Nella cultura occidentale si tende a praticare uno sport, non necessariamente a livello agonistico, per tutta la durata dell’infanzia e dell’adolescenza. Personalmente trovo questa tendenza particolarmente illuminata, dal momento che un bambino deve anzitutto scaricare tutta l’energia vitale che cova a scuola e a casa, se poi lo fa divertendosi con i suoi coetanei tanto meglio. Marcin Gortat aveva iniziato a fare sport proprio per questo motivo. Lo divertiva e lo riconsegnava alla signora Alicja stremato e finalmente quieto. Però quello che è iniziato come un gioco riesce molto bene al ragazzone polacco, tant’è che il suo allenatore è convinto che possa sfondare. Per questo, quando Marcin si presenta al campo per comunicare l’abbandono della squadra, l’allenatore rimane basito. “Ma sei serio? Non puoi buttare via la tua carriera da portiere!”.
Da portiere?? Si perché il primo amore mai nascosto di Marcin Gortat è il calcio. Lui stesso racconta che effettivamente in porta se la cavava piuttosto bene e forse un giorno con questo gioco ci avrebbe anche potuto mangiare. Eppure nel cuore di Marcin c’era spazio anche per altro, più precisamente per un pennellone serbo che a cavallo degli anni ’90 e 2000 ha fatto impazzire tutta l’Europa cestistica: Dejan Bodiroga. Un pomeriggio dopo scuola Marcin boicotta l’allenamento di calcio per emulare le poetiche movenze del fenomeno serbo e in quel momento capisce che per lui il basket non è soltanto un’infatuazione giovanile. È amore, di quelli che durano per sempre.
Quel giorno al suo allenatore sta andando a dire che nonostante abbia già raggiunto la maggiore età a calcio non vuole più giocarci. Lo stridio delle scarpe sul parquet, il suono della retina, la sensazione di poter accarezzare la palla senza i guantoni. Vuole diventare un cestista, tutto il resto è di contorno.
Ecco però iniziare da zero uno sport a 18 anni, con le uniche nozioni apprese dalle saltuarie partite di basket europeo trasmesse in Polonia, non è facilissimo. Tuttavia quando l’allenatore lo vede entrare al palazzetto è felicissimo. A Łódź tutti sanno che Marcin è il portiere, e in porta ha sempre dimostrato un tempismo ottimo nelle uscite e una sensibilità nei rilanci particolarmente raffinata. Quando l’allenatore pensa a Gortat sul parquet vede un ragazzone ben oltre i due metri, con un movimento di piedi su cui c’è del lavoro da fare ma si parte da un’ottima base, e con una sensibilità nelle mani che lo rendono praticamente immarcabile dai pari età. Passa un anno ed è stabilmente in prima squadra con il ŁKS Łódź, oltre ad essere già un atleta di rilievo nel sistema nazionale giovanile. In Polonia non c’è una singola persona che non si sia accorta che questo è un atleta che da quelle parti non si rivedrà tanto presto.
Anche l’allenatore del ŁKS Łódź lo sa e quando nasce un fiore in mezzo al cemento è necessario che cresca altrove per coglierne l’effettiva bellezza. Il suo agente strappa un contratto con l’attuale RheinStars Colonia, in Bundesliga. Il primo anno tedesco Gortat non gioca spessissimo, possiede buoni istinti ma la tecnica è ancora un po’ grezza. Però le persone intorno a lui sono convinte che con quel fisico (2,13mx109kg probabilmente al tempo pesava qualcosa meno) in America andrebbero pazzi per lui. In realtà Marcin è un ragazzo polacco di ventun anni che dell’NBA non sa granché. Ha visto qualche schiacciata di Vince Carter e deve per forza essergli caduto l’occhio sulla seconda parte di carriera di MJ, ma lui del draft non ha mai sentito parlare.
Il suo agente gli spiega un po’ come funziona e alla fine lo convince a dichiararsi eleggibile. Nel 2005 la prima scelta è un gigante australiano di nome Andrew Bogut, e la cinquantasettesima è Marcin Gortat. Lo scelgono i Suns che la notte stessa ne scambiano i diritti con i Magic e quindi dopo neanche tre anni da quando ha preso una palla da basket in mano per la prima volta, Marcin è pronto per la Florida. O almeno così lui ritiene. Ad allenare i Magic c’è Brian Hill, attuale broadcaster per la franchigia di Orlando. Coach Hill è incuriosito da questo gigante polacco, ma dopo un paio di settimane capisce che ancora siamo lontani dagli standard NBA. Gortat non la prende benissimo.
