Il sentimentalismo non è (più) di questo mondo. La società inter(net)connessa e iper-globalizza, frenetica e – se ci è permesso scomodare Zygmunt Bauman – “liquida” di oggi ci spinge lentamente a diventare sempre più pragmatici, dinamici, ma forse anche troppo distaccati, troppo freddi. Si sta perdendo, brano a brano, il calore tutto umano che solo le emozioni, il sentimentalismo, possono donare. E così anche lo sport, che dovrebbe essere il regno incontrastato della passione, quella vera e rovente del tifo, si è mercificato, ha speculato, si è fatto business. Non che questo sia un male di per sé, ma bisognerà pur ammettere che c’è poco di romantico, e molto invece di triste, nel sapere che c’è qualcuno che calcola e specula sulla tua fede (almeno su quella sportiva) per trasformarla in un ritorno economico, in dollaroni – o Euro – sonanti, come una semplice questione d’affari.
Per fortuna però, un po’ in ogni sport, sopravvive qualche storia in grado di farci emozionare, di donarci ancora quella parte di sentimentalismo che via via stiamo estinguendo. Sopravvive in Novak Djokovic che fa sedere un raccattapalle del Roland Garros al suo fianco per ripararlo dalla pioggia, nel sorriso enorme di Max Verstappen che vince il suo primo Gran Premio di Formula 1 a 18 anni e poco più. Si fa poesia in Francesco Totti, in Alessandro Del Piero, in Javier Zanetti, in Paolo Maldini che per una sola maglia hanno dato tutto. Si sublima nella carriera di un Kobe Bryant, di un Tim Duncan, di un Dirk Nowitzki, ormai più che semplici bandiere di una squadra, ma veri e propri mostri sacri, grandi sia per le loro gesta sui parquet della NBA che per l’incrollabile fedeltà ai loro colori. Una fedeltà che li pone su un piano semidivino, li circonda del manto dell’intoccabilità, li ricopre di sacralità. Su quel piano, fino a qualche mese fa, c’era anche un altro uomo. Un uomo tanto fedele alla maglia da diventare un idolo, il simbolo rilucente di qualcosa che andava oltre il basket. Un uomo che però, ha compiuto la dolorosa scelta di cambiare, di abbandonare quella fede. Perché mai lo ha fatto? Non per i soldi, non solo per quelli quantomeno (sebbene 25 milioni di verdoni possano avere il loro peso specifico). E quindi se non per i soldi, per che cosa? Questo è ciò che cercherò di spiegarvi raccontandovi la storia di quest’uomo. E nel farlo, con tutta probabilità, infrangerò – ah, ma che dico – sfonderò quell’impalpabile «quarta parete» che divide scrittori e lettori e che nel nostro caso si materializza nello schermo dei vostri computer. Non me ne vogliate. Perché in fin dei conti, anche raccontare questa storia è questione di passione, questione di sentimentalismo. Perché questa è la storia di Dwyane Wade.
Il South Side di Chicago è sempre stata una zona non particolarmente accogliente della città, o almeno lo sono alcuni quartieri. Regni delle gang, con lunghe strade luride e perpendicolari dove la droga, la prostituzione e la violenza la fanno da padrone, con una colonna sonora di spari, sirene e grida. Insomma un posto che fa molto poco Otto sotto un tetto e parecchio Shameless, con meno ubriaconi impenitenti e più morti ammazzati. Sicuramente non il luogo dei sogni per partorire e crescere un figlio. A volte però le alternative non ci sono, ed era esattamente ciò che succedeva a JoLinda nel 1977. Era una ragazza dura JoLinda, forgiata da quella vita di periferia e costretta a crescere in fretta. Aveva 18 anni e già due figli quando conobbe Dwyane. Era un ex sergente dell’Esercito degli Stati Uniti, un pezzo d’uomo, alto e bello. E si innamorò di lei. JoLinda lo sposò, e per un po’ le cose sembrarono andare per il verso giusto. Solo per un po’. Il 17 gennaio 1982 JoLinda diede alla luce un bel maschietto. Lo chiamarono Dwyane jr., Dwyane Tyrone Wade jr. Ma si sa, a volte nemmeno un bambino può salvare un rapporto che non c’è più, e quando il piccolo Dwyane aveva appena 4 mesi suo padre se ne andò di casa, separandosi dalla madre. Lasciò il quartiere, mentre JoLinda riusciva ad ottenere la custodia dei bambini. Il colpo però fu troppo duro da assorbire, e il South Side finì per impadronirsi della vita di quella ragazza, trascinandola in una spirale discendente di paura e dipendenza. Procurarsi l’alcool era facile. Procurarsi la droga era facile. E JoLinda divenne ben presto una tossica alcolizzata. E dal momento che si era calata così a fondo nell’ambiente delle gang di strada, cominciò ancor più presto a spacciare in prima persona. Non esattamente l’ideale di madre amorevole all’americana. Dwyane cresceva guardando sua madre ubriacarsi o iniettarsi