Punti forti e punti deboli
Possiamo dividere la scorsa stagione in due fasi: Before Nurkic e With Nurkic. Prima dell’arrivo della Bestia Bosniaca, i Blazers erano brutta difesa e un attacco accettabile, ma che faticava quando sedevano le due guardie titolari; successivamente, una difesa un po’ meno brutta ma un attacco clamoroso. Il quintetto dei Blazers ad inizio stagione recita Lillard-McCollum nel backcourt, una coppia che offensivamente non ha bisogno di presentazioni ma che ha faticato immensamente sull’altro lato del campo. Harkless e Aminu erano i small/power forward designati (con il secondo che ha convissuto con problemi al polpaccio per tutta la stagione e sono partiti in quintetto spesso, al suo posto, Crabbe, Vonleh o Ed Davis). