Dove eravamo rimasti precisamente? Se volete tornare indietro, e rileggere l’inizio di questa storia, potete farlo da qui. Se invece volete continuare vi basta scorrere un po’ più in basso. Enjoy!
Nell’estate 2004 Pat Riley realizzò il suo capolavoro. Le criticità interne al roster dei Los Angeles Lakers, infatti, erano da anni il segreto peggio nascosto della lega, ma finché il giocattolo aveva funzionato nessuno era sembrato preoccuparsene. La sconfitta contro i Pistons nelle Finals del 2004 ruppe i delicati equilibri, li fece esplodere. C’erano troppi galli nel pollaio e uno dei due dovette cedere. E fu Shaquille O’Neal a farlo. Le offerte piovvero su Mitch Kupchak che ebbe solo l’imbarazzo della scelta. Il pacchetto offerto da Miami comprendeva Odom, Grant, Caron Butler e una futura scelta al Draft, e alla fine fu quello che bastò ai Lakers: Shaq approdò a South Beach spruzzando i fan in delirio degli Heat con un enorme fucile ad acqua. Era ciò che serviva a Miami. Era ciò che serviva a Dwyane Wade. La stagione 2004/05 fu un po’ la prova generale, con Miami eliminata solo in Finale di Conference dai campioni uscenti dei Pistons: un Wade eroico, in preda alla sinusite, influenzato e con un infortunio al ginocchio segnò 42 pts in gara-2 e 36 in gara-3, ma dovette infine arrendersi, con tutta la squadra. Gli Heat però erano ormai una realtà. E Wade era in costante ascesa.
Nella successiva stagione 2005/06 Pat Riley decise di tornare sul pino, allontanando Van Gundy dopo 21 partite (sul record di 11-10). Altre pedine fondamentali erano arrivate a rafforzare il roster, gente con esperienza e fame di vittoria: Gary Payton, Antoine Walker, James Posey, Jason “White Chocolate” Williams. Alonzo Mourning era tornato già l’anno prima. Il livello di gioco di Wade salì ancora: 27.2 pts, 6.7 ass, 5.7 rbd, 1.9 stl a partita, ma soprattutto uno scatto bruciante, che gli guadagnò il soprannome di Flash. Gli Heat avanzarono tra le difficoltà della stagione regolare come una macchina ben oliata, ammassando 52 vittorie. E con l’inizio della postseason ricominciò anche l’epopea di Wade. Dwyane era arrivato acciaccato già alla sfida al primo turno contro i Chicago Bulls, e stava giocando sul dolore. In gara-5, con la partita pericolosamente in bilico, fu costretto a uscire per una forte contusione all’anca, e sembrava probabile che non sarebbe rientrato in quel match. Ma gli Heat erano sotto. Così Wade strinse i denti e rientrò sul parquet. La sofferenza trasudava dai tratti del suo volto, si poteva leggere nei suoi occhi, ma non ci fu nemmeno un gemito di dolore. Segnò 15 pts (dei suoi 28 complessivi) in quel secondo tempo, resuscitando la squadra, prendendola per mano fino ad afferrare il 3-2 nella serie. Ed era solo l’inizio. Miami ingranò le marce alte e superò di slancio il secondo turno, fino a ritrovarsi alle Finali di Conference di nuovo contro i Pistons. Stavolta Dwyane non voleva saperne di arrendersi. Inventò giocate maestose, dominando partite e serie. Fino a gara-6 quando scese in campo con evidenti sintomi di influenza. Ma era un giocatore così fondamentale che Riley non poteva proprio farne a meno. Infilò una doppia doppia da 14 pts e 10 ass, ma soprattutto mise la partita in ghiaccio con una striscia personale di 8 punti consecutivi nell’ultimo quarto. Qualcuno ha sussurrato Flu Game, vi ho sentiti. Se non l’avete fatto voi, sono stato io.
