Risorgere dalle proprie ceneri.
La NBA è una lega che si può ormai considerare zeppa di casi del genere: giocatori sottovalutati o bollati come bust dopo la prima difficoltà incontrata, ma che poi hanno trovato il modo di tornare al vertice.
Lo tesso discorso si può ampiamente adattare alle squadre, e se un esempio clamoroso possiamo trovarlo quest’anno negli Houston Rockets (divorzio con Dwight Howard e cambio in panchina che hanno portato ad una stagione attualmente sopra le aspettative iniziali), forse nessuno negli ultimi anni si era reso protagonista di un comeback del genere tanto quanto gli Washington Wizards.
Già l’inizio non era per altro stato dei migliori, tanto che prima della regular season la decisione di scegliere Scott Brooks come guida tecnica dopo il quadriennio di Randy Wittman aveva fatto storcere il naso a molti. Come se non bastasse, il 2016-17 a DC comincia con un filotto di sconfitte che fanno presagire una stagione di transizione quasi indirizzata al tanking, prima della necessaria ristrutturazione estiva.
Poi però, quando John Wall sembrava sull’orlo di una crisi nervosa e le prospettive di rilancio erano quasi nulle, qualcosa è scattato; e a suon di vittorie nel fortino del Verizon Center, frutto di prestazioni convincenti e continue anche in trasferta, Brooks ha riportato i suoi prima nella lotta per un posto ai playoff e adesso addirittura a contendersi il terzo posto con i Toronto Raptors (che hanno ormai abbandonato ogni speranza di raggiungere il seed #2).
Le prime settimane di regular season di Washington sono quelle di un gruppo saturo, in cui la superstar continua ad inanellare prestazioni di livello ma la squadra non gira, non c’è chimica tra giovani e veterani ne tanto meno entusiasmo da parte di un pubblico stanco di essere deluso.
114-99 vs Hawks, 112-103 vs Grizzlies, 103-113 vs Raptors, tutte partite perse. Poi una vittoria ancora contro Atlanta e altre due sconfitte contro Orlando e Houston. Non proprio un inizio con i fuochi d’artificio per usare un eufemismo.
La svolta ― almeno a livello mentale, perché di sconfitte ne arriveranno altre ― comincia il 9 novembre, quando nella capitale arrivano i Boston Celtics e alla fine dei 48 minuti il punteggio dice 118-93 per i padroni casa. Un dominio assoluto per Washington, che conclude il primo quarto in vantaggio addirittura 34-8, scappa e non si guarda mai indietro.
Più che per la vittoria in sé però, la partita è significativa perché per la prima volta mostra a Scott Brooks che questo gruppo, per la maggior parte insieme da diversi anni, ha delle grandi potenzialità nella metà campo offensiva. Wall è una superstar, e trovare un giocatore con quella velocità e capacità di finire al ferro e che distribuisce inoltre più di 10 assist a partita è cosa rara. Beal è partito come tiratore, ma con il fisico che si ritrova e il QI cestistico ben oltre la media può mettere in difficoltà le difese avversarie in innumerevoli modi. Gortat è la solita macchina da rimbalzi con temperamento est-europeo che non lo fa andare sotto con nessuno a livello mentale e Markieff Morris infine è il 4 perfetto per chi vuole giocare a ritmi alti e magari spesso in small ball nella pallacanestro del 2017. Quattro elementi assolutamente complementari che sono legati a doppio nodo dal vero collante della squadra: Otto Porter Jr. Con il passare delle settimane Porter si è finalmente reso conto di poter decidere le partite anche solo con la propria presenza in campo, in entrambe le metà.
Tornando alla partita del 9 novembre contro i Celtics, Otto Porter fa registrare una prestazione da 34 punti, 14 rimbalzi e 4 assist in 38 minuti, con 3 rubate, 3 stoppate, il 73.7% dal campo e il 60% da 3 punti (plus/minus +18). Sì, siamo di fronte a un giocatore dal potenziale noto da molto, l’esplosione a cui stiamo assistendo era probabilmente solo una questione di tempo. Ma siamo sicuri che questo tempo non sarebbe stato estremamente superiore se Wittman fosse rimasto a DC?
