15 aprile. Manca poco meno di un mese all’inizio dei playoff e la situazione si va delineando. Rispetto ad altri anni, i destini di molte franchigie sono ancora in bilico e danno l’idea di un equilibrio instabile, che si sbilancerà solamente durante le battute finali di stagione. Settimana scorsa ci siamo dedicati alla Eastern Conference dove, nonostante distacchi più risicati del previsto, non sembra profilarsi una rivoluzione all’orizzonte. Questa settimana è il turno della più intricata, affascinante e confusa Western Conference.
Tutti noi siamo cresciuti con l’idea del vecchio e selvaggio West, immerso in paesaggi aridi, ricco di banditi, indiani d’America e sceriffi. Decine di film ci hanno inculcato nella testa l’idea che gli uomini risolvessero i loro problemi con un duello, una contesa all’ultimo sangue in cui solo uno dei contendenti sarebbe sopravvissuto. L’alternativa? Una bella rissa da saloon. In questo momento la Western Conference sembra assomigliare ad una zuffa, in cui tutti cercano di atterrare l’altro per raggiungere il proprio obbiettivo stagionale, per ottenere un futuro migliore. Poche franchigie sono al sicuro nella loro posizione e possono permettersi di guardare avanti con serenità, approfittandone per rifiatare o programmare le prossime mosse. Partiremo ancora una volta dal fondo per poi risalire la corrente, andando a toccare tutte le interessanti story-lines che l’NBA ci offre.
Guardando l’orizzonte
All’interno della Western Conference, 4 squadre possono già guardare alla prossima stagione. Gli stati d’animo però sono molto diversi tra di loro. La classifica recita, partendo dal basso: Los Angeles Lakers, Phoenix Suns, Sacramento Kings e New Orleans Pelicans.
Un po’ a sorpresa il fanalino di coda sono i Lakers di coach Walton, ma questa posizione potrebbe essere una benedizione per la franchigia californiana. Dopo un buon inizio di stagione, che li ha visti collezionare 12 W tra ottobre e novembre, a Los Angeles devono essersi ricordati della spada di Damocle che gli pende sulla testa e hanno iniziato a tankare. La prima scelta in un draft, che si prevede stellare, rimarrà nelle loro mani solo se ricadrà tra la #1 e la #3, altrimenti finirà in quelle di una Philadelphia che si sta già leccando i baffi. Complice una risalita abbastanza sorprendente di Phoenix. I ragazzi giallo-viola sono riusciti ad “agguantare” l’ultima posizione e “lotteranno” per non mollarla. L’annata, al di là del record decisamente perdente (20-49), può considerarsi tutto sommato positiva. L’esordiente coach Walton ha dimostrato di aver creato la giusta chimica con un roster giovane e ha rivitalizzato elementi ormai dati per spacciati (Nick Young). Randle ha mandato lampi da all-around player di buona fattura, Russel e Clarkson possono essere ottime basi per il futuro e Ingram ha iniziato un lungo processo di sgrezzamento, anche se ha rischiato di essere coinvolto in una trade. A conti fatti, siamo all’inizio di un lungo cammino.
La sorpresa sono invece i Phoenix Suns, che nonostante un roster ben lontano dal poter essere definito competitivo, hanno raggiunto la ragguardevole quota di 22 vittorie (and counting) grazie al talento del suo back-court titolare. Eric Bledsoe e, soprattutto, il talento cristallino di Devin Booker sono la ragione per cui in Arizona possono sperare in un futuro migliore. Ciò non toglie che quello che stanno facendo ai Lakers, in ottica di una futura competizione per la risalita della classifica, è un vero e proprio regalo. Con 4 vittorie nelle ultime 8 partite hanno dato un senso a quest’ultima parte di stagione riducendo le probabilità di una chiamata ai vertici del prossimo talentuoso draft. Il peggior record della lega era un obbiettivo alquanto difficile da raggiungere (Brooklyn inarrivabile in tal senso) ma quello della Western Conference era ampiamente alla portata. In Arizona non hanno raggiunto l’obbiettivo stagionale? Scherzi a parte, poter disporre di qualche giocatore che dimostra di avere la quantità di talento necessario per racimolare qualche vittoria in più non è mai un problema, in qualunque modo se ne voglia disporre. Basta decidere che strada prendere.
Menzione in comune meritano i Kings e i Pelicans. Il motivo è tanto scontato quanto fondamentale per il destino di due giocatori attualmente nella top 20 della lega (Davis e Cousins) e di due franchigie. Lo scambio avvenuto in periodo All-Star game è ormai noto a tutti, il prezzo pagato per DMC (lo si ripeterà fino alla fine dei giorni) è stracciato e questi sono dati di fatto. Qualche partita però è stata disputata e allora possiamo iniziare a trarre le prime conclusioni.
