22 giugno 2017: va in scena il Draft NBA 2017. Senza molto pathos vengono chiamate le prime due scelte assolute: Markelle Fultz ai Sixers, Lonzo Ball ai Lakers. Le dichiarazioni di papà LaVar hanno già oscurato ― e probabilmente imbarazzato ― il giovane Lonzo e il tempo a disposizione dei Boston Celtics, team chiamato a selezionare con la numero 3, è quasi scaduto. In molti attendono solo che Adam Silver si presenti sullo stage con il nome della terza chiamata assoluta mentre, invece, il panel di esperti di ESPN passa la linea a Jeff Goodman, inviato a ridosso del palco: <<Goodman’s got some trade news>>. Goodman prende la parola, il suo annuncio si abbatte sui telespettatori come un fulmine a ciel sereno: Jimmy Butler è stato scambiato dai Chicago Bulls con i Minnesota Timberwolves. Assieme a lui finisce a Minnie la scelta numero 16 del Draft in corso, mentre nella Windy City arrivano la pick numero 7, Kris Dunn e Zach LaVine.
Jimmy Butler, senza dubbio il perno centrale della trade, era per distacco il miglior giocatore in forza ai Bulls, è un all-star fatto e finito, è nel pieno della maturità cestistica della propria carriera (è un classe ’89) ed è appena al secondo anno di un contratto tutt’altro che gravoso per i nuovi standard della lega.
Allora perché i Bulls hanno deciso di privarsi di una stella così luminosa? Come hanno fatto i Timberwolves ad assicurarsi le prestazioni di uno dei top-15 giocatori della Lega? Quale sarà il suo fit con i TWolves? Come ripartiranno a Chicago? Minnesota sarà capace di tornare ai playoff dopo ben tredici stagioni passate a far la spola tra purgatorio ed inferno?
Al momento, appare semi-impossibile effettuare una valutazione infallibile della trade: una lunga serie di fattori poggia sull’ideale bilancia incaricata di pesare le scelte effettuate. Abbiamo, però, provato a decostruire lo scambio, individuando le necessità e le logiche presenti e future che hanno spinto entrambi i team ad intavolare la trattativa che ha sconvolto la notte del Draft.