30-28-29
30 • NEW YORK KNICKS Voto: 3,8
di Federico Ameli
Visto? Avevate ragione. E non è poi neanche così difficile spiegare i motivi del perché i New York Knicks siano riusciti a meritarsi l’ultima piazza di questa nostra graduatoria. In fin dei conti, nell’ambito di una classifica che deve tener conto della bontà delle scelte operate da una franchigia tra una stagione e l’altra, l’allontanamento di colui che avrebbe dovuto dettare le linee di mercato per la free agency 2017 a tre giorni dall’inizio della stessa rischia di incidere in maniera decisiva. Eppure, questa offseason non era iniziata poi così male: con un canto del cigno degno di questo nome, Phil Jackson ha affidato ai posteri il talento di Frank Ntilikina, il prospetto europeo più interessante di questa Draft Class. Sebbene l’esperienza nella Grande Mela abbia contribuito a disintegrare gran parte del credito accumulato da Coach Zen in tanti anni di onorata carriera, non si può negare che, tra una pennichella e l’altra, Jackson abbia dimostrato di saper pescare tra i talenti del Vecchio Continente: Ntilikina è sicuramente uno di essi e possiede, neanche a dirlo, le giuste credenziali per far bene nella Triangle Offense, ma la sua giovanissima età e il contesto a dir poco demotivante in cui il francese si troverà a competere fanno di lui un innesto più per il futuro che per un presente che si preannuncia più mesto che mai. Avrà pur evitato i fischi riservati a Kristaps all’annuncio di Adam Silver, ma resta il fatto che New York non è la città più accogliente per un cestista europeo.
The Knicks misspelled Frank Ntilikina name on his practice jersey… pic.twitter.com/VMXpBN5Hm0
— NBA Central (@TheNBACentral) June 29, 2017
Eppure, le scintillanti prestazioni offerte da Dennis Smith Jr., scelto solo cinque minuti più tardi dai Mavericks, alla Summer League di Las Vegas non fanno altro che alimentare i dubbi sulla bontà della scelta dei Knicks, che avrebbero potuto puntare su un playmaker senza dubbio più pronto del francese nel tentativo di cancellare il più velocemente possibile l’onta delle ultime disastrose annate. Con l’esperimento Derrick Rose tristemente naufragato, sfumata la possibilità di arrivare a free agent di spessore (vedi George Hill, accasatosi a Sacramento) per i motivi di cui sopra, ad oggi i Knicks si ritrovano infatti senza un playmaker affidabile degno di questo nome. Inoltre, priva di un uomo forte nei giorni decisivi per le sorti di una franchigia che deve ad ogni costo riconquistare l’antico splendore (o quantomeno provarci), la dirigenza newyorkese ha concluso uno degli affari peggiori degli ultimi anni. Tim Hardaway Jr. che senza troppi rimpianti aveva lasciato New York due anni fa, fa ritorno nella Grande Mela alla modica cifra di 71 milioni da incassare nei prossimi 4 anni. Inutile domandarsi per quale ragione gli Hawks abbiano deciso di non pareggiare l’offerta dei Knicks; sarebbe invece interessante chiedere a chi di dovere quale bisogno ci fosse di strapagare un ragazzo che andrà a giocarsi il posto con il meno esoso, ma decisamente più funzionale, Courtney Lee, che ad oggi può essere annoverato tra le pochissime felici intuizioni dell’era Jackson.
RT to welcome back @T_HardJR to the #Knicks! pic.twitter.com/kntmMlSLJM
— NEW YORK KNICKS (@nyknicks) July 8, 2017
Ma le note dolenti devono ancora arrivare. Che la presenza di Carmelo Anthony, fino a qualche mese fa stella indiscussa dei Knicks, non sia più gradita in quel di New York non è certo una novità e difficilmente la partenza di Jackson cambierà le carte in tavola: nessuno è profeta in patria,neppure Melo, il quale, forte della no-trade clause presente nel suo contratto in scadenza il prossimo anno, spinge per raggiungere l’amico Paul e Harden a Houston, anche se al momento le trattative sembrano in fase di stallo. Un discorso simile può essere fatto per Kristaps Porzingis, ormai ai ferri corti con il front office dei Knicks, per il quale non sono giunte offerte soddisfacenti e che, almeno per il momento, pare destinato ad una permanenza a New York all’insegna dei musi lunghi e dell’astinenza dai Playoff.