L’atto conclusivo era arrivato, i Miami Heat erano alle NBA Finals. Di fronte a loro c’erano i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki. Gli Heat erano carichi, pronti, cattivi… e steccarono. Gli uomini di Pat Riley persero male gara-1 e persero anche peggio gara-2. Qualcuno tra i tifosi si sconfortò, cominciò a pensare che la serie fosse già finita, che i Mavs fossero troppo forti. Quel qualcuno però non era decisamente Dwyane Wade. La squadra tornò a Miami concentrata e cattiva. Poco prima di gara-3, con tutti i giocatori ancora negli spogliatoi, Riley entrò come un turbine agitando un foglio. Era una pagina del the Dallas Morning News che riportava il piano dei festeggiamenti stilato dalla città di Dallas per la conquista del titolo. C’erano anche le dichiarazioni di Mark Cuban, proprietario dei Mavs, che pianificava di alzare il Larry O’Brian Trophy con addosso solo un costume da bagno. Se fosse servita un’ultima spinta, fu questa. Wade giocò una gara-3 epocale, segnando 42 pts (e 13 rbd), spostando gli equilibri, vincendola praticamente in solitaria, con 15 pts segnati nel solo quarto quarto, mentre gli Heat cancellavano, in 6 minuti e poco più, uno svantaggio di 13 punti con un parziale di 22-7. E Wade replicò la prestazione da gigante in gara-4 quando ne mise 36, pareggiando la serie. In gara-5 Dwyane finì invece per ammazzarla. Mise 43 pts, segnando come un killer metodico, senza distrazioni, senza pietà, con una furia agonistica impressionante. Gara-6 sarebbe stata la prova definitiva, l’altare di consacrazione. Wade prese possesso della partita con irrisoria facilità, segnando a ripetizione. Alla fine furono altri 36 pts, vittoria Heat, 4-2 e titolo NBA. Ovviamente Dwyane si portò a casa il premio come MVP delle Finals. Aveva segnato 34.7 pts a partita, aveva dominato in lungo e in largo. John Hollinger, di ESPN disse che si trattava della più grande prestazione individuale in una Finale NBA dai tempi della fusione con la ABA. Dwyane era campione. Ce l’aveva fatta. Il lieto fine era giunto.
Ma ogni lieto fine ha la sua metà oscura. Gli Heat erano troppo pieni, troppo felici, troppo festanti, e l’inizio della stagione li colse impreparati. Ci furono tanti infortuni, persino Pat Riley dovette operarsi due volte. Shaq saltò qualche partita di troppo, e anche Dwyane non era sanissimo. Miami iniziò la stagione con un record di 20-25. Doveva arrivare una scossa, e il ritorno di O’Neil a pieno regime e di Riley in panchina sembrò incanalare la stagione sui binari giusti. Ma poi arrivò il 1 febbraio 2007. Gli Heat giocavano contro gli Houston Rockets. Shane Battier prese palla, ed eseguì un giro dorsale per scaricare all’angolo. Wade allungò il braccio per intercettarlo, ma la mano gli rimase bloccata contro il gomito dell’avversario e il suo braccio sinistro si iperestese. Dwyane si lussò la spalla e fu costretto ad uscire in lacrime. Davanti a lui c’era una scelta impossibile: operarsi e saltare la stagione, o fare riabilitazione e tornare in tempo per i Playoffs. Dwyane sapeva che gli Heat avevano bisogno di lui per confermarsi, sapeva di essere il fulcro di quella squadra. L’amore per Miami vinse sulla testa. Decise di fare riabilitazione e saltò solo 23 partite. Tornò in campo siglando 12 pts e 8 ass. Sembrava una resurrezione. Chiuse la stagione a 27.4 pts, 7.5 ass, 4.7 rbd e 2.1 stl di media. Ma nemmeno lui poteva salvare Miami dal naufragio. Giunti ai Playoffs con un record raffazzonato, gli Heat vennero spazzati via da Chicago con un secco 4-0 al primo turno. La peggior difesa del titolo di sempre. Solo Wade e i suoi 23 pts a partita circa cercarono di dare battaglia.
