Qualche giorno fa trascorsi un’ora meravigliosa in compagnia di un’amica. Una ragazza fantastica, piuttosto affascinante, che sotto al cappotto ostentava fragile sicurezza. Più sensazionale di un passaggio over-the-shoulders di Ginobili, più estraniante di Westbrook. La sera, rimuginando sul cappuccino preso con lei, mi venne in mente una domanda assurda derivante da un paragone scomodo: l’inenarrabilità di una ragazza che ti colpisce e potrebbe colpirti cento volte come fosse la prima è poi così diversa dal vedere infinite volte The Block?
Dovendo raccontare la conversazione, potrei partire da cinquecento punti diversi, ma tutti mi porterebbero ultimamente allo stesso “Wow” semi-estatico. E così l’anno solare 2016 è stato one for the ages nella Lega più bella del mondo. Da dove volete partire? Dal ritiro di quale grande stella? Dall’abbattimento di quale grande record? Dall’apparizione di quale nuovo grande fenomeno?
Rimembri, o Bianka…?
Kobe Bryant è seduto sulla sua poltrona di pelle giallo-viola che impera nel Directors’ Box dello Center. In braccio a lui una bimba di otto anni, la terza figlia. Sulla scrivania è ancora lucido l’anello vinto recentemente da Ingram e soci: se si aguzzano i sensi, si potrebbe anche sentire quell’odore di champagne che da troppo tempo mancava a LA.
“Sai, nell’anno in cui sei nata tu giocai la mia ultima partita di pallacanestro. Ho ancora un vivido ricordo di quella serata. E’ stata la coronazione di un grande viaggio”.
“Che viaggio?”
“Beh sai, al viaggio della vita! Lo conosci papà – disse Kobe giocando coi ricciolini della figlia – a parte mamma e voi tre la mia vita è stata la palla a spicchi. Avrei tante di quelle storie da raccontarti che non basterebbe una vita”.
Bianka prestava poca attenzione. Sgattaiolò noncurante in giro per la sala, tappezzata di fotografie. Ne fissò una e chiese al babbo: “Chi è quello con te?”
“Un grande amico, una persona per la quale ho profonda stima – rispose Kobe abbozzando un sorriso -. Sai, lui e io ci siamo ritirati lo stesso anno. A me fecero un grande tour di addio, lui, campione silenzioso, se ne andò a modo suo, senza fiatare, senza lasciarci la possibilità di ringraziarlo come si deve. Siamo così diversi… Eppure così uguali! La stessa fame di vincere, lo stesso numero di titoli, lo stesso senso di appartenenza…”
“Sì beh papà ascolta quante cose sono successe in quel 2016?” domandò senza peli sulla lingua – quasi indispettita – Bianka. Incuriosita però dal fatto che tante cose belle potessero essere accadute nell’anno della sua nascita, un po’ come quando cerchiamo su Wikipedia quale importante personalità è nata il nostro stesso giorno, la bimba rimase in silenzio ad ascoltare la lunga risposta del padre.
“Ne sono successe tante di cose, è vero. I Golden State Warriors, ad esempio, hanno chiuso una stagione surreale con 73 vittorie e 9 sconfitte. Il mio grande amico, Steve Kerr, mi racconta ancora oggi di quanto i membri di quella storica squadra vadano fieri dell’impresa. Una squadra mitica che in estate aggiunse Kevin Durant ad un roster spaziale. Sai anche tu, poi, com’è andata a finire…”
“Già... – confermò lei, ormai persa nel racconto -, ma continua, pà. Voglio sapere tutto ciò che ricordi”.
“Legandomi al discorso Kevin Durant di prima: il 35 abbandonò Russell Westbrook ad Oklahoma City, che prima di Natale mise a referto una ventina di triple doppie, pazzesco. Ricordo che affrontammo i Thunder in una serie di Playoff di cui ho discusso recentemente con Ettore Messina, allora assistente di Mike Brown. Si vedeva che quel nucleo di giocatori sarebbe arrivato lontano. Nessuno dei tre giocatori principali di quel nucleo ha mai vinto l’anello, è vero, ma Harden è tuttora uno dei migliori giocatori della Lega. Pensa nel 2016, quando aveva ancora la freschezza di un ragazzino. Mi piace però ricordare quella stagione anche per lui”.
Kobe indica una foto grande sul muro nella quale lui e un ragazzone longilineo stanno guardando il monitor del replay sul tetto del palazzo. A giudicare dallo sfondo, pensò Kobe, dovevano essere a Boston.
“Kevin Garnett è un grandissimo. Una guardia di sette piedi che giocava sopra il ferro, con l’ossessione della vittoria. Attualmente è il proprietario di Twolves: si ritirò quell’estate, dopo 21 stagioni, ognuna giocata come fosse l’ultima. Il suo problema, come quello di John Wall, di Paul George, di Lowry e DeRozan a Toronto, fu per anni lo stesso: LeBron James. LeBron dominò per anni la Eastern Conference e lasciò a tutti gli altri – cavolo ho dimenticato gli Hawks di Millsap, Horford e Korver! – solo le briciole. Ma ti ho già parlato di LeBron, vero?”