I Kings registrano un impietoso 3-8 da quando Cousins se ne è andato e non s’intravedono margini di miglioramento nell’immediato futuro. La gestione Divac-Ranadivé sta facendo acqua da tutte le parti e ciò che i più vedono all’orizzonte in previsione della prossima stagione è una squadra con le carte in regola per contendere a Brooklyn la palma di “peggiore della lega”. Non bastano un’arena nuova di zecca e grandi proclami per sopravvivere: servono intelligenza, competenza e fortuna. Stando così le cose, i tifosi dei Kings hanno ragione ad essere preoccupati.
A New Orleans quello che serve a tutti i componenti della franchigia è pazienza e capacità di adattamento. Le potenzialità del nuovo duo sono incredibili, ma serve un grande sforzo collettivo per far sì che non vengano sperperate. Da quando Cousins ha iniziato la sua nuova vita, i Pelicans hanno raccolto appena 5 W e 7 L, non proprio un inizio con i fuochi d’artificio. Di questi 5 successi due sono per altro arrivati senza di lui (squalificato e fuori per problemi alla caviglia) e un’altro ancora quando coach Gentry lo ha tenuto in panchina durante i minuti decisivi, dando modo all’uragano Davis di esprimersi al massimo. Per i Pelicans si mostra dunque necessario sfruttare le ultime 13 partite per comprendere meglio come far coesistere i due big men, creandosi una pratica lista di cose da fare in post-season. L’estate negli uffici dirigenziali a New Orleans sarà prevedibilmente bollente.
Prova a prendermi
Arriviamo quindi a chi si sta giocando qualcosa, o meglio, ci crede ancora. Dallas, Minnesota e Portland maturano da qualche settimana sogni di cattura, ma la fuggitiva Denver non ha alcuna intenzione di farsi prendere.
Mavs e T’Wolves sono due compagini che viaggiano più o meno a braccetto (29-39 Dallas, 28-40 Minnesota) e si trovano rispettivamente a 4 e 5 partite di distanza dall’ottava piazza occupata dai Nuggets, una distanza che diventa sempre più incolmabile con lo scorrere dei giorni. Se Dallas sembra aver compromesso delle chance con le ultime sconfitte, Minnesota sembra invece aver trovato la quadratura del cerchio grazie a Rubio on fire (14.9 + 11.8 assist di media post All-Star Game) ed un Towns sempre più a proprio agio con gli infiniti mezzi tecnici e fisici di cui dispone. Trovarle in decima e undicesima posizone in questo momento delicato della stagione può essere abbastanza sorprendente se ripensiamo alle previsioni di inizio stagione. Eppure ci sono due motivi ben precisi: l’esperienza e la qualità complessive dei due roster. WunderDirk ha scollinato quota 30.000 punti con uno dei suoi tiri (applausi e lacrime) ma è indubbiamente sulla via del tramonto e le spacconate di Cuban non bastano per far tornare Dallas ai vertici di una Western Conference davvero competitiva. Nonostante le buone mosse della franchigia texana in sede di mercato (Noel dai Sixers ad un buon rapporto qualità/prezzo) il gruppo guidato dall’immortale tedesco dispone di una discreta dose di talento (in parte anche futuribile) ma non paragonabile a quella dei Timberwolves. Il tanto atteso salto di qualità che tutti si aspettavano ad inizio della regular da parte dei Wolves è però stato rimandato di un altro anno: anche un coach maniaco della fase difensiva come Thibodeau ci ha messo quasi un anno per trovare le combinazioni più adatte per mettere in campo una difesa quantomeno accettabile. I rebus da risolvere pervadono ancora l’aria di Minneapolis: Rubio può essere ancora utile alla causa? LaVine dovrà essere immolato sull’altare dell’equilibrio tattico? La città riuscirà mai ad attirare un top Free Agent? Da questo punto di vista, l’annata può considerarsi anche negativa, ma in dirigenza dovranno rimuginarci sopra molte volte prima di prendere decisioni di cui potrebbero pentirsi.