Con l’estate giunse però l’occasione di operarsi e di mettere fine ai problemi fisici. Wade andò quindi sotto i ferri, sia per la spalla che per il ginocchio sinistro. Ma la stagione successiva fu un calvario. Riley epurò praticamente tutti i reduci della squadra del titolo, persino Shaq venne spedito ai Suns, Wade fu costretto a guidare da condottiero ferito una squadra che perdeva pezzi e non riusciva più a vincere. E il ginocchio non gli dava tregua. 21 partite prima della fine della stagione, con gli Heat attestati sul peggior record della lega, di comune accordo con la squadra, Dwyane si sottopose all’innovativo trattamento OssaTron, per provare a risolvere i suoi problemi al ginocchio. Fu la decisione giusta. Nell’estate del 2008 Wade riuscì addirittura a tornare in tempo per vincere l’oro olimpico a Pechino con la nazionale USA, e ricominciò la stagione con gli Heat in forma smagliante. Mise a segno 40 pts, 10 ass e 5 blk in una partita, come solo Alvan Adams nella storia era riuscito a fare. Ma fu dopo l’All Star Game 2009 che tutte le sue potenzialità si scatenarono. Segnò 50 pts contro i Magic in un effort perdente, 31 pts e 16 ass per vincere contro i Pistons, 24 pts (su 46 totali) nell’ultimo quarto contro i New York Knicks per recuperare e vincere una partita già data per persa. Altri 41 contro i Cavaliers di LeBron James, nonostante la sconfitta, 35 con 16 ass contro i Suns di Nash, Stoudemire e O’Neal. Segnò anche la tripla della vittoria (3 dei suoi 48 pts) in un tiratissimo match finito all’overtime contro i Chicago Bulls. Contro gli Utah Jazz segnò 50 pts divenendo scoring leader degli Heat, sorpassando anche una leggenda come Alonzo Mourning. Fece registrare anche 55 pts contro New York, e Riley lo sostituì prima che riuscisse a superare il franchise record di Glen Rice (attestato a 56). In quella stagione Wade mise insieme più di 2000 pts, 500 ass, 100 stl e 100 blk. Era il primo giocatore nella storia a fare una cosa simile. Il titolo di miglior marcatore della lega fu suo di diritto (con 30.2 pts a partita, fantascienza), ma siccome il mondo non è governato dalla giustizia, quello di MVP finì tra le mani di LeBron James, che comunque aveva messo su i suoi tipici numeri da marziano trapiantato.
La postseason però non sorrise agli Heat, e Wade dovette rimettersi a macinare gioco l’anno successivo. Il 1 novembre 2009 passò il traguardo dei 10.000 pts in carriera e il 12, per festeggiare, posterizzò Anderson Varejao con quella che, parola di LeBron, fu una schiacciata “great, probably top 10 all-time”. Non si fece mancare nemmeno la tripla risolutiva contro i Detroit Pistons, o i 44 pts segnati contro i Boston Celtics. E non gli mancò nemmeno il titolo di MVP dell’All Star Game, dopo una partita da 28 pts, 11 ass, 6 rbd e 5 stl. Poco dopo l’All Star Break, un infortunio lo costrinse a uscire dopo 8 minuti nei quali aveva segnato 8 pts. Non rientrò in campo, interrompendo la sua striscia di partite in doppia cifra di punti a 148. Fantascientifico. Si guadagnò il titolo di Player of the Month per marzo segnando 26.9 pts, 7.5 ass e 2.3 stl a partita, con sei doppie doppie e una prestazione da 14 ass contro i Los Angeles Lakers. Quell’anno anche ai Playoffs Wade volle fare qualcosa di impossibile. Gli Heat affrontavano i Boston Celtics di Paul Pierce, Kevin Garnett e Ray Allen, e l’esito negativo della sfida per i floridiani era ormai segnato. Ma Dwyane non poteva darla vinta così, rinunciare a brillare anche per un solo istante sarebbe stato contrario al suo modo di vivere. Così in gara-4 fece registrare il record di franchigia per punti segnati in una gara di Playoffs, con l’astronomica cifra di 46, 19 dei quali vennero nell’ultimo quarto di gioco, a fronte dei 15 dei Celtics. Segnare più di un’intera squadra? Fatto! La prestazione mostruosa di Wade non evitò la sconfitta degli Heat in gara-5, ma rimase per sempre stampata nella storia.
Così iniziò l’estate 2010, e il contratto di Dwyane Wade arrivò a scadenza. I tifosi di Miami erano innamorati di lui alla follia, non avrebbero potuto sopportare un mancato rinnovo. E così, per dimostrare tutto il loro affetto, la loro devozione fecero il gesto più enorme che dei tifosi possano fare nei confronti del loro beniamino. In giugno venne votato un provvedimento per ribattezzare, per una settimana, la contea di Miami-Dade con il nome di Miami-Wade. Ci fu l’unanimità.
Cosa successe dopo? Semplicemente, Riley riuscì ad affrescare un dipinto ancora più bello di quello fatto con l’affare di Shaq: il 7 luglio, nel tripudio dei tifosi, Dwyane Wade annunciò il suo rinnovo con gli Heat, e poche ore dopo venne comunicato anche l’arrivo di Chris Bosh. Il giorno successivo “the Decision”. 8 secondi. 14 parole. Quelle che servirono a LeBron James per annunciare il suo arrivo a South Beach. Era qualcosa di incommensurabile. Era la nascita dei Big Three.
