A ventidue giorni di distanza dalla partita di natale tornavano a sfidarsi Golden State Warriors ed i Cleveland Cavaliers, appuntamento ormai classico del calendario NBA quando arriva il giorno dedicato alla memoria di Martin Luther King. Nonostante qualche rumors prima della partita faceva pensare ad un riposo per i Big Three di Cleveland, coach Lue non nasconde le carte e, al quintetto base di Steve Kerr risponde col proprio migliore, Irving e Love inclusi, nonostante qualche acciacco.
Nella partita di Natale entrambe le squadre sembravano come giocare ancora avvolte dentro alla polvere mistica delle Finals generando un equilibrio d’intensità e colpi pregiati durato quarantotto minuti e spezzatosi solo col canestro conclusivo di Irving, ricordo sinistro per tutto il mondo Warriors. La vittoria di Cleveland ha mandato un altro, l’ennesimo, messaggio all’interno della grande rivalità dei nostri giorni costringendo gli Warriors ad una risposta. Come una mossa d’apertura negli scacchi.
L’inizio arrembante degli Warriors è conseguenza necessaria, il 7-0 di parziale che apre la partita costringendo Lue al primo di una lunga serie di time-out forzati non è che la contromossa emotiva necessaria per riequilibrare i fattori psicologici. La differenza di intensità è palpabile e genera continue transizioni; gli Warriors non tirano benissimo in avvio ma iniziano a percuotere le membrane della difesa dei Cavs come onde sugli scogli, imperscrutabili, incessanti, mossi da quella corrente d’elettricità invisibile che si respira nell’area nelle serate importanti alla Oracle Arena. La fiducia viene di conseguenza e piano piano il motore della macchina di Kerr inizia ad ingranare: la tripla di Curry in transizione costringe Lue a chiamare un altro time-out.
Un’altra cosa da segnalare è la difesa di Durant, cosa rara per la regular season ma che dimostra di come gli Warriors siano un problema in difesa, ancor prima che in attacco per gli avversari: la possibilità di mandare le lunghissime braccia di KD in aiuto permette di recuperare anche in situazioni estreme, e la sua verticalità/mobilità gli permette di farsi dei giri preziosi sia su un lungo come Love, che soprattutto su LeBron James togliendo un po’ di lavoro ad Iguodala. Un Iguodala che sta iniziando a poco a poco la sua stagione, dopo tre mesi di villeggiatura di lusso; servirà a maggio, e per l’importanza che ricopre nel sistema a Kerr sta bene così.
Dall’altra parte Lue prova a mischiare un po’ le carte inserendo Frye ed il neo-arrivato Korver, in un quintetto dalle spaziature più ampie con James, Shumpert e Love. La qualità offensiva dei Cavs cresce, ma Korver spara (tanto e) a salve. Nella metà campo difensiva Cleveland mostra invece tutti i limiti dei due tiratori specialisti e Golden State li attacca ad ogni possesso. Curry ― che da dopo la partita di Natale è più coinvolto nel gioco, non a caso le sue prestazioni stanno crescendo ― punisce immediatamente una posizione troppo passiva di Frye con una tripla (altro time-out immediato, à-la-Popovich) così come Livingston tira in testa a Korver dopo averlo portato a spasso. L’intensità delle onde degli Warriors inizia a farsi maggiore, toccando il massimo vantaggio e costringendo Lue a reinserire Tristan Thompson. La presenza del canadese è fondamentale per gli equilibri difensivi dei Cavs, oltre ovviamente alla sua pericolosità a rimbalzo offensivo. Quando l’attacco gira Cleveland può anche permettersi di farne a meno, ma non appena il livello scende la sua assenza si sente.
I Cavs cercano di contenere le perdite, nel mezzo c’è anche l’ennesimo episodio della subordinata Green-LeBron (Flagrant di tipo 1 ed un po’ di teatro) ed una bella giocata difensiva di Thompson sullo stesso Draymond, ma sono soltanto gli attimi prima della tempesta; come quella sensazione di immobilità che si avverte prima dell’uragano. Infatti negli ultimi tre minuti del primo tempo la mareggiata arriva ed è tanto brutale quanto affascinante. I Cavs non possono far altro che incassare, un colpo dietro l’altro, inermi, come chiunque di fronte ad un fenomeno naturale più grande, quasi irreale. La sequenza dello juggernaut offensivo dei Warriors, che spacca inesorabilmente la partita, inizia con una tripla di Klay Thompson. Così come Curry anche l‘altro Splash Brother ogni volta che spara in transizione genera il pandemonio e genera quella carica elettrostatica che fa vibrare l’arena. È lo stesso Thompson che subito dopo stoppa Irving lanciando un’altra transizione, stavolta chiusa dalla schiacciata di Durant.
