevo più o meno tredici anni quando mi regalarono il mio primo pallone. Mi ha subito dato delle buone sensazioni, come se avessi appena trovato un nuovo amico.
La storia d’amore tra Steve e il basket proseguì tra i corridoi del liceo, prima sul parquet della palestra della Mount Douglas Secondary School e dopo, quando i suoi voti iniziarono a peggiorare, alla St.Mary University School. Durante questa seconda esperienza liceale, Nash iniziò a farsi conoscere in giro per la nazione, trascinando nel 1992 la St.Mary sino alle finali del campionato regionale. Il suo coach di allora, Ian Hyde-Lay, capì subito di avere tra le mani un diamante grezzo:
Quando è arrivato nella nostra scuola, si è dovuto inserire in una squadra estremamente rodata e con ottime doti atletiche. Una squadra che avrebbe fatto benissimo anche senza di lui. Ciononostante Steve è diventato immediatamente il leader del team. Più il gioco si faceva complicato, più lui voleva prendere in mano la situazione, prendendo l’ultimo tiro o cose del genere. C’era qualcosa di particolare in lui. C’era uno strano bagliore nei suoi occhi che ti faceva capire che era diverso da tutti gli altri ragazzi.
Sapendo che il basket in Canada non era particolarmente seguito dagli scout americani, Hyde-Lay mandò lettere e video ad una trentina di atenei per sponsorizzare il giovane Nash. Le lettere giungevano puntuali a destinazione, ma con altrettanta puntualità arrivavano anche le lettere di rifiuto. Questo iter snervante proseguì per diversi mesi durante l’anno da senior di Steve, fino a che Dick Davey, head coach di University of Santa Clara, si incuriosì leggendo le parole di Hyde-Lay e decise di pianificare una gita in Canada, precisamente a Victoria.
Dopo aver visto la partita di Nash, la prima preoccupazione di Davey fu di capire se altri scout avessero assistito alla sua stessa epifania. Una volta assicuratosi di essere stato l’unico, Davey andò a parlare con Steve e gli disse esattamente queste parole: “Sei il peggior difensore che io abbia mai visto, ma ti voglio nel mio programma“.
Al momento dell’arrivo di Nash in California (stagione 1992/1993), i Broncos non partecipavano al torneo NCAA da cinque anni. Ecco…le cose stavano per cambiare. Steve guidò i suoi compagni di squadra alla conquista del titolo WCC (West Coast Conference) che convinse i giudici ad assegnare a Santa Clara la testa di serie numero 15 nel torneo NCAA. Al primo turno i Broncos sconfissero a sorpresa la testa di serie numero 2 Arizona grazie ad un’eccellente prestazione del Canadese, che nel finale realizzò sei punti decisivi. Purtroppo Nash e compagni non furono capaci di ripetersi nella partita successiva, perdendo contro Temple.
Tra alti e bassi la carriera collegiale di Steve continuò per altre tre stagioni, esplodendo definitivamente proprio durante il suo ultimo anno, in cui venne nominato All America. Ottenuta la laurea in Sociologia, Nash decise che era giunto il momento di fare il grande salto e si rese eleggibile per il Draft del 1996 (di cui, ve lo prometto, parleremo approfonditamente in un’altra puntata).
Sebbene gente del calibro di Gary Payton e Jason Kidd avesse espresso pareri estremamente positivi su Nash, il Canadese non era altrettanto supportato dai media. Perciò, quando il 26 giugno in New Jersey si tenne il Draft, Nash, complici anche i tanti talenti di quell’edizione (ritenuta a ragione una delle migliori della storia), scese fino alla posizione numero 15.
With the fifteenth pick, in the 1996 NBA Draft, the Phoenix Suns select Steve Nash, from University of Santa Clara
In Arizona, la decisione di Brian Colangelo (GM dell’epoca dei Suns) di prendere Nash fu accolta con grande diffidenza: un bianco canadese/sudafricano, con doti fisiche nella norma, che aveva giocato in un college non appartenente ad una delle Division principali, certo non stuzzicava le fantasie dei tifosi di Phoenix. Oltretutto nel ruolo di playmaker i Suns potevano contare su uno degli astri nascenti della lega: Jason Kidd. La contemporanea presenza del buon Giasone e di Kevin Johnson non permise a Nash di mettersi in mostra nella sua stagione da rookie, in cui collezionò 65 presenze con appena 10 minuti di media.