Miami impazzì. Si parlava già di dinastie, di record di vittorie da abbattere, di quanti anelli si sarebbero contati alla fine di quel periodo. La realtà, come accade di solito, fu un po’ più dura. A Wade, James e Bosh servì del tempo per riuscire a trovare la giusta chimica, anche se la fraterna amicizia tra Dwyane e LeBron facilitò un po’ le cose.
Al netto degli alley-oop spettacolari, nella loro prima stagione insieme i Big Three chiusero con 58 vittorie, abbastanza per afferrare la seed #2 ai Playoffs, dietro ai Chicago Bulls dell’MVP D-Rose. Ma la postseason, si sa, ha sempre un sapore diverso. Non ci fu squadra che riuscisse a resistere agli Heat nella Eastern Conference. Philadelphia, Boston e Chicago caddero sul cammino di Dwyane, LeBron e Chris in direzione delle Finals. E ad attendere Miami c’erano, di nuovo, i Dallas Mavericks. Dirk Nowitzki era riuscito a riportare i texani all’appuntamento conclusivo, contro ogni previsione o aspettativa, abbattendo anche i Lakers di Kobe Bryant, bicampioni uscenti. Il pronostico dava Miami vincente per KO tecnico. Invece successe quello che non ti aspetti. Dirk inventò la serie della vita. Sottomise i Big Three. Vinse le Finals. E lo fece praticamente da solo. Il suo tiro in fadeaway su un Bosh che non sapeva più che pesci prendere divenne il poster di quel trionfo epocale. Miami era crollata sotto il peso delle aspettative. E nonostante tutto, Dwyane Wade era rimasto saldo al timone mentre la nave affondava, continuando a fare del suo meglio, continuando a cercare di fermare l’ineluttabile. Tenne una media di 26.5 pts, 7 rbd e 5.1 ass a partita in quella serie, come un eroe romantico incapace di rimettere la spada nel fodero, anche di fronte a numeri soverchianti.
Nella stagione 2011/12 le cose dovevano andare diversamente, e Miami lo dimostrò subito. La partenza fu bruciante, la regular season un trionfo. Wade giocò di nuovo su livelli incredibili. Lo fece persino all’All Star Game, dove con una prestazione da 24 pts, 10 rbd e 10 ass divenne soltanto il terzo giocatore a far registrare una tripla doppia nella partita delle stelle, in compagnia di due un po’ così: Michael Jordan e LeBron James. E anche in regular Wade era tornato ad essere decisivo. In una partita difficilissima contro gli Indiana Pacers in marzo segnò un incredibile jumper dalla media allo scadere che valse la vittoria per 93-91 all’overtime. La squadra era semplicemente irrefrenabile. Ai Playoffs ne fecero le spese i New York Knicks (sconfitti in cinque gare) e gli Indiana Pacers (eliminati in sei) con Wade che salì progressivamente di colpi fino a sfoderare una prestazione da 41 pts e 10 rbd in gara-6 del secondo turno. In Finale di Conference però c’erano dei mai domi Boston Celtics. Servirono sette partite per trionfare su Paul Pierce e compagni. Erano di nuovo NBA Finals, era una nuova possibilità. Di fronte c’erano gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant e Russell Westbrook, di Serge Ibaka e James Harden. Gara-1 fu a loro favore, nonostante il fattore campo. Sembrava la riedizione del brutto sogno dell’anno precedente. Non lo fu. Dwyane e LeBron salirono in cattedra, dominarono la serie e alla fine la portarono a casa in cinque gare. I Miami Heat vinsero di nuovo il titolo NBA. I Big Three avevano fatto quello che erano venuti a fare. Vincere.