La firma di Scott Perry come nuovo GM e il rinnovo a cifre contenute di Ron Baker non sono lontanamente sufficienti per poter sperare di scalare qualche posizione nella nostra personalissima classifica. Un playmaker maturo ancora da trovare (gli ultimi rumour parlano di un interesse nei confronti di Eric Bledsoe e Brandon Knight), un inutile dualismo creatosi nello spot di shooting guard, la stella della squadra ormai da mesi con le valigie in mano, la talentuosissima ala grande con il morale sotto i tacchi, un centro strapagato (e in pieno prepensionamento) che risponde al nome di Joakim Noah e un supporting cast non esattamente di primo livello fanno indubbiamente dei New York Knicks la peggiore franchigia di questa offseason 2017.
29 • CHICAGO BULLS Voto: 3,8
di Federico Ameli
Fare peggio dei Knicks era quasi impossibile, eppure il front office dei Bulls ci è andato davvero molto vicino.
È difficile credere che, per assicurarsi le prestazioni di un Jimmy Butler con ancora due anni di contratto, nessuna franchigia abbia fatto recapitare in quel di Chicago un’offerta migliore di quella formulata dai Timberwolves. Dopo aver infiocchettato e spedito LaVine, Dunn e la settima scelta del Draft nella Windy City, Tom Thibodeau ha finalmente potuto riabbracciare il suo pupillo (oltre alla sedicesima scelta, spesa per chiamare Justin Patton), aggiungendo al talentuoso roster dei Lupi l’uomo in grado di far fare il salto di qualità alla franchigia di Minneapolis. Analizzando le varie componenti dell’accordo, è evidente come Chicago ne esca sconfitta su tutta la linea. Nelle tre stagioni trascorse tra le fila dei Timberwolves, Zach Lavine si è distinto più come atleta che come cestista in grado di spostare gli equilibri: la scarsa attitudine difensiva, per la quale coach Thib deve aver perso ogni speranza, e il grave infortunio al ginocchio sono due fattori che avrebbero dovuto far riflettere più a fondo la dirigenza dei Bulls, che nell’ambito dell’affare Butler ha portato nell’Illinois anche Kris Dunn. Sebbene il tempo sia ancora ampiamente dalla sua parte, nel suo anno da rookie il prodotto di Providence ha racimolato la miseria di 3,7 punti e 2,4 assist in 17 minuti di gioco, davvero troppo poco per uno che era sbarcato nel basket dei grandi con le stimmate del predestinato. Neppure la decisione di puntare su Lauri Markkannen, settima scelta dello scorso Draft, può essere considerata positivamente. Infatti, sebbene il finlandese abbia tutte le carte in regola per diventare un ottimo giocatore nell’Nba che verrà, allo stato attuale le sue caratteristiche sono troppo simili a quelle di Nikola Mirotic (che attualmente è restricted free agent, ma che con tutta probabilità rimarrà a Chicago) per potersi ritagliare minuti a sufficienza e trovare una certa continuità già da questa stagione. Infine, la cessione agli Warriors di una potenziale steal of the Draft come Jordan Bell in cambio di qualche spiccio rappresenta la ciliegina sulla classica torta in cui la nonna ha confuso il sale con lo zucchero.
https://twitter.com/chicagobulls/status/880048396538593280
Con gli arrivi di LaVine e Dunn a rimpolpare il backcourt dei Bulls, era scontato che qualcuno fosse costretto a fare le valigie: la vittima sacrificale è stata ben presto individuata in Rajon Rondo, tagliato senza troppi complimenti dal front office di Chicago. Tuttavia, alla luce dei 3 milioni di dollari che percepirà nella prossima stagione è lecito domandarsi se sbarazzarsi dell’uomo che da solo aveva messo in ginocchio i Celtics per fare spazio ai due giovanotti di Minneapolis possa essere considerata una mossa azzeccata o meno. Ai posteri l’ardua sentenza; ci permettiamo invece di dare un giudizio sul rinnovo offerto a Cristiano Felicio: anche in un mercato impazzito come quello di quest’anno, i 32 milioni di dollari che confluiranno nel conto corrente del brasiliano nei prossimi quattro anni sono molto più di quanto Felicio stesso potesse sperare di ottenere.
https://twitter.com/chicagobulls/status/883047020801310720
Discreta la firma di Justin Holiday a cifre relativamente contenute, mentre per quanto riguarda la player option esercitata da Wade, è evidente come si tratti di una valutazione meramente economica più che di una scelta di cuore: a trentacinque anni suonati, 23 milioni rappresentano una pensione dorata che nessun’altra franchigia gli avrebbe mai garantito, ma anche in questo caso le colpe sono da imputare a quello stesso stesso front office che 365 giorni fa metteva insieme un trio (Rondo-Wade-Butler) male assortito e per poi smantellarlo dopo una sola disastrosa stagione.