L’unica squadra che sembra davvero avere ancora una chance di arrivare ai playoff sono i Portland Trail Blazers. La data cerchiata in rosso sul calendario appeso nello spogliatoio di Lillard&co è quella del 28 Marzo, giorno in cui al Moda Center saranno ospitati quei Denver Nuggets che tanto li fanno sospirare. Curioso che l’uomo del destino in casa Trail Blazers sia quel Nurkic che proprio da Denver è arrivato, in cerca di riscatto dopo che le gerarchie erano state prepotentemente ribaltate dalla freschezza atletica, mentale e tecnica di Nikola Jokic. La “bosnian beast”, come il suo stesso account Twitter lo definisce, sta tenendo medie importanti (14+19+4 nella decina di partite disputate con la nuova canotta) e si sta dimostrando la chiave di volta per permettere al dynamic duo più caldo della lega di dischiudere sul parquet le discrete doti di cui madre natura li ha forniti. Per Lillard sono 6 volte su 11 sopra i 30 punti post All-Star Game ed un’intesa sempre più incandescente con il compagno di merende. Ancora una volta, nei momenti che contano, i due si stanno dimostrando giocatori veri, in grado di innalzare il livello del gioco nonostante una stagione fino ad ora sotto le aspettative.
Arriviamo sulle montagne rocciose, dove una pepita di oro puro risplende. In Colorado si stanno fregando le mani con quello che pare essere il primo vero esempio di centro-playmaker. Anche se l’altezza a cui è posto il Pepsi Center provoca dei piccoli problemi ai giocatori non abituati ad un diverso livello di ossigeno nell’aria, Nikola Jokic rimane indifferente e gioca con una lucidità mentale da fare invidia all’intera organizzazione. Gran parte della resurrezione dei Nuggets la si deve proprio a questo ragazzone serbo classe 1995, pescato al draft 2014 dagli attentissimi scout internazionali e ora protagonista assoluto della cavalcata per l’ottavo ed ultimo posto nella griglia playoff. Anche un’eventuale calo di prestazioni e conseguente perdita del treno per la post season in volata non sarebbe un grande problema per una franchigia che dispone ancora di giocatori appetibili sul mercato ed orientata ad un futuro importante. Una potenziale superstar prodotta in casa metterebbe un sorriso a 32 denti sulla bocca di qualsiasi dirigente NBA.
Equilibrio
Dalla settima alla quarta posizione ci sono 4 team che, come valore assoluto, si equivalgono e che preannunciano grande battaglia nei rispettivi primi turni di playoff.
Partiamo da Memphis (39-30), in cui troviamo l’ormai proverbiale squadra sporca, fisica ed in grado di dare del filo da torcere a tutti. Per quanto coach Fizdale abbia provato (ed in parte è anche riuscito) a trasformare la filosofia di gioco che da anni contraddistingue la franchigia del Tennessee, l‘attitudine di fondo è rimasta quella Grit and Grind che tanto piace ai propri tifosi e che rispecchia a pieno la mentalità operaia della città. Proprio l’abitudine a non mollare mai, a buttarsi su ogni pallone conteso e a mettere tutto in campo rendono Memphis una delle franchigie più difficili da affrontare in ottica playoff. Per la struttura del roster sarebbe molto meno complicato fronteggiare una prima serie di playoff, che comunque li vede partire da sfavoriti, contro i San Antonio Spurs, ma le ultime settimane stanno mettendo in dubbio quello che prima sembrava essere una certezza. Il brutto infortunio occorso a Chandler Parsons lo esclude da qualsiasi discorso e, per quanto non sia stata la migliore annata della sua carriera, sul piano tattico il nativo della Florida risultava una pedina fondamentale per cercare di sorprendere l’avversario di turno. Il quinto posto si trova al momento ad una partita di distanza, il sesto solo a mezza, ma la sfida con gli Spurs sarebbe la meno proibitiva. Nelle mani di Gasol e Conley rimane il futuro dei Grizzlies.
Poco più su troviamo i Thunder (39-29). Che dire della franchigia di Oklahoma? Le considerazioni su quella che è la prima stagione post-Durant, ovvero uno dei migliori 5 giocatori della lega, si riassumono in quello che sta facendo il suo ex partner-in-crime. Nelle statistiche del numero #0 c’è compressa tutta l’annata di OKC, che nasce e muore con le prodezze di Russell Westbrook. Oklahoma non è molto di più del suo capitano. Si, certo, ci sono il volenteroso Adams, il buon Oladipo (uno che si fa fatica a notare quando c’è, ma che si sente quando manca) e il sempre incostante Kanter (che ha saltato buona parte della stagione per infortunio). Ma, probabilmente, senza gli straordinari di Russell i playoff in Oklahoma farebbero fatica a vederli. La quinta piazza dei Clippers si trova attualmente a mezza partita di distanza, non impossibile da raggiungere ma comunque di complicata riuscita considerando il calendario. Esso prevede ancora scontri diretti con le tre superpotenze della Western Conference (quella con Houston può essere un bel banco di prova per un’eventuale serie playoff) e numerose sfide con franchigie ancora in corsa per un posto nel tabellone (due volte Denver, una Milwaukee e una Minnesota). Tirando le somme, per la franchigia Thunder è un anno positivo dopo quanto accaduto in estate, ma la strada per poter tornare a competere per il titolo sembra davvero lunga. A meno che Westbrook….