La missione adesso si chiamava repeat, e per portarla a termine era necessario che tutti fossero al loro massimo. Per questo Dwyane Wade si sottopose in estate a un piccolo intervento per recuperare dai problemi al ginocchio sinistro, ormai cronici, che lo avevano sempre limitato (quindi immaginate cosa sarebbe stato senza limiti…) Per questo saltò le Olimpiadi del 2012, ma tornò in tempo per la preseason degli Heat. I problemi fisici però lo tormentarono durante tutto il corso della stagione, limitando il suo apporto alla causa di Miami. Ma essere in squadra con LeBron James serviva proprio a questo. Il Prescelto tolse alcune responsabilità dalle spalle di Wade rendendo meno drammatico il fatto che il nativo di Chicago segnasse un po’ meno durante quella stagione. Gli Heat fecero registrare anche una striscia vincente di 27 vittorie consecutive, all’epoca la seconda più lunga della storia NBA. Nei Playoffs addirittura Dwyane arrivò a far segnare il suo career-low in termini di punti messi a referto: 15.9 a partita (capiamoci, un bel viaggiare per chiunque, ma quando abitui la gente ai quarantelli…). La cifra però era destinata a salire nel momento chiave. E il momento chiave erano, ovviamente, le NBA Finals. Wade tornò su standard realizzativi importanti all’alba della serie contro i San Antonio Spurs, e ricominciò a martellare a partire da gara-4, con gli Heat sotto 2-1 nella serie. 32 pts e 6 palle rubate in quella partita, soprattutto un incredibile 56% al tiro, ciò che bastò a propiziare la vittoria e il pareggio della serie. In gara-5 25 pts e 10 ass del #3 non bastarono a garantire la vittoria degli Heat, e gara-6 diventava così uno spartiacque, un appuntamento da non fallire. Era win-or-go-home. Fu una partita difficile. Gli Heat andarono sotto anche di dieci, rischiarono a più riprese di uscire dal match, ma riuscirono a riprendere la strada giusta più volte tanto che, all’ultimo ansito dell’ultimo quarto, dopo due liberi di Leonard, erano sotto solo di tre, 95-92. Quello che successe dopo quei liberi, e dopo che il pallone fu consegnato a Mario Chalmers non è qualcosa che si possa descrivere con le parole. Perché se vi dicessi della palla che arriva tra le mani di James, della sua tripla senza senso o motivo infranta sul ferro (sì, anche io ho gridato “choker” in quell’istante), di Bosh che allunga le sue braccia assurdamente, ridicolmente lunghe per afferrare quel rimbalzo e per scaricare quel passaggio nelle sapienti mani di quel suo compagno, proprio quello, quello col #34 sulla maglia, non riuscirei mai a rendere la tragedia di quegli attimi. E quindi vi lascio alle immagini, perché solo quelle sono in grado di dire qualcosa. Di dire tutto.
Miami vinse quell’overtime e vinse anche gara-7. Il secondo titolo consecutivo venne appuntato in bacheca, il terzo anello di Dwyane Wade venne aggiunto alla sua collezione. La missione divenne quella di emulare la Chicago di Jordan e Pippen, o i Lakers di Shaq e Kobe. La missione divenne il three-peat.
Ma di nuovo gli Heat erano troppo sazi, troppo felici, troppo festanti. Dwyane combatté contro gli infortuni per tutta la stagione, giocando solo 54 gare, segnò poco, per i suoi standard (19 pts a partita) ma stabilì il suo career high in percentuale di tiri dal campo con un irrealistico 54%. Nei Playoffs il suo minutaggio aumentò progressivamente, e le sue prestazioni furono fondamentali, sia contro i Brooklyn Nets che contro gli Indiana Pacers, fino all’approdo alle quarte NBA Finals consecutive. Di fronte c’erano di nuovo i San Antonio Spurs. Non ci fu mai realmente partita. Nemmeno quando gli Heat vinsero una gara. La serie era finita praticamente già prima di cominciare. A poco servì il 52% dal campo (con 19.1 pts a partita) fatto segnare da Dwyane Wade contro il 4-1 che sancì la sconfitta di Miami. L’incanto era svanito, e l’era dei Big Three stava per finire.
