Verità comode #1
Stagione dopo stagione, è sempre più difficile definire le sovrastrutture di una Lega in fluida e costante trasformazione. Etichettare un giocatore con un ruolo, ad esempio, è problematico da quando Steve Kerr ha indicato dove trovare animali fantastici: la Death Lineup ha chiuso la bocca ― tripla in transizione dopo tripla in transizione ― ai detrattori dell’evoluzionismo.
Verità comode #2
Ovviamente Kerr NON si è inventato l’andare piccolo. Ma ha vinto: tutti hanno dovuto fare i conti col fatto che i jump-shooting teams possono anche essere meglio dei Suns di Nash. Le nuove filosofie di spacing, di aprire il campo, di five-out sono belle parole che spesso si traducono in tante vittorie (leggasi Rockets ’16-’17). Non sempre occorre esser tanto futuristi: pigliare più rimbalzi dell’avversario, difendere forte e rallentare il ritmo è comunque una sana via verso la vittoria (a Memphis ne sanno qualcosa).
Verità comode #3
All’interno di questo cicaleccio ormai ridondante (Tradizione vs Novità, questo è basket quello no, si stava meglio quando si stava peggio, introduciamo il tiro da quattro punti), il ruolo del lungo è stato messo in discussione. Avete presente Nietzsche che arriva e demolisce duemila anni di pensiero occidentale? Una cosa del genere.
Verità comode #4
Qual è il ruolo nella Lega dei lunghi vecchio stile? Roy Hibbert è passato in un battibaleno da All-Star ai margini della NBA. Qualcuno considera ancora Dwight Howard un giocatore che sposta? Essere pericolosi solo negli ultimi trenta centimetri di campo (questa è per te DeAndre) limita enormemente la tua squadra. Giocatori che vivono di una metà campo (Vucevic, Okafor, Valanciunas, Brook Lopez) esisteranno ancora tra vent’anni? Ma anche: Towns, Davis+Cousins, Jokic, Porzingis saranno mai abbastanza per essere il primo violino in una squadra da titolo o siamo entrati nell’Era delle Guardie e chi ne esce più?
Una nuova generazione di lunghi è pronta per soppiantare la vecchia: un po’ perché Tyson Chandler ormai il suo l’ha dato, un po’ perché questi portano davvero qualcosa di nuovo, di fresco. Sono sconosciuti, alcuni hanno ancora qualche brufolo sulla faccia, giocano pochissimo. Il loro passato (nella Lega) è uno scatolone di sabbia. Eppure, magari, tra loro c’è il futuro Draymond Green, o il nuovo Tristan Thompson. Deve solo infortunarsi il David Lee di turno.
Richaun Diante Holmes
Mentre nessuno stava guardando, il lungo di Philadelphia è diventato qualcosa. Agli inizi di Dicembre del 2012, Richaun metteva su Youtube un filmato in cui intervistava sé stesso dopo il primo semestre al college. Ha la felpa dei Cyclones di Moraine Valley Community College, un piccolissimo ateneo nel sud-ovest di Chicago. Non il classico one and done di Kentucky.
Dopo tre anni a Bowling Green State University, i Sixers hanno speso la 37esima scelta nel Draft 2015 per il prodotto del piccolo college dell’Ohio. Cinquanta presenze (una sola da titolare) e 5.6 PPG nella stagione da rookie costringono Phila a respingere il giudizio. A Gennaio 2017, addirittura, fa tre volte visita ai Delaware 87ers in D-League. Con la trade di Noel e il season-ending injury occorso a Joel Embiid, Holmes si è ritrovato come miglior lungo in squadra (su Jahlil Okafor glissiamo).
Il grande pregio del giocatore di Lockport (IL) è la naturale capacità di farsi trovare al posto giusto al momento giusto. E’ un miraggio che può accadere guardando i Sixers sui peggio streaming di notte, ma non segni 25 nell’area di Dwight Howard se sei un pivello. Proprio la sconfitta interna con gli Hawks è coincisa col massimo di punti in carriera: fenomeno non isolato. Pochi giorni prima, nella (propedeutica) sconfitta @Orlando, Holmes ha giocato 42 minuti prima di uscire per falli con 24 punti, 14 rimbalzi (career-high), 5 assist, 1 rubata, 1 stoppata e 1/4 da tre.