A Los Angeles, sponda Clippers, c’è aria di smantellamento. Dopo l’ennesima, ottima partenza è arrivato l’ennesimo, immancabile crollo. Certo i Clippers sono una presenza costante ai playoff da quando è arrivato Chris Paul, ma è vero anche non sono mai riusciti a compiere lo step decisivo per diventare una squadra da titolo. Quest’anno sarà l’ultima occasione per i Clips per come li conosciamo di attentare al trofeo. Gli infortuni hanno limitato entrambe le stars del gruppo, ma quello che sembra mancare è la chimica giusta all’interno dello spogliatoio. La surreale situazione creata da Blake Griffin lo scorso anno non è mai stata risolta del tutto e l’hype che girava intorno al #32 nativo di Oklahoma è man mano sceso, in parallelo con una sempre meno evidente evoluzione sul parquet. Probabilmente, in estate Paul e Griffin non eserciteranno l’opzione dei loro contratti, andando così ad esplorare cosa offra il mercato dei Free Agent. Nel frattempo, c’è un quinto posto da difendere, dei playoff da giocare e le ultime cartucce da sparare. Never say never, ma quanto è dura credere ancora alla Lob City…
Di tutt’altro tenore sono le note che si sentono provenire dallo Utah: a Salt Lake City si sogna in grande. Dopo anni di purgatorio, la squadra più snobbata dell’NBA è finalmente uscita dal bozzolo e si sta iniziando a togliere soddisfazioni. Ma i Jazz sono una sorpresa solo per gli occhi meno attenti ed i risultati che stanno ottenendo sono tutto merito di una profonda e pluriennale strategia dirigenziale. Il gruppo è solido, i giocatori su cui la franchigia ha puntato stanno finalmente ripagando ed il monte salari è il più basso dell’NBA. Gordon Hayward ha finalmente completato la sua maturazione ed ha ottenuto la prima, simbolica, riconoscenza al suo nuovo ruolo all’interno dell’organizzazione con la chiamata per l’All-Star Game: è alla sua miglior carriera per punti e rimbalzi (22+5) a cui aggiungere un eccellente 39.6% dall’arco. Rudy Gobert sta iniziando ad essere anche un fattore offensivo (13 punti, 12.7 rimbalzi, di cui quasi 4 offensivi e 65% dal campo) oltre a trasformarsi nella solita piovra umana per tutti i palloni che transitano nei pressi del suo ferro (2.5 stoppate a serata). I playoff di questa stagione dovrebbero viverli con il fattore campo al primo turno ed hanno ottime possibilità per raggiungere quelle semifinali di Conference che mancano ormai dal lontano 2009-2010. Per salire un ulteriore gradino in una Western Conference sempre più equilibrata nella sua classe media sarà necessario uno sforzo ulteriore della dirigenza in estate. Lo spazio salariale c’è, serve trovare il tassello giusto per non rovinare un ambiente pressoché perfetto. #TakeNote, ci sono anche i Jazz.
La quiete prima della tempesta
Gli Houston Rockets di Mike D’Antoni sono la più grande sorpresa della stagione. Contro ogni pronostico hanno saputo risollevarsi da una stagione che definire disastrosa è poco. Con l’arrivo di Mr. Seven Seconds or Less sono tornati ai sogni di grandeur cullati con l’arrivo di Dwight Howard per far coppia con James Harden. Curioso che proprio l’addio dell’ex Superman abbia concesso ai Razzi di spiccare il volo, ancora più sorprendente che un allenatore dato per finito dopo pessime esperienze a Los Angeles e New York ora sia un serio candidato per il Coach of the Year. Guardando attentamente il roster però si comprende come la scelta del Baffo sia stata un colpo di genio della dirigenza texana. Lo spogliatoio dei Rockets è composto da ottimi tiratori in tutte le posizioni, sia per quanto riguarda i titolari sia in panchina, dispone inoltre di ottimi lunghi vecchio stampo, in grado di dare un’adeguata protezione ad un pitturato altrimenti scoperto e, soprattutto, ha ritrovato la verve da Superstar assoluta di James Harden. Una situazione che assomiglia sinistramente a quella di Phoenix e, non a caso, il Barba è in piena competizione per l’MVP. E allora la stagione dei Rockets non può essere che considerata un trionfo: terza piazza già assicurata a 13 partite dal termine della stagione (6 partite di distanza da San Antonio, 4 dai Jazz) con conseguente possibilità di far riposare i titolari e legittime velleità ai playoff, laddove il secondo turno sembra ormai il minimo pensiero dei tifosi. Un’eventuale finale di Conference potrebbe spalancare le porte ad una cavalcata che soltanto cinque mesi fa sembrava impronosticabile. Nel frattempo i Rockets si godono una meritatissima quiete prima della tempesta.