Wade, Bosh e James uscirono dai loro contratti, e l’11 luglio LeBron annunciò la sua Decision 2.0, più nota come “I’m coming home”. Bosh e Wade invece rimasero, il primo firmando un contrattone lungo e remunerativo, il secondo con un contratto da un anno. L’addio del Prescelto fu devastante. Miami ebbe difficoltà a riorganizzarsi fin dall’inizio della stagione, e l’assenza di Bosh, fermato dalle prime avvisaglie del suo tristemente noto problema di coaguli di sangue, fu impossibile da colmare. Il record alla fine della regular season recitava 37-45. Dwyane fu costretto a saltare la postseason per la seconda volta da quando era entrato nella lega. Uscì dal suo contratto in estate, scatenando una serie di illazioni sul fatto che sarebbe andato via. Sponda Lakers, diceva qualcuno, a Cleveland da LeBron, dicevano altri. Ma il 10 luglio un annuncio frustrò tutte queste teorie: Wade e Miami si accordarono su un annuale da 20 milioni di dollari. Another year together. Doveva essere ed è stata la stagione della rinascita. Con un Hassan Whiteside in più nell’arsenale e un Chris Bosh di nuovo in salute, i Miami Heat tornarono a lottare per le posizioni che competevano loro, quelle di testa della Eastern Conference. Solo una ricaduta delle condizioni di Bosh, di nuovo durante la pausa dell’All Star Game, riuscì a frenare la corsa degli Heat, pur senza arrestarla del tutto. Wade aveva giocato una stagione più che dignitosa, da 19 pts, 4.1 rbd e 4.6 ass, e sette triple mandate a bersaglio nel corso delle 82 partite. E vi chiederete «Perché tiri fuori ‘sto dato delle triple segnate solo adesso?». La postseason appena passata è la vostra risposta. Costretto a farsi unica guida, senza l’apporto di Bosh, Dwyane cambiò il suo stile di gioco. Durante il primo turno, nei momenti di difficoltà contro i Charlotte Hornets, Wade cominciò a sparare dall’arco. E a farlo con successo. Sette triple insaccate su sette tentate nelle prime nove partite di postseason, e il primo errore dalla lunga distanza arrivato solo a gara-3 contro i Raptors. Nonostante tutto però, gli Heat non riuscirono a gettare il cuore oltre l’ostacolo, e a gara-7 delle Semifinali di Conference si arresero ai Toronto Raptors di Lowry e DeRozan. Ma sembrava gli elementi per ricominciare una storia di successo ci fossero tutti.
È a questo punto che si pone il dramma. Durante la scorsa estate le voci che volevano Dwyane Wade lontano da Miami, dalla sua seconda casa, dalla Wade-County tornarono a infittirsi. Volevo credere che, come l’anno precedente fossero solo chiacchiere: Wade ai Lakers, Wade a Cleveland, Wade ai Bulls. Roba per riempire le prime pagine dei quotidiani sportivi in mancanza d’altro. Invece i Miami Heat si sono presentati da Wade con un’offerta iniziale di rinnovo del contratto abbastanza ridicola per il proprio Capitano: una stagione a 10 milioni di dollari, nell’anno in cui il Salary Cap schizzava così alto da permettere ingaggi fuori dal mondo anche a dei semplici role players (avete apprezzato la perifrasi per Timofey Mozgov?).
La notte in cui Dwyane Wade ha firmato il suo personale ritorno a casa ero sveglio. È stata una cattivissima notte. E quella domanda che vi ho posto all’inizio di questa storia, quel «Perché l’ha fatto?», ve lo confesso, ancora mi perseguita. L’ha fatto per i 25 milioni a stagione dei Bulls? Io non ci credo, non dopo tutto quello che abbiamo raccontato, la storia di una fede e di un amore cieco. È stata la nostalgia di casa? Potrebbe essere più vero, anche se la storia di Dwyane parla più di un legame viscerale con Miami che con Chicago. Per i suoi figli? Per sua moglie? Per la sua famiglia? Per ripicca contro Pat Riley? Perché Goran Dragic gli era antipatico? Perché Whiteside non è Shaq? Perché Winslow non sarà mai LeBron? Non riesco a spiegarmelo.
So solo che in una lega di maglie bruciate o fucilate, a Miami non c’è stata una sola persona che sia stata in grado di mettere da parte la sua maglia #3. So solo che quando Dwyane è tornato alla Triple A con indosso un’altra jersey c’è stato un video celebrativo e grida di esultanza all’annuncio del suo nome, non fischi. Perché Dwyane Wade è stato, è e rimarrà il Capitano dei Miami Heat. E mi piace immaginare che nel giorno del suo addio, mentre lasciava quello spogliatoio noto un’ultima volta, mentre si allontanava da quel parquet dove aveva stillato sudore e sangue per 13 lunghe stagioni, Dwyane Wade sia stato salutato da compagni e allenatori, establishment e magazzinieri come si conviene a un Capitano: salendo su un banco e declamando convinti quell’unico verso di Walt Whitman, come fecero alcuni ragazzi osservando il loro professore che usciva dall’aula in una pellicola di qualche anno fa: “Oh Capitano, mio Capitano!”.