Dopo il primo anno di transizione, il talento di Steve finalmente sbocciò anche in NBA. Partendo (quasi) sempre dalla panchina, il Canadese iniziò a farsi apprezzare da Coach Danny Ainge e dai compagni e cominciò a scendere sul parquet con più regolarità, toccando i venti minuti di media in 76 partite stagionali. Nel 1997/1998 i Suns conclusero la stagione con il record di 56-26, abbastanza per la qualificazione ai playoff, dove però furono estromessi al primo turno dai San Antonio Spurs.
Nonostante l’evidenza dei miglioramenti raggiunti da Nash, il Front Office di Phoenix decise di scambiarlo al termine della stagione. Colangelo si sbarazzò di Steve inviandolo a Dallas in cambio di Martin Muursepp (…), Bubba Wells (…), i diritti su Pat Garrity (…) e una futura scelta al primo giro che si concretizzerà in Shawn Marion. Ah, quasi dimenticavo: in quella trade, che si svolse la notte del Draft, erano inclusi anche i Bucks, che ottennero la sesta scelta dei Mavericks (Robert Traylor) in cambio della loro nona scelta, un giovane tedesco nato a Wurzburg, un biondo che risponde al nome di Dirk Nowitzki. Mai sentito nominare?
Piccola parentesi. Tra tutte le franchigie, perché proprio Dallas si interessò al play canadese? Il motivo è semplice. Nelle due stagioni di Nash a Phoenix, uno degli assistant coach era Donnie Nelson, figlio del leggendario allenatore Don Nelson. La stessa estate in cui Steve sarebbe stato scaricato dai Suns, Donnie aveva accettato di trasferirsi alla corte di suo padre, all’epoca allenatore dei Mavericks. Quindi, nell’esatto momento in cui Nelson Jr scoprì che Nash era stato messo sul mercato, convinse suo padre a imbastire una trade per prenderlo, assicurandogli che il ragazzo sarebbe ben valso una messa.
Dopo un applauso immaginario riservato a Nelson padre e Nelson figlio, possiamo tornare alla nostra storia. Nash approda a Dallas e nelle sue prime due stagioni in Texas, caratterizzate prima dal lock-out e poi da un infortunio alla caviglia, non riuscì a portare i Mavs ai playoff. In ogni caso, il cambiamento più rilevante per Dallas fu a livello societario: nel gennaio 2000 Mark Cuban acquistò la franchigia per $285 milioni.
La crescita di Nash, l’esplosione di Nowitzki e gli investimenti del nuovo proprietario consentirono ai Mavericks di diventare competitivi nel giro di pochissimo tempo. Nella stagione 2000/2001, infatti, Dallas conquistò 53 vittorie, arrivò alla post-season e superò anche il primo turno (buttando fuori i Jazz) prima di perdere alle semifinali di Conference contro gli Spurs. La stagione 2001/2002 si rivelò simile alla precedente, con l’alleanza sul binario Canada-Germania che non fu sufficiente a superare il secondo turno dei Playoff, questa volta per colpa dei Sacramento Kings.
Sarà la stagione 2002/2003 quella della consacrazione definitiva di Dallas. I Mavs si presentarono ai blocchi di partenza con questo roster:
Il trio Nowitzki-Finley-Nash infilò 14 vittorie nelle prime 14 partite della stagione, lanciando un forte segnale all’intera lega. Dallas concluse la regular season con 60 vittorie a fronte di 22 sconfitte, classificandosi terza nella Western Conference e nei primi due turni dei Playoff ebbe la meglio prima su Portland e poi su Sacramento, entrambe le volte a Gara 7. Ad aspettarli per l’ultimo turno prima delle Finals c’erano i San Antonio Spurs.
Dopo aver ribaltato il fattore campo in Gara 1, i Mavs persero Gara 2, ma soprattutto persero Dirk Nowitzki per l’intera serie a causa di un infortunio al ginocchio. L’infortunio del Tedesco influenzò notevolmente l’andamento della serie e Nash si dovette arrendere agli Spurs in sei gare. In quel momento qualcosa si ruppe nello spogliatoio texano, tanto che nella stagione 2003/2004 la franchigia di Cuban non riuscì ad avere la meglio dei Kings al primo turno dei Playoff.