Scontro tra titani
Analizziamo ora la situazione attuale delle prime due della classe nella Western Conference.
GSW ha una partita e mezzo di vantaggio sugli Spurs, dopo che solamente qualche giorno fa si parlava di un probabile sorpasso degli Speroni, complice la vittoria nello scontro diretto (decimato di tutte le Superstar, è bene dirlo) e qualche passo falso degli uomini di Kerr nel periodo immediatamente successivo all’infortunio di Kevin Durant. Con uno scatto d’orgoglio i Guerrieri hanno ricacciato indietro la banda texana, riassestandosi sui vecchi equilibri e con gli Spash Brothers che stanno finalmente aumentando i giri del motore. Ma le cose cambiano talmente velocemente che fare delle previsioni e delle analisi accurate ed in grado di reggere il passo frenetico del basket americano risulta impossibile. Rimanendo nei pressi della Silicon Valley troviamo una squadra molto diversa da quella che è andata ad un passo dal rivincere il titolo la scorsa estate. L’impatto di KD è stato ovviamente importante e per più di un mese, tra fine dicembre e inizio febbraio, ha dato l’impressione di poter raggiungere quel livello inumano che tutti si aspettavano in estate. I manifesti sono le larghissime vittorie ottenute con Cleveland, Houston e Oklahoma, andando a rimarcare quanto sposti avere o non avere un giocatore come Durant in squadra. Poi, complici infortuni, stanchezza e una panchina più corta e meno affidabile degli scorsi anni, qualcosa a Golden State si è inceppato. Nulla di così preoccupante da far scattare l’allarme rosso, ma abbastanza perché a raggiungere l’obiettivo prefissato servirà recuperare al meglio colui che è già diventato la chiave di volta della squadra. Senza Kevin Durant al meglio, come ha fatto capire Charles Barkley, i Warriors avranno tantissime difficoltà.
I sempreverdi Spurs dell’immortale coach Pop arrivano in questa fase della stagione, come sempre, pronti a giocarsi le proprie chances per il titolo. Con l’addio di Duncan è arrivato il turno di riconoscere gli Speroni come la squadra di Leonard. Le mani più grandi del West si sono caricate il peso della leadership emotiva, oltre che tecnica, della squadra di San Antonio, mostrandosi sempre più spesso nella versione scintillante e dominante. Un leader silenzioso che fa parlare i fatti, che è l’uomo di riferimento nella metà campo offensiva ed in quella difensiva, un giocatore che molto spesso è sottovalutato dalla gran parte del pubblico. Kawhi è il simbolo della mentalità di San Antonio, una franchigia abituata a vincere, abituata ad esserci sempre mentalmente e a giocarsela contro tutti senza alcun timore. Quella che poteva sembrare una mazzata sulle speranze di titolo della franchigia nero-argento si è in realtà risolta in tempi brevissimi, ovvero la sospensione di LaMarcus Aldrige per problemi cardiaci che ha fatto trattenere il fiato a tutti gli appassionati. Probabilmente Pop ricorrerà al suo classico periodo di riposo a rotazione per i pezzi da 90 della scacchiera e andrà ad incidere sulla rincorsa al primo posto ad Ovest ma finché ce ne sarà la possibilità state pur certi che anche i gregari daranno il massimo per raggiungerla.
La situazione nel selvaggio West è veramente intricata, gli equilibri si sbilanciano giornalmente e ciò che vale oggi può essere smentito domani. Nel caro, vecchio saloon il pianoforte della regular season sta finendo di suonare la sua canzone. Sulle note strimpellate da un giovane pianista tutti (o quasi) stanno partecipando alla rissa scatenatasi per un pugno di vittorie, pronti a tutto pur di sottomettere l’altro. Dal piano di sopra il grande pubblico guarda interessato, in trepidazione per tutto ciò che succederà quando la melodia suonata sarà quella che metterà in palio il Larry O’Brien Trophy.
Alberto Mapelli