eroina in salotto, in compagnia di certi soggetti non esattamente raccomandabili che gli invadevano la casa. Cresceva vedendo cose che non avrebbe dovuto vedere. Cresceva trovando spesso dei cadaveri abbandonati nel secchio della spazzatura vicino casa. Cresceva tra gli spari e le sirene, assistendo a intervalli regolari a un raid della polizia. E poi, quando aveva solo 6 anni, il raid toccò a lui. Una squadra della polizia di Chicago, tutti ceffi grossi e incazzosi, sfondò la porta di casa e entrò chiamando a gran voce JoLinda, le pistole spianate neanche cercassero un terrorista. C’era una sola luce nella vita di Dwyane, l’unica àncora che gli permetteva di non affondare in quella spirale violenta insieme a sua madre: sua sorella Tragil. Di poco più grande di lui, Tragil era coraggiosa, forte e decisa. Lo stava crescendo praticamente da sola, nonostante dovesse ancora crescere lei stessa, ma sapeva benissimo che non era possibile continuare in quel modo. Così inventò un piano. Il giorno dell’ottavo compleanno di Dwyane, Tragil gli disse di preparare il suo zainetto, perché lo avrebbe portato al cinema. Il piccolo era emozionato, elettrizzato. Gli piacevano i film. Ma poi sua sorella iniziò a camminare, e decisamente non andò verso il cinema. Uscì dal quartiere, e lo portò a casa di suo padre, da Dwyane sr. che, nel frattempo, si era risposato.
Fu una benedizione. Dwyane sr. accudì e dette una disciplina (forse anche un po’ troppo ferrea) a quel bambino che era cresciuto praticamente da solo tra le peggiori scene che il South Side avesse da offrire. Ma la mamma è sempre la mamma, anche se sniffa cocaina, e per questo ogni tanto il piccolo Dwyane andava ancora a trovarla. Del resto non viveva poi così lontano. Almeno fino a quando papà non decise di trasferirsi con tutta la famiglia a Robbins, Illinois, un po’ fuori rispetto a Chicago. Perse ormai anche le visite del figlio, JoLinda andò completamente fuori controllo. Alcuni sui “amici”, grossi spacciatori del South Side, le proposero di provare delle droghe prima che fossero smerciate per le strade. Ne fecero praticamente una tester in un bel trial clinico casareccio e improvvisato: le dettero sostanze tagliate male, droghe sintetiche e qualsiasi genere di robaccia potesse passar loro per la testa. A un certo punto, per errore, JoLinda arrivò a iniettarsi dell’LSD, scoprendo che gli acidi endovena non facevano assolutamente un bell’effetto. Quando la ricoverarono era veramente vicina a passare all’altro mondo. Si ristabilì pian piano, ma non riuscì a uscire da quel circolo vizioso di droga e criminalità. Alla fine, nel 1994 la polizia la beccò con le mani nel sacco, specificamente un sacco di crack che stava cercando di vendere. Venne arrestata e portata nel penitenziario femminile di Cook County. E fu qui che Dwyane, appena dodicenne, rivide sua madre, dietro uno spesso pannello di vetro antiproiettile, parlandole con un telefono. Decise che la sua vita non sarebbe andata così.
Cercò una via di scampo nello sport: fin da quando era bambino era sempre andato al parco a giocare a basket sui playground di Chicago, con la città che era infiammata dal fenomeno Bulls e idolatrava un certo Michael in maglia #23. Dwyane non faceva eccezione, e si sedeva ogni sera a guardare le gesta di MJ, osservandone estasiato il gioco, cercando, inconsciamente, di assimilarne i fondamentali. Quando cominciò le scuole superiori, alla Harlod L. Richards High School di Oak Lawn, Illinois, Dwyane voleva diventare la star della squadra di basket della scuola. Ma con lui c’era anche il suo fratellastro, Demetrius McDaniel, che era molto più pronto di lui. Il paragone continuo con Demetrius era sfibrante per Dwyane, sembrava quasi che ogni traguardo che riusciva a tagliare fosse stato raggiunto prima (e meglio) dal fratellastro. Così per i primi due anni Dwyane cercò una via di fuga, e la trovò in un altro sport: il football. Si sentiva libero sul campo, con il caschetto in testa e le protezioni addosso, e divenne in breve un ottimo wide reciever. Il richiamo del parquet però era troppo forte, e dopo quei due anni di volontario esilio Dwyane tornò al primo amore, e – complice una straordinaria crescita fisica durante l’estate – si prese la squadra. Sempre supportato dal coach, Jake Fitzgerald, nel suo anno da junior segnò 20.7 pts e 7.6 rbd a partita, in quello da senior 27 pts e 11 rbd ad allacciata di scarpe, guidando i suoi a un record di 24-5 e alla finale di stato, oltre che stabilendo i record scolastici per punti segnati e palle recuperate in una singola stagione. Demetrius McDaniel chi?