In queste ultime ore si sta parlando anche di un suggestivo colpo in entrata: il figliol prodigo Derrick Rose, oltre alle piste Cavs e Lakers, starebbe valutando un clamoroso ritorno a casa. Al di là dell’aspetto mediatico, bisognerà riflettere sulle cifre e soprattutto sul ruolo che Rose vorrà ricoprire: ingaggiarlo come playmaker titolare vorrebbe dire togliere minuti preziosi alle nuove giovani guardie e mal si sposerebbe con l’addio di Rondo, congedato sull’altare del ringiovanimento della rosa. Rose o no, una cosa è certa: non tira aria di Playoff nella Windy City.
28 • CLEVELAND CAVALIERS Voto: 4,5
di Paolo Stradaioli
Accorciare il gap con una delle squadre più forti di tutti i tempi: lo stai facendo nel modo sbagliato. I Cavs si sono tuffati in questa offseason pieni di buoni propositi ma arrivati alle porte di agosto la situazione è tutt’altro che felice in Ohio. L’ultima firma in ordine cronologico, quella di Cedi Osman, ha portato il payroll a quota 140 milioni di dollari, circa 20 milioni oltre la luxury tax. A queste cifre monstre tuttavia non corrisponde ad oggi una squadra migliore dello scorso anno. Kyle Korver è stato rifirmato a $21 milioni in tre anni e per quanto la sua affidabilità oltre l’arco rimane più che solida c’è da chiedersi quanto il logorio fisico interferisca sulle prestazioni dell’ex Hawks, visto che la carta d’identità recita trentasei anni. Questione playmaker: il tentativo di spremere le ultime gocce di basket dal martoriato corpo di Deron Williams è miseramente fallito ma l’alternativa non sembra convincere più di tanto. Jose Calderon porterà di certo esperienza e tiro perimetrale ma quando Irving sarà seduto si continuerà a soffrire e non poco, visti i palesi limiti del play spagnolo nella propria metà campo e un fisico che anche per lui comincia a chiedere il conto (35 anni).
Negli ultimi giorni poi, il mai banale Kyrie Irving ha sganciato la bomba di mercato chiedendo la cessione. Se davvero sarà cessione la sfericità della terra (tanto per rimanere in tema) e il numero uno alla voce anelli conquistati dai Cleveland Cavaliers saranno due assiomi difficili da confutare. In una conference in cui la presenza di Lebron James equivale ad un quasi sicuro viaggio all’episodio finale della stagione, i Cavs dovrebbero rimanere la prima forza ad Est, ma trovare una point guard capace di sostituire in termini di produzione offensiva il prodotto di Duke è praticamente impossibile. Irving ha espresso in maniera neanche troppo velata la sua insofferenza verso un ruolo di secondo violino oscurato troppo spesso dallo star power di James. Per questo in tutte le squadre da lui indicate come mete ideali (Spurs, Knicks, Heat, T’Wolves) manca un alphadog nel prime della sua carriera intorno al quale stringersi durante la stagione. Certo è che se l’off-season di Cleveland era stata mediocre, con un ipotetico scambio di Irving rischia di diventare deprimente.
Le frizioni all’interno della società hanno portato prima al discusso addio di David Graffin, poi alla richiesta di cessione di Irving e in redazione si fantastica di una possibile trade che coinvolga Lebron (!!!). Molto più probabile che alla fine The Chosen One (che ha una no trade clause sul contratto) si prenda un altro anno prima di decidere se chiudere a Cleveland la carriera oppure abbandonare la nave, riportando la franchigia che lo ha scelto al draft nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciata sette anni fa. In tutto ciò bisogna registrare anche la firma al minimo di Jeff Green, uno dei migliori tiratori della lega ai tempi di Boston ma oggi un mediocre attaccante ed un catastrofico difensore.
In base alle situazioni offerte dalla partita si giocherà minuti con i vari Korver, JR Smith, Shumpert, Jefferson (che ha nuovamente posticipato il ritiro) ma non sarà la sua aggiunta a dare costanti garanzie sugli scarichi del 23. Insomma i nostri pensieri non possono che andare al nuovo General Manager della franchigia, tale Koby Altman, ex assistente del già rimpianto David Griffin, il quale ha già sul tavolo una gatta da pelare parecchio insidiosa. Come se non bastasse dovrà sedare un ambiente che minaccia di esplodere da un momento all’altro con i danni collaterali che rischiano di essere incalcolabili per le ambizioni dei Cavs. Per rivedere scene di questo tipo servirà veramente un’impresa al limite del possibile.