Una delle discussioni più frequenti, quando si parla di NBA, è quella riguardante la squadra rivelazione del Campionato. Quest’anno, però, il “premio” parrebbe già essere assegnato a nemmeno metà stagione: ad aggiudicarselo sono gli Houston Rockets.
La percezione di appassionati e addetti ai lavori sulla franchigia texana è completamente cambiata nel giro di sei mesi. L’anno scorso i Razzi erano riusciti ad acciuffare all’ultimo respiro un posto ai playoff dopo una stagione fatta di pochi alti e moltissimi bassi. L’avventura dei ragazzi di Bickerstaff è stata però poco più di una comparsata, con un 4-1 senza appello subito dalla corazzata Golden State. Il flash che meglio rappresenta la deludente stagione è il finale di Gara-3: James Harden infila un canestro in fadeaway che vale il sorpasso sui Warriors e la prima (e unica) vittoria della postseason, esulta andando verso la panchina, ma trova solo Motiejunas ad abbracciarlo. Gli altri compagni in panchina sono delle statue di sale. Immobili, con espressioni quasi dispiaciute. Perfetta fotografia di una squadra che per tutto l’arco dell’anno è stata tutto meno che unita e compatta intorno alla loro stella (non esente da colpe, anzi).
In estate però il GM Daryl Morey decide che è ora di dare una scossa e tentare di cambiare le sorti di un futuro che appare ben poco roseo. L’azzardo è di quelli grossi: viene annunciato Mike D’Antoni come nuovo head coach tra lo scetticismo generale. Il Baffo di Mullens è stato il condottiero dei magnifici Phoenix Suns di Nash e Stoudemire, ma le sue successive esperienze con Knicks e Lakers sono state un fiasco. Con l’arrivo del mercato si va in modalità rivoluzione. Via Dwight Howard, Josh Smith e Michael Beasley, più dannosi che utili nonostante l’indubbio talento. Via Terrence Jones, mai convincente fino in fondo e via Terry e Prigioni, probabilmente per ragioni anagrafiche. Gli acquisti sono tutte scommesse: Eric Gordon e Ryan Anderson dai Pelicans e Nene Hilario dai Wizards. L’addio di Howard era necessario e probabilmente si rivelerà un beneficio, ma i rinforzi non sembrano all’altezza: i bookmakers predicono un altro 8° posto, o giù di lì. E invece i biancorossi stupiscono tutti: al momento della stesura dell’articolo hanno un record di 31-11 che gli vale la 3° posizione a Ovest. Il loro spumeggiante gioco offensivo è difficilissimo da fermare, Harden ha avuto una crescita spaventosa e si respira grande fiducia nell’ambiente. Come è stato possibile ribaltare in tal modo la situazione? Scopriamolo.
Dopo il licenziamento di Kevin McHale i Rockets hanno trascorso un periodo di crisi a livello di identità di gioco. J.B. Bickerstaff, vice dell’ex-ala dei Celtics, era stato nominato allenatore capo ad interim per il resto dell’annata 2015-16. Il nativo di Denver, definito come un allenatore di stampo difensivo, aveva effettivamente contribuito ad un miglioramento del record, ma non era riuscito a migliorare né il flow offensivo né la grinta difensiva della propria squadra. Molto spesso gli attacchi di Houston si riducevano ad una sterile circolazione di palla perimetrale, seguita da un isolamento per Harden o al limite da una tripla in uscita dai blocchi. Con l’arrivo di D’Antoni le cose sono cambiate. L’ex-playmaker dell’Olimpia Milano ha rinvigorito l’asfittica fase offensiva. Al centro di tutto vi è sempre Harden, ma ora anche il resto della squadra partecipa attivamente. The Beard ha avuto un miglioramento spaventoso per quanto riguarda la lettura del gioco: se prima tendeva spesso a scaricare per necessità all’ultimo momento dopo venti secondi di “cornate” sulla difesa, oggi tende sempre a fare la scelta giusta, che sia un passaggio al lungo o uno step-back. E gli altri? Beverley, Ariza e Anderson si fanno trovare pronti sugli scarichi mantenendosi in movimento, mentre Capela (fuori fino a febbraio per infortunio, assenza che si farà sentire), diventato un rollante di ottima qualità, beneficia spesso dei precisi alley-oop alzatigli dal n°13. Un bel cambiamento.