Ma di pari passo ai successi sportivi venivano gli insuccessi scolastici. Dwyane non si applicava, non studiava, pensava solo al basket. Il suo cattivo rendimento accademico depose profondamente a suo sfavore quando i college cominciarono a pensare di reclutarlo, e così le uniche tre proposte di una borsa di studio che arrivarono nella sua cassetta della posta alla fine del suo ultimo anno di high school furono quelle di Marquette University, Illinois State e DePaul University, non esattamente tre università d’élite nel panorama nordamericano. Alla fine Dwyane scelse di lasciare l’Illinois e cercare l’avventura alla corte di coach Tom Crean, a Marquette, in Wisconsin. Le aspettative di Wade per la sua carriera collegiale erano davvero molto alte, ma andarono a sbattere contro un muro. Un muro chiamato Proposition 48, ossia la regola con la quale la NCAA impediva agli atleti dagli scadenti risultati accademici di partecipare al torneo. E i risultati accademici di Dwyane non potevano dirsi eccelsi. Né buoni. E nemmeno discreti se è per questo. Vedendo quel ragazzo costretto ai box, Crean trovò comunque il modo di farlo partecipare, e in ogni singola partita di Marquette lo fece sedere al suo fianco, spiegandogli gli schemi, istruendolo sul modo in cui si sarebbe potuto integrare in quel sistema, cominciando a prepararlo. All’inizio del suo anno da sophomore a Marquette Dwyane Wade era già un giocatore molto più maturo e intelligente tatticamente di quando non fosse arrivato. E non aveva ancora giocato un solo secondo di college basketball.
In un giorno d’ottobre del 2001 ricevette una chiamata da Chicago. Era JoLinda. In quegli anni Dwyane aveva perso le tracce di sua madre, che non faceva che uscire dalla prigione e rientrarci subito dopo aver tentato di piazzare un po’ di crack. JoLinda e Dwyane parlarono a lungo, lei gli spiegò che voleva dare una svolta alla sua vita, che aveva cominciato un programma di recupero, che voleva cambiare, per lui. Alla fine Dwyane le disse che sarebbe andato da lei per Natale, per passare le feste insieme. Era emozionato. Sua madre era sobria e pulita, e sarebbe stata una novità per lui. Quando bussò alla sua porta a Chicago probabilmente fremeva. Ma la realtà lo colpì di nuovo, dura e ingiusta come era sempre stata: JoLinda non era né sobria né pulita, e finì per ammettere di fronte a suo figlio che sarebbe presto finita in carcere. Di nuovo.
I was hurt because I felt like I was just getting my mom back, and now she had to leave again.
Dwyane gettò le sue frustrazioni sul basket, affrontando ogni partita con il coltello tra i denti, con la voglia di dimostrare a tutti che razza di giocatore fosse.
Chiuse la stagione 2001/02 a 17.8 pts, 6.6 rbd, 3.4 ass e 2.4 stl ad allacciata di scarpe, sorprendendo tutti tranne il suo coach, che aveva già capito il potenziale di quel ragazzino dal passato turbolento. Marquette arrivò a un record di 26-7, il migliore dal lontano ’94. Ed era solo l’inizio. L’anno seguente Wade incrementò la sua produzione, arrivando a 21.5 pts a partita e trascinando Marquette a un record di 27-6. Eppure nonostante tutto, per Dwyane la gioia più grande in assoluto fu vincere per 70-61 contro a Cincinnati il 5 marzo del 2003 di fronte agli occhi ammirati e lucidi di mamma JoLinda, uscita da poco di prigione e finalmente pulita per davvero. Nella finale regionale del Midwest Marquette incontrò gli strafavoriti Kentucky Wildcats. Tutti pensavano che quel fantastico viaggio sarebbe finito quel giorno. Tutti tranne Dwyane Wade, e contro Kentucky andò in onda uno dei capitoli più epici di quella che stava per diventare la sua leggendaria carriera. Mise insieme una tripla doppia da 29 pts, 11 ass e 11 rbd (la quarta tripla doppia nell’intera storia del torneo NCAA), sospingendo Marquette all’impensabile vittoria per 83-69. Fu come se Dwyane Wade avesse cominciato a brillare di luce propria. Le sue prestazioni clamorose lo innalzarono alle cronache nazionali, come se una nuova stella si fosse accesa nel firmamento. Per questo Dwyane decise di lasciare l’università prima del suo ultimo anno e di rendersi eleggibile per il Draft NBA del 2003. Una nuova era stava per cominciare.