La scorsa estate si è rafforzato molto in weight room per compensare i “solo” 208 cm d’altezza. Ha sempre avuto un particolare feeling nel rollare a canestro e la sua intesa con TJ McConnell/Chacho Rodriguez va aumentando sempre di più. Il ragazzo difende forte, fa tante piccole cose; è un moto perpetuo con picchi allucinanti. Sta lavorando sulla meccanica di tiro per renderla più fluida (attualmente il punto di rilascio è troppo basso, ma già in Ohio giurano di averlo visto tirare più di mille volte oltre l’arco, la notte). Holmes compirà ventiquattro anni ad Ottobre e se mai dovesse diventare anche solo un solido titolare in NBA, beh, a Sam Hinkie piacerebbe molto. #Stay22uned!
Skal Labissiere
La storia del giocatore di Haiti la conoscete tutti. Sopravvissuto al terremoto del 2010 per miracolo, il nativo di Port-au-Prince doveva essere l’erede spirituale di Karl-Anthony Towns ai Kentucky Wildcats 2015-2016. Non la miglior presa di Calipari, visto che il suo freshman più promettente è passato in un anno da sicuro top 3 ad essere scelto con la 28esima da Phoenix. Non è neanche il giocatore nato nell’isola caraibica ad essere chiamato più in alto, per dire: Samuel Dalembert nel 2001 andò alla 26. Sacramento però scommette su di lui e con il comunicato ufficiale più onomatopeico della storia ne annuncia l’arrivo in California.
Ecco, coi #fucKINGStupid Labissiere ha avuto la possibilità di giocare con continuità solo dopo la partenza di DMC. E non sta facendo male. Valutare tuttavia un giocatore su sostanzialmente 15 partite giocate (nel solo mese di Marzo) è dura, anche perché nemmeno lui sa cosa farà da grande. Il coming out party sono i 33 punti (21 nel quarto periodo) nella vittoria esterna sui Suns. Eppure il buon Skal nelle ultime cinque viaggia a poco più di 6 punti di media. Qualcosa sotto l’acqua si muove.
Hernangomez Brothers, by Niccolò John Scarpelli
La rivalità tra Barcellona e Madrid è arrivata pure oltre oceano da quest’anno, dove alla dinastia catalana dei Gasol si è aggiunta quella freschissima dei castigliani Hernangomez. Gli All Star Pau e Marc stanno andando in là con gli anni e quale momento migliore per il basket iberico per mandare una nuova coppia di fratelli in NBA, con Guillermo e Juan da poco approdati rispettivamente a New York (Knicks) e Denver.
Willy e Juancho sono giocatori diversi, ma con tanti punti in comune ― come i Gasol. L’ex Real Madrid è un centro più tradizionale, ma ha un buon jumper e vista anche dove sta andando la Lega tra qualche anno potrebbe essere solido anche da oltre l’arco. Nella sua prima stagione nei Kazoos (cit) ha fatto il back-up di Noah, arrivato in estate da Chicago per 64 milioni di (dubbi) motivi. Sfortunatamente anche lui ha seguito il (brutto) corso della squadra, ma nei 17.8 minuti concessogli a partita Willy ha dimostrato di essere un giocatore intelligente, con diverse soluzioni per chiudere al ferro. È un attaccante più efficace di Noah (col 53% dal campo è il migliore tra i rookie), tira i liberi meglio di Noah (qui non c’è la notizia), non è un peggior rimbalzista di Noah ed è già un rim-protector migliore di Noah. Ci siamo capiti no?
Juancho invece è una power forward moderna, ma che con un po’ di lavoro in sala pesi può ambire a giocare anche da centro nei quintetti piccoli (e soprattutto quando riposa Jokic, il gioiello più prezioso tra i tanti dei Nuggets). A differenza del fratello, ha meno padronanza del centro area, nonostante sia un rimbalzista tutt’altro che orribile e sia tosto quando va al ferro. La vera grande differenza con Willy sta nel tiro, visto che al suo primo in NBA Juan ha già dimostrato di essere uno floor-spacer terrificante. Tira oltre il 44% da tre, che diventa 50% (cinquanta) nelle corner-three. Non ha bisogno di toccare tanto la palla per essere efficace e quando entra in ritmo dalle sue mani escono piume infuocate a raffica.
Sono entrambi parte integrante dei progetti delle loro squadre c’è da essere sicuri che il prossimo anno avranno anche maggiori responsabilità. La dinastia degli Hernangomez Brothers è appena iniziata.