La parole d’ordine è pick and roll. Lo schema portato in auge da Stockton e Malone negli anni Novanta ha acquisito un’importanza fondamentale nella pallacanestro moderna, ed è il fulcro del playbook dei Rockets. La combinazione base è Harden/Capela, con il Barba che sfrutta il suo incredibile ball handling per saltare il suo uomo e costringere uno degli altri quattro difensori a scalare in aiuto. La grande differenza con il passato è che James prende sempre quello che la difesa gli offre. Se ad aiutare è il lungo, serve Capela lasciato libero sotto canestro o eventualmente si gioca l’1 vs 1 contro un avversario più lento e pesante di lui. Viceversa, se a staccarsi è uno dei difensori perimetrali, effettua uno scarico ad uno dei compagni, liberi di prendersi una tripla con i piedi per terra e due metri di spazio. In questo frangente si segnala l’importanza di Anderson e Beverley. Il primo non è un giocatore così completo da valere i 20 milioni annui che la dirigenza versa sul suo conto, ma quello che sa fare, ovvero tirare, lo fa davvero bene (41.3 % da dietro l’arco fin qui), con una pulizia ed una costanza non comuni per un 2.08, anche nella NBA attuale dove spopolano i cosiddetti stretch-four. Il secondo è rimasto il solito “cagnaccio” in difesa ma è migliorato nell’altra metà campo, sia nei tiri da fuori che nella gestione della palla, ed è meno battezzabile rispetto alla scorsa stagione.
Classica soluzione: il Barba attacca il canestro, il lungo si stacca per portare l’aiuto lasciando libero Capela. Slam Dunk!
Situazione analoga alla precedente, soluzione diversa: la difesa collassa su Harden lasciando libero un tiratore. Il Barba lo serve, segnate tre!
Qui il 13 sembra quasi dire: va bene gli assist, ma le mie doti acrobatiche in penetrazione ci sono sempre!
L’altra opzione che Houston utilizza spesso è un pick and pop centrale, con Anderson a sostituire Capela come bloccante. In questo caso ovviamente la soluzione favorita diventa servire l’ala grande per un tiro smarcato, con Harden a tenere sempre in apprensione la difesa. E sono proprio le doti di realizzatore del Barba a rendere letale questo semplice schema: magari non avrà il QI di uno Stockton o di un Nash, ma è un finalizzatore estremamente più versatile e pericoloso di entrambi.
Porzingis è così preoccupato di Harden che si dimentica di Anderson: behind the back pass e facile tripla per l’ex Pelicans.
Qual è uno dei metodi più efficaci per vedere se un giocatore è una vera superstar? Verificare se il rendimento dei suoi compagni si alza. Parlando di Harden, nelle prime sette stagioni della sua carriera la risposta sarebbe stata picche. Da quest’anno le cose sono cambiate. Beverley ha acquisito fiducia sul versante offensivo, Ariza è tornato ad essere quello che tutti noi sapevamo fosse, ovvero uno splendido giocatore di squadra, che sa fare tutto ad un buon livello, Capela sta pian piano diventando un centro di ottima fattura. Il discorso si estende anche alla panchina: Eric Gordon sta mettendo in mostra tutto il suo talento, i giovani Harrell e Dekker sono ben integrati all’interno della squadra, Corey Brewer sta dimostrando che non è quel completo fiasco che tutti credevano, Nene ha accettato di partire dalla panchina ed è il leader emotivo della second-unit. Insomma, tutti i Rockets vogliono dimostrare il loro valore ad un livello di playoff. E se ci dovessero arrivare da testa di serie, potrebbero davvero scombussolare i pronostici.
I dubbi ci sono, è vero. Salvo miracoli, Houston non riuscirà a tenere questo ritmo altissimo per tutta la stagione, e un calo fisico sarebbe tutt’altro che inaspettato. Inoltre, imporre il gioco d’attacco d’antoniano in Regular Season è ben altra cosa rispetto a farlo in sede di playoff. E se la difesa interna è quanto meno dignitosa, quella perimetrale rimane problematica (anche se non disastrosa come molti si aspettavano). Affrontare il trio delle meraviglie di Golden State o il dinamic duo di Portland potrebbe rivelarsi un serio grattacapo. È anche vero però che non tutte le squadre eseguono con tale convinzione una filosofia di gioco, e solo due anni fa i Rockets arrivarono a giocarsi l’accesso alle Finals. Ah, poi ci sarebbe sempre quello col 13…
Enrico Busseti