Comincia a covare un odio insensato nei confronti di Hill e quando ricomincia il campionato tedesco non ce n’è per nessuno. Gioca tarantolato, il Colonia vince il campionato e lui in estate si ripresenta da coach Hill convinto che stavolta niente possa impedirgli di compiere il grande salto. Picche, per la seconda volta. A distanza di anni il rapporto tra Hill e Gortat sarà molto pacifico, ma al tempo il polacco non si capacitava del perché questo signore volesse così tanto il suo male. In verità probabilmente aveva ragione coach Hill, il ragazzo al tempo non era pronto, ma un conto è parlare con il senno di poi, un altro è affrontare i dolori del giovane Marcin. Nella testa del polacco i demoni prendono lentamente il possesso.
Lui ricorda che in quel momento era convinto di lasciar perdere con lo stupido sogno di andare in NBA. Per certi versi voleva lasciar perdere ogni cosa ma non fu capace.
Non avevo mai fallito in niente durante la mia vita. Avevo paura di fallire, avevo paura di tornare in Polonia. L’unica cosa presente nella mia testa era: sono un lavoratore.
Dopo un breve periodo di sbandamento capisce che la sua etica lavorativa può fare la differenza. Gortat passa tantissimo tempo in palestra; ne sente quasi il richiamo mistico, come se andare in palestra fosse un dictat dall’alto. Oltre al lavoro solito aggiunge anche qualche sessione video: studia i movimenti di Garnett e Duncan in particolare, e prova a replicarli sul parquet. In Germania gioca un’altra stagione convincente e in estate Stan Van Gundy si siede sulla panchina degli Orlando Magic e non ha il minimo dubbio a riguardo: Gortat è nel roster. È il 2007. Due anni dopo andrà addirittura a giocarsi le NBA Finals, facendo da backup ad un signore che al tempo le aree le faceva saltare con la dinamite: Dwight Howard.
Il suo è un processo di miglioramento graduale, ma a Orlando i minuti da 5 sono fagocitati dall’ex Superman. Sul finire del 2010 viene scambiato, direzione Phoenix dove ad aspettarlo c’è un minutaggio complessivo più alto e Steve Nash, ovvero tutto ciò che un big man può desiderare nella vita. In Arizona si afferma come uno dei centri più completi della lega, ma il GM Ryan McDonough, ingolosito dalla possibilità di rivitalizzare una promessa mancata (e troppo spesso infortunata) come Emeka Okafor, nel 2013 lo spedisce a Washington.
Nella capitale il rapporto con la palla a spicchi non è dei migliori. I Wizards sono costantemente pronti a fare il salto di qualità, prima che ogni anno i risultati sul campo demoralizzino l’ambiente al punto da gettare via quanto di buono costruito. Nel biennio 2013/2015 i Wizards hanno giocato per due volte i playoff e tanto sembrava vicina quell’etichetta che negli Stati Uniti assomiglia più a una condanna che a una reale classificazione in base ai valori sul campo: contender. Tuttavia è bastato un anno di incomprensione tecniche e umane per depennare i capitolini dalle papabili concorrenti al trono dei Cavs. In un contesto del genere Gortat ha trovato una sua dimensione difensiva che lo porta ad essere un fattore quando la palla è in possesso degli avversari. Eppure anche quest’anno l’accesso alla postseason sembra proibitivo e Gortat ci ha tenuto a sottolineare quanto l’impegno profuso dai compagni non sia all’altezza degli standard richiesti.
D’altronde il polacco non ha nulla da perdere ormai. Ha raggiunto un livello che il 99,99999% dei ragazzini sedotti da una palla da basket non raggiungeranno mai, lo ha fatto con un impegno costante a sua detta rifuggendo ogni tipo di festa sulla spiaggia o yacht party tanto di moda nel jet set sportivo. Anche perché uno che non vede l’ora di fare a cazzotti sarebbe leggermente lontano dal suo habitat sulle coste di Malibu.
Qualche tempo fa è stato informato che l’unico giocatore con una pick così bassa ad essere rimasto più di dieci anni nella lega è stato (o meglio è, visto che l’argentino sembra non assecondare le leggi dello spazio-tempo) Manu Ginobili. Non siamo ai livelli vendicativi e motivazionali di Draymond Green ma insomma è comunque una bella rivincita. Per tutti quelli che in Polonia lo consideravano semplicemente il portiere, che lontano dai pali non ne vedevano un futuro luminoso, per tutti quelli che dopo aver visto a che punto fu scelto al draft lo consideravano al massimo comparsa in NBA. Invece lui rimane lì, un antidivo perfetto per un film di Tim Burton. Difficilmente Hollywood passerà dalle parti di Łódź, quindi apprezziamo la realtà delle cose, quella in cui Marcin Gortat è un pivot di livello assoluto, quella in cui nonostante il background cestistico appena abbozzato fa cose di questo tipo.