Scott Brooks ha avuto un’intuizione, ha capito che Wall e Beal si stavano esprimendo al massimo (o quasi) delle proprie potenzialità e che la spinta doveva arrivare da qualcun altro, perché i Wizards erano fondamentalmente una squadra già pronta a cui mancava il tocco finale. Assicuratosi che Gortat non avesse idee diverse dal portare blocchi (fondamentale in cui eccelle visti i 6.4 screen assist a partita, migliore di tutta la NBA) e star piantato sotto il ferro a raccogliere ogni oggetto volante nelle vicinanze, ha lasciato Beal fuori area pronto ad approfittare degli scarichi (sia tirando da 3 che penetrando con area libera) e Morris dall’altra parte con lo stesso compito. In questo modo Porter si è ritrovato a giocare più vicino al vertice alto dell’area e quasi affiancato a Wall nella costruzione del gioco, usando spesso il prodotto di Georgetown per un pick-and-roll. Così Porter, armato di una riscoperta letalità dall’arco, è risultato assolutamente devastante.
Il sistema di gioco risulta per forza di cose più fluido, visto che con il nuovo ruolo di Porter a tutti gli altri giocatori è chiesto di fare semplicemente quello che prediligono sul parquet; e se per Gortat questo vuol dire una doppia doppia di media e per Morris la possibilità di incidere sull’andamento di una partita come mai prima d’ora in carriera, un altro (e ulteriore) salto di qualità lo sta facendo Bradley Beal.
Le statistiche della sua carriera NBA recitano 17.5 punti a partita, con il 44% dal campo (che diventa 50% se si guarda alla percentuale reale) e un PER di 15.7. Nel 2016-17, i punti a partita sono 23.1, la percentuale dal campo è passata dal 44% al 48% e quella reale dal 51% al 56,6%, con il PER che ha toccato quota 20.3. Le statistiche che più devono rendere l’idea dell’incredibile stagione del #3 non possono che essere quelle delle percentuali realizzative, perché se è vero che Beal è arrivato in NBA con l’etichetta di guardia con tanti punti nelle mani, gli è sempre stato criticato di essere un giocatore poco concreto e che aveva bisogno di troppi tiri e troppi possessi per poter incidere realmente su una partita.
Se la musica è cambiata il merito va attribuito ancora una volta a Scott Brooks. Limitando Beal all’attività di pura shooting guard e togliendogli ogni compito extra in fase di costruzione di gioco, il coach ex-OKC ha messo le basi per la sua esplosione in un sistema apparentemente disegnato apposta per lui.
Negli anni passati a Oklahoma City Brooks era spesso accusato di essere un allenatore inconsistente, che forte della presenza in squadra di giocatori come Harden, Durant e Westbrook lasciava a questi l’iniziativa, senza riuscire a imporsi e portando i giovani Thunder dei Big Three a essere una delle più grandi incompiute di sempre.
La verità è che Scott Brooks, se si vuole tentare di muovergli un’accusa fondata su basi tecniche, è probabilmente un allenatore poco camaleontico, senza grandi capacità di adattamento rispetto al roster che si trova tra le mani. Ora, pensate di essere un allenatore che non ha idee precise su cosa fare con i giocatori a disposizione, e aggiungete all’equazione tre superstar (poi diventate due, ma che bastano e avanzano) che anche senza il minimo bisogno di direzione dalla regia ti portano almeno a finire tra le prime tre della Western Conference ogni anno: la tentazione di non provare a modificare il giocattolo è abbastanza forte.