Come un pugile orgoglioso Cleveland cerca di resistere, ma la lucidità è un ricordo lontano e Irving non può far altro che perdersi Curry che spara in uscita dai blocchi; e ancora una tripla in transizione, stavolta di Durant, che poi decide di mettersi gli Stivali Delle Sette Leghe per chiudere con un’altra schiacciata abbacinante l’ennesima coltellata al cuore dei Cavs, travestita da transizione. Golden State tracima voglia di rivincita, di aprire un libro nuovo, dimenticarsi dello scorso giugno. C’è tempo anche per la tripla sulla sirena di Curry che oltre ai trenta punti di vantaggio fa segnare 78 punti a referto in soli 24 minuti.
Nel secondo tempo non c’è realmente partita, il danno è stato fatto. Korver inizia in quintetto per un acciaccato Love ― che non rientrerà più, chiudendo col peggior DefRtg (141) e Netrtg (-58.8) di squadra in appena sedici minuti. I Cavs ricuciono in parte lo strappo, cercando di mostrare il carattere che il loro leader pretende, riportando lo svantaggio attorno ai venticinque punti, ma più dei meriti di Cleveland sembra figlio del calo inevitabile dei padroni di casa. A differenza della partita contro i Grizzlies stavolta di pericoli non ce ne sono, anche perché in difesa gli Warriors continuano a lavorare bene in difesa, con la coppia Green-Durant su tutti. Ancora una volta troppo spesso non si parla di come Golden State sia indigesta anche per la metà campo difensiva dove l’aggiunta di Durant darà soluzioni nuove a Kerr e dove Draymond Green rimane uno dei migliori interpreti nella Lega. Si tende spesso a parlare dei suoi eccessi ma se gli Warriors sono quel che sono gran parte del merito è anche suo, giocatore unico, chiave di volta dell’intero sistema, che condisce la propria partita con la tripla-doppia da 11 punti, 13 rimbalzi e 11 assist (con 5 stoppate) in 34 minuti nei quali ha fatto registrare anche un 70.4 di DefRtg.
Alla fine sarà 126-91, la sconfitta più larga della stagione di Cleveland nonché la quarta nelle ultime sette partite. A voler spezzare una lancia in favore dei Cavs si può dire che quella di ieri era anche la sesta partita in trasferta in dieci giorni e sicuramente la stanchezza può giocare un ruolo fondamentale, in una squadra che tra l’altro nelle ultime due settimane ha avuto modo di allenarsi soltanto una volta e deve inserire un giocatore nuovo (Korver) e fare a meno di JR Smith con Love a mezzo servizio.
Se dopo il canestro decisivo di Irving del 25 dicembre era prematuro dire che i Cavs erano superiori ai Warriors lo è altrettanto affermare che LeBron e compagni non avranno possibilità di vittoria se dovessero riaffrontare Golden State alle Finals. Certo è che quando gli uomini di Steve Kerr riescono a giocare come ieri, con quell’intensità su due lati del campo, la faccenda si complica parecchio. Ma il discorso vale per chiunque, non solo per Cleveland. Nessuno può resistere a spallate così grandi come quelle che sono in grado di generare gli Warriors quando si esprimono al massimo livello. Il movimento continuo, i tagli, la qualità dei loro blocchi gli permette di generare buoni tiri, ad alta percentuale ed in ritmo praticamente ad ogni azione, per due/tre dei migliori realizzatori/giocatori della lega. Per di più Kerr sembra sia arrivato ad una quadratura definitiva (o quasi), figlia di un coinvolgimento maggiore di Curry ― tradotto in più palloni toccati, più palleggi, più presenza attiva ― e di una condizione migliore di Iguodala, il vero equilibratore della squadra, anello di congiunzione tra gli starter e la panchina.
Cleveland adesso torna in Ohio, con una bella batosta sulle spalle, ma nonostante questo con la consapevolezza di essere la miglior squadra dell’Est (ed un calendario decisamente abbordabile). Per quanto riguarda la regular season finisce in parità, 1-1, in attesa che arrivi Giugno e quello che sembra un inevitabile three-peat che segnerebbe definitivamente il destino di quella che a tutti gli effetti sta riscrivendo le pagine delle grandi rivalità dello sport americano e della NBA.