Al termine della stagione 2003/2004 il contratto di Nash era giunto in scadenza…e Nelson e Cuban decisero di non rinnovarlo, commettendo forse l’errore più grande della loro carriera. Il Canadese, libero di offrire a qualsiasi squadra i suoi servigi, optò per il ritorno in quel di Phoenix, dove ad attenderlo a braccia aperte trovò un Amar’e Stoudemire ancora in splendida forma.
Possiamo dividere le otto stagioni di Nash in Arizona in due ere differenti: con D’Antoni e senza D’Antoni. Visto che a parole è complicato descrivere le annate di Steve in Arizona, lasciamo il compito alle immagini:
Nelle stagioni 2004/2005 e 2005/2006 il rendimento di Nash fu talmente elevato che il Canadese, in entrambe le occasioni, fu premiato con il titolo di MVP. A livello di squadra, dopo due entusiasmanti cavalcate ai playoff, i Suns uscirono alla Finali di Conference, sconfitti prima dagli Spurs nel 2005 e poi dallo scontro fratricida con i Mavericks di Nowitzki nel 2006.
Anche nei due anni successivi i Suns non riuscirono a centrare il titolo e per questo motivo la dirigenza decise di cambiare guida tecnica: via Mike D’Antony per far spazio ad Alvin Gentry.
Dopo un’annata di transizione, Steve Nash, efficacemente accompagnato da Richardson, Stoudemire, Frye, Grant Hill e un giovanissimo Goran Dragic, trascinò Phoenix nuovamente alle finali di Conference, tra l’altro sconfiggendo al secondo turno la loro bestia nera: i San Antonio Spurs. Ad aspettarli per l’ultimo atto prima delle Finals c’erano i Los Angeles Lakers di Bryant e Gasol. Dopo aver perso fuori casa le prime due sfide, i Suns riportarono la serie in parità sfruttando pienamente l’atmosfera infuocata dell’US Airways Center.
Per gara 5 la serie tornò in California. I Lakers scapparono nel primo tempo ma i Suns ricucirono lo strappo tra la fine del terzo parziale e l’inizio del quarto. Si arrivò punto a punto e un paio di scelte rivedibili di Artest consentirono a Phoenix di siglare con Richardson la tripla del 101-101. E poi…
Questa volta i sogni di gloria di Nash si infransero contro un air-ball di Kobe e con il conseguente tap-in del peggiore in campo fino a quel momento: Ron Artest. Con l’inerzia della serie completamente dalla parte dei Losangelini, i Suns non riuscirono a reagire e persero gara 6 in Arizona uscendo definitivamente dai Playoff.
Nelle due stagioni successive il front office di Phoenix provò ad invertire la rotta, ottenendo però risultati altamente negativi. La squadra, infatti, non si qualificò per la post-season in entrambe le occasioni. Di conseguenza Nash decise di cambiare aria e firmò un contratto sign & trade proprio con i Los Angeles Lakers, dando vita al trio Bryant-Howard-Nash. Nonostante l’hype, inizialmente, avesse toccato vette fino ad allora inesplorate, l’esperimento della franchigia californiana si rivelò fallimentare. Complici infortuni e problemi tra giocatori, i Lakers non trovarono mai l’alchimia necessaria per fare il salto di qualità, ottenendo risultati assolutamente mediocri.
Dopo tre stagioni in giallo-viola, Steve Nash ha annunciato il ritiro nel 2015, entrando di diritto a far parte del ristretto club dei “Giocatori fenomenali che non hanno mai vinto un titolo“, in compagnia di gente come Ewing, Iverson, Barkley, Stockton e Malone. Così come per i suoi illustri colleghi, i fattori che hanno impedito al Canadese di mettersi un anello al dito sono stati molteplici e noi li andremo ad analizzare tramite le nostre solite sliding doors.
What if n°1
2003. Finali di Conference tra Dallas e San Antonio. Siamo sull’1-1. I Suns hanno ribaltato il fattore campo e sono pronti a giocarsi tutto nelle due partite casalinghe. Nell’Universo Reale Dirk si infortuna al ginocchio e gli Spurs arrivano in finale, laureandosi campioni contro i New Jersey Nets.
E se Nowitzki non si fosse infortunato?
Non possiamo avere la certezza che i Mavs avrebbero sconfitto la truppa di Popovich, ma perlomeno se la sarebbero giocata ad armi pari. Inoltre abbiamo la convinzione che quei Mavericks fossero più forti dei Nets, quindi se avessero superato lo scoglio degli Speroni, probabilmente avrebbero anche conquistato il titolo.