Seduto al suo tavolo riservato nel Madison Square Garden quella sera del 26 giugno 2003, fasciato in un elegantissimo abito scuro, Dwyane Wade sapeva di essersi guadagnato la NBA, e soprattutto il diritto di entrarci dalla porta principale. Quello che rimaneva da scoprire era con quale squadra sarebbe cominciata la sua avventura. La prima scelta fu più scontata del sorgere del sole, e i Cleveland Cavaliers chiamarono “the Chosen One”, “the Kid from Akron”, LeBron James. Dopo di loro l’establishment dei Detroit Pistons decise di suicidar… ehm… di puntare su un misterioso centro serbo che rispondeva al nome di Darko Milicic. Quindi fu il turno di Denver, che andò all-in su un ragazzotto con le treccine che aveva appena vinto il titolo NCAA con Syracuse, tal Carmelo Anthony. Alla quarta chiamata c’erano i Toronto Raptors che, con una rosa di nomi ancora più che interessante in mano, si decisero per un lungagnone che aveva fatto le fortune di Georgia Tech: Chris Bosh. La quinta scelta era dei Miami Heat. La squadra era appena passata nelle mani di coach Stan Van Gundy, ma il suo predecessore, niente meno che il leggendario Pat Riley, era rimasto come presidente (e Sergente di ferro in pectore). La prima decisione presa di concerto dai due fu quella di scegliere al Draft quel ragazzetto chicagoino tutto nervi e velocità, portarlo nella calda Florida, e fare di lui la pietra angolare per la costruzione di una contender. Fu così che iniziò la storia d’amore tra i Miami Heat e Dwyane Wade.
Gli Heat all’epoca erano una buona squadra ma non esattamente ciò che si sarebbe detta una pretendente al titolo: l’era d’oro di Alonzo Mourning e Tim Hardaway era finita, lasciando il posto a una selezione mista di giovani in rampa di lancio e vecchie glorie. C’era molta attesa per vedere all’opera Lamar Odom, appena prelevato dai Los Angeles Clippers, e per l’esplosione di Caron Butler. Inoltre gli Heat avevano firmato un ragazzone del posto a cui piaceva vestire il #40, e che si era allontanato da South Beach solo per giocare un anno nel campionato francese. Il suo nome? Udonis Haslem. D’altra parte lo zoccolo duro di Miami era composto dagli esperti Eddie Jones e Brian Grant, entrambi alla nona stagione tra i pro. I floridiani si presentarono scalpitanti ai nastri di partenza, pronti a stupire tutti. Non iniziò certo nel migliore del modi: nelle prime 20 partite gli Heat misero insieme un mesto 5-15 facendo presagire foschi scenari e un’altra scelta alta al Draft dell’anno successivo. Ma Dwyane Wade era tipo che aveva superato difficoltà ben maggiori in vita sua. Migliorò il suo gioco, portandolo a livelli mai sfiorati prima, raggranellando 16.2 pts, 4 rbd e 4.5 ass a partita con il 46% dal campo. Miami si risollevò, collezionando 37 vittorie nelle successive 62 uscite: 42-40 recitava il record a fine anno, il che significava seed #4 nella Eastern Conference e fattore campo nella prima sfida della postseason, quella contro i New Orleans Hornets. La stagione di Wade era stata straordinaria, ma per sua sfortuna, LeBron James e Carmelo Anthony avevano fatto cose mirabolanti, e lo lasciarono ad accontentarsi del terzo posto nelle votazioni per il Rookie of the Year. Fu per questo che forse Dwyane si sentì in obbligo di elevare ancor più il suo gioco: insaccò il tiro della vittoria a fil di sirena in gara-1 contro gli Hornets, l’inizio di una serie massacrante che si sarebbe conclusa a favore dei floridiani soltanto a gara-7. Miami avanzò e si trovò davanti gli Indiana Pacers, reduci da 61 vittorie in regular season. Nessuno poteva aspettarsi lo spettacolo assoluto che ne venne fuori. Wade si fece guida di una squadra che non diede mai tregua ai più quotati avversari, lottando sempre su ogni pallone, e arrendendosi solo a gara-6. La prima stagione di Dwyane Wade era finita, ma la strada per la grandezza era ormai tracciata.
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