Jusuf Nurkic
L’esplosione nella Mile High City di Nikola Jokic ha del tutto oscurato un altro interessantissimo prospetto europeo. Jusuf Nurkic, in due anni e mezzo di Denver (139 partite giocate, meno della metà dall’inizio), non è riuscito a ritagliarsi un posto sicuro. Tanto che nella stagione corrente il front office dei Nuggets ha preferito spianare la strada di Jokic verso l’Olimpo del basket, cedendolo. E si è rivolta a Portland, proprio la squadra che ora (alla sesta vittoria di fila) le sta strappando l’agognata ottava piazza ad Ovest.
Dopo venti partite nell’Oregon, al BosnianBeast intonano canzoni: #NurkFever.
Nonostante un fastidio alla gamba che lo terrà lontano dai parquet per una decina di giorni, Nurkic ha avuto un impatto devastante sui Trail Blazers. Nelle 19 partite giocate dopo l’All Star Game (tutte da titolare; coi Blazers solo una prima dell’ASG in uscita dalla panchina, in casa dei Jazz), Nurkic ha un Offensive Rating di 113,3 in quasi mezz’ora di gioco. Doppia doppia (15-10) di media e +8,5 in Net Rating, contrappasso del -9,1 nella prima parte di stagione in Colorado.
Nurkic ha recentemente affrontato i suoi ex compagni. Il risultato? Career-high da 33 punti e 16 rimbalzi. Nell’area del ragazzone che gli mangiava minuti (il pick-and-roll alto con Lillard è una delle cose da vedere nella NBA attuale). L’evoluzione di Nurkic è semi-impossibile da decifrare in così poche partite, ma pare proprio che i Trail Blazers e il loro cronico bisogno di lunghi affidabili sia stato il pane per i denti bianchissimi di Jusuf.
Michael Malone: "Jusuf Nurkic kicked our ass."
— Harrison Wind (@NBAWind) March 29, 2017
Riviviamo gli ultimi cinquanta giorni, i più belli nella carriera del ragazzone di Tuzla, attraverso tre articoli di The Ringer:
- Dopo una bruciante sconfitta dei T-Blazers sul campo degli Hawks in OT, Jonathan Tjarks si chiede se Nurkic sia l’uomo giusto. “Il suo feroce post-basso sarà un grande upgrade per Portland e, anche se non risolve per nulla la vistosa mancanza di rim protection, non c’è motivo per non vedere che sa fare”.
- Things are changing. Un pezzo a fine Marzo di John Gonzalez valuta le prime uscite del bosniaco con la nuova casacca. Contiene anche i miglioramenti che il sistema ha fatto fare a lui e lui ha fatto fare al sistema.
“They need me, and I need them.”
- Qui Danny Chau esamina in modo esaustivo del gioco a due con Lillard. La grande capacità di bloccante di Nurkic apre autostrade per D-Lilly.
Portland è 12-3 da inizio Marzo, ha messo un po’ di distanza tra sé e Denver e Lillard ha finalmente tolto le pantofole. Verosimilmente al primo turno beccheranno Golden State e sarà durissima, ma dateci un occhio a Jusuf e a Portland.
Ivica Zubac
Zu-Block, Zublocka, Big Z, Zu, Zupac, Zu Alcindor (alcuni dei soprannomi feeghissimi che solo ad LA) è un progetto talmente in fieri che comprenderlo in questi discorsi è quasi anacronistico. Ventenne da pochi giorni, il nativo di Mostar sta riempiendo di Bosnia questo articolo.
Perdonatemi se nella preview stagionale dei Los Angeles Lakers di Zubac non avevo scritto neanche una riga. Un po’ di gavetta il centro di 216 centimetri quest’anno se l’è fatta, ma si è tolto anche qualche soddisfazione (25+11 @Nuggets). Niente male, visto ciò che lo circonda. Zubac starà fuori fino a fine stagione per un guaio alla caviglia, ma in qualche gif proviamo a riassumere perché il #40 è un buon motivo per guardare i Lakers quando non si ha nient’altro da fare.
Magari non sarà lui il centro dei futuri Lakers della nuova gestione Magic-Pelinka, ma alla voce Giocatori di Culto la NBA ci ha guadagnato sicuramente un nuovo elemento. Che poi di questo stavamo parlando, di essere lunghi hipster in una Lega di unicorni. Mica tutti possiamo diventare Joel Embiid.