What if n°2
Come scritto in precedenza, Dallas nel 2004 si fece scappare Nash, che di lì a 24 mesi si mise in bacheca ben due titoli MVP. La domanda che sorge spontanea è:
Come è possibile?
- Nel 2002/2003 e nel 2003/2004, sebbene il Canadese avesse brillato in regular season, non aveva fornito delle prestazioni altrettanto convincenti nei playoff.
- Le richieste di Steve per il rinnovo del contratto erano piuttosto elevate: quadriennale da $15 milioni l’anno. Non pochi per un trentunenne con problemi cronici alla schiena
All’epoca, quindi, era giustificabile la scelta del Front Office dei Mavs? Probabilmente sì. Con il senno del poi, un po’ meno. Adesso però, occhio all’immagine qui sotto:
Con Nash lontano dal Texas, uno degli acquisti per rimpiazzarlo fu il non certo indimenticabile Erick Dampier, a cui dobbiamo riconoscere il merito di essere più bravo nelle trattative contrattuali che sul campo visto che intascò esattamente $57 milioni in 6 anni.
Ci può stare il non rinnovare il contratto a Nash per le motivazioni sopracitate, ma se gli stessi soldi vengono investiti su Erick Dampier, a quel punto non era meglio tenersi il Canadese? Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza.
In ogni caso, ipotizziamo che Steve fosse stato confermato da Nelson. Immaginiamo anche che i Mavs avessero tenuto Antawn Jamison invece di scambiarlo con Jerry Stackhouse e Devin Harris. A quel punto Dallas avrebbe avuto un roster iper-competitivo composto da: Nash (nel suo prime), Nowitzki, Jamison, Terry, Josh Howard, Diop e un paio di veterani ansiosi di lottare per il titolo.
Calcolando che nel 2006 Dallas riuscì ad arrivare alle Finals (perse poi contro Miami) con questo roster:
Niente mi toglie dalla testa che con Nash al posto di Stackhouse, Dallas avrebbe conquistato il suo primo titolo con cinque anni di anticipo. Con un anello al dito probabilmente Steve non avrebbe più abbandonato il Texas, rinunciando quindi alle esperienze con i Lakers e soprattutto con i Phoenix Suns.
E a proposito di Phoenix…
What if n°3
In fondo i Suns, in otto anni con Nash, si sono qualificati per tre volte alle Finali di Conference. Il Front Office non può aver fatto troppo male, giusto? Sbagliato.
- Nell’estate in cui firmarono Nash, i Suns scambiarono la settima scelta al Draft 2004 con Chicago in cambio di $3 milioni e una scelta al primo giro del 2006. Quella settima scelta si sarebbe trasformata in Andre Iguodala o in Luol Deng. Appena una settimana dopo, Colangelo firmò Quentin Richardson con un contratto di sei anni a $42 milioni. Se avessero semplicemente tenuto quella pick, si sarebbero goduti Iguodala (o Deng) per molti anni e li avrebbero pagati un terzo rispetto a Quentin.
- Phoenix ha, letteralmente, buttato nel cesso Joe Johnson non pareggiando l’offerta di $70 milioni di Atlanta ma preferendo ricevere in cambio Diaw e due future scelte al primo giro. Così facendo hanno rinunciato ad un giovane tiratore letale e assolutamente perfetto per lo stile di gioco di D’Antoni.
- Draft del 2006. Invece di selezionare Rajon Rondo con la 21esima scelta, preferirono scambiare i diritti di quella pick con Boston in cambio della scelta al primo giro dei Cavs nel 2007 e di $2 milioni. Qualche settimana dopo Colangelo firmò Marcus Banks con un contratto da $24 milioni. Meglio Rondo, con un contratto da rookie, come back-up di Nash oppure pagare uno come Banks cinque volte tanto?
Phoenix ha deliberatamente rinunciato al seguente roster: Nash, Marion, Stoudemire, Johnson, Barbosa, Iguodala, Rondo più qualche veterano e buyout di febbraio.
Secondo voi, è legittimo pensare che con una squadra del genere i Suns, e di conseguenza Nash, avrebbero conquistato almeno un titolo sotto la guida di D’Antoni?
What if n°4
Abbiamo pensato per parecchi giorni ad una sliding doors degli anni del Canadese ai Lakers. Ma niente, non abbiamo cavato un ragno dal buco. In fondo i giallo-viola come potevano vincere un titolo con uno così nel roster?