“Sì papà, circa un centinaio di volte”.
“Ecco, ma lasciami aggiungere solo che il 2016 fu il suo anno. Riportò Cleveland e il suo amato stato dell’Ohio al titolo, che mancava da cinquant’anni. L’emozione che ha provato nel post-partita, al termine di quella leggendaria serie contro Golden State, dev’essere stata grandissima”. A Kobe gli occhi si fanno sognanti al ricordo di quelle Finals. “Stephen Curry era un mago. Ma un mago vero. Ricordo che distrusse ogni record sui tiri dalla lunga distanza. Draymond Green, per quanto alle volte eccentrico, era un grandissimo giocatore, sapeva fare tutto. Klay Thompson… Wow! Era in quell’anno che segnò 60 punti in tre quarti? O scrisse il record di punti in un singolo quarto? Non ricordo esattamente. Parlando di quelle Finals, però, il ricordo non può che andare a Kyrie Irving e al suo tiro che vinse Gara 7. Mi pare avesse addirittura osato lui stesso il paragone col Black Mamba…”
“Eccolo che se la tira… Guarda papà che mamma me lo ha detto!”
“Che cosa tesoro?”
“Che tu, nelle tue ultime partite in NBA, facevi schifo!”
“Ah sì, questo è far schifo?” Kobe tira fuori dalla tasca dei suoi Marcelo Burlon l’ultimo modello di iPhone K10, che gli ha già preparato il video della sua ultima partita contro i Jazz.
“I tempi stavano cambiando, è vero, ma – riattaccò Kobe -, gli youngsters non devono mai sottovalutare la vecchia guardia. Tantissime delle attuali stelle si affacciarono alla Lega in quegli anni: dai nostri Ingram e D’Angelo, a Embiid e Saric di Philadelphia, passando per Porzingis e Booker. La verità, scherzi a parte, sta nel mezzo. Porzingis ha imparato tanto da un campione affermato – leggendario olimpionico per Team USA – come Carmelo Anthony. Vedi, nel mondo NBA non accade nulla per caso. Come diceva il grande Kurt…”
“Papà ma è vero che quello brutto brutto col monociglio non ha mai avuto una squadra?”
“E’ più complesso di così, Bianka. Ricordo che specialmente nei suoi primi anni, la squadra che il front office dei Pelicans costruì attorno Anthony Davis era particolarmente scarsa. Ora le cose sono migliorate, ma neanche troppo. AD è un bravo ragazzo oltre che un grande giocatore, si è sempre comportato bene, negli interessi della squadra nonostante tutto. Non come Boogie Cousins. Cavolo che fenomeno anche DMC! Recentemente ho visto un suo filmato di quando ne segnò 55 ai Blazers in 55 modi diversi. Ha sempre avuto un modo di fare sopra le righe, era il suo modo di essere. Sarebbe stato bene in quei Blazers che io e Zio Shaq battemmo più volte nei primi anni 2000, quelli con Scottie e Rasheed, Damon e Zach”.
“Pà, ma com’è che continui a parlare dei Blazers e non nomini il mio cantante preferito?” Kobe scoppia in una risata grassa, che rende etereo l’elefante nella stanza dei ricordi.
“Dame D.O.L.L.A., in una vita precedente giocava solo a basket. E piuttosto bene, direi. Poi ha mollato e si è dato ad altro, che vuoi che ti dica… Ha fatto questa scelta di sua spontanea volontà. Il mondo NBA ha perso un grande interprete, ma il basket esisteva prima di Lillard ed esisterà anche dopo. Le sue lettere arroganti al The Playe…”
Interrompe la conversazione l’ingresso nella stanza di Earvin Johnson. Il grande Magic è passato a salutare l’amico Kobe e ha un dolcetto per Bianka. Chiede alla bimba di allontanarsi un secondo per parlare privatamente con Kobe: lei accetta e sgattaiola nella Sala Trofei. Kobe e Magic stanno programmando i funerali per un altro grande ex-Laker, tragicamente scomparso da pochissimo: Kareem Abdul-Jabbar. Quando Bianka torna Magic se n’è già andato, Kobe ha la testa tra le mani e gli occhi lucidi. Vede la piccola indecisa sul da farsi: non sa se avvicinarsi al padre triste o lasciarlo in pace. Così, Kobe la chiama a sé, asciugandosi le lacrime:
“Vieni qua, piccolina. Ti racconto l’ultima e poi andiamo a vedere la partita di tua sorella. Sai, ricordo il 2016 anche per diverse scomparse tragiche, da Muhammad Ali a Pat Summit. Morì quell’anno anche il grande Craig Sager, che al mondo ha insegnato parecchie cose, prima fra tutte la gioia di vivere. Una cosa ti dirò, me la ripeteva continuamente un vecchio amico. I Grandi non muoiono, si assentano”.