Quando è arrivato a Washington, però, l’ex giocatore dei Rockets (tra le tante) si è trovato di fronte ad una squadra dalla spina dorsale ben precisa, con Wall che non sbaglia una stagione da quando è entrato in NBA, Beal e Gortat di cui abbiamo già parlato ed il compito quindi di riuscire ad inserire nel tutto Porter e Morris (proibitivo sulla carta, ma portato a termine alla grande). Fatto questo, ci ritrova un quintetto in cui ci sono un playmaker vero, un lungo forte a rimbalzo e che porta blocchi molto solidi e tre ali che tirano da 3 e penetrano al ferro quasi con la stessa efficacia. Tutti hanno il proprio ruolo e i compiti sono ben chiari. Decisamente un’altra musica rispetto a OKC.
Su 82 partite però gli uomini necessari tendono ad essere più di cinque, e Brooks si è quindi ritrovato a dover affrontare anche il problema della panchina di Washington, non proprio il top nella categoria.
Trey Burke, Tomas Satoransky, Kelly Oubre Jr, Jason Smith e Ian Mahinmi. A vedere i nomi a freddo la sensazione non può essere delle migliori, perchè visto il recente passato ci si trova di fronte rispettivamente a: una stella del college che è stata investita dal salto in NBA senza rialzarsi; un giovane messosi in mostra al Barcellona ma che sembra avere poco a che fare con l’NBA (sopratutto fisicamente); un’altra stella del college che però non si è ancora capito cosa faccia meglio (e peggio) nè tantomento quale sia il suo ruolo in un quintetto (ala piccola? ala grande? centro in un ‘super small-ball’?); un lungo da rotazione che ha già girato mezza NBA senza trovare fissa dimora e un centro francese che a causa dei tanti infortuni non ha ancora ripagato il contrattone datogli in estate (16 milioni di dollari). Ed è proprio la panchina, infatti, ad essere il problema che più a lungo assilla Scott Brooks, incapace di trovare soluzioni nei primi mesi e obbligato spesso a ridurre la rotazione a otto o addirittura sette uomini.
Le vittorie però aiutano, aiutano chi è in campo a costruirle tanto quanto chi è in panchina a guardare per poi venire trascinato dal progetto. Con il passare delle settimane Satoransky comincia a prendere confidenza con la Lega, Smith si ricorda di essere uno dei migliori ‘oltre-i-due-e-10’ della NBA nel tiro dalla media e Mahinmi sta tornando piano piano a potersi esprimere decentemente nelle due cose che sa fare meglio, difendere il ferro e metterci fisicità. In più i Wizards hanno aggiunto in corsa due professional scorer come Bojan Bogdanovic dai Nets e Brandon Jennings dai Knicks, cosa che porta il pino di Washington a poter finalmente far rifiatare i titolari senza essere investiti dalla reazione degli avversari.
Questi Wizards non saranno pronti per lottare per il titolo e probabilmente neanche per impensierire i Cleveland Cavaliers in un’ipotetica finale di Conference, ma ad oggi sono una squadra funzionale, organizzata e con uno dei migliori sistemi di gioco di una Lega in cui, anno dopo anno, giocare con una divisione ben precisa dei compiti è sempre più una chiave per il successo.
In estate però, Porter uscirà dal contratto da rookie, che al momento gli fa percepire 5 milioni di dollari a stagione, e andrà a caccia di un accordo che potrebbe toccare i 20 milioni annui, andando ad intasare un cap sul quale già gravano gli stipendi di Wall e Beal. Senza contare il fatto che a fine stagione sarà free agent anche Bogdanovic, che tanto bene sta facendo adesso, così da indurre con ogni probabilità la dirigenza a offrirgli un’estensione.
Attirare un’altra star diventerà quindi un’impresa ardua e con questi soli uomini forse stiamo assistendo proprio adesso all’espressione del massimo potenziale degli Wizards, senza la possibilità (almeno nel futuro più prossimo) di poter pensare a traguardi più ambiziosi.
Quello di cui siamo sicuri, però, è che Scott Brooks ha dimostrato di essere un allenatore vero, e rivestendo la figura dell’allenatore ‘di ruolo’ ― esattamente come un giocatore con le sue responsabilità all’interno di un quintetto ― potrebbe aver gettato le basi per meritare il premio di Coach Of the Year più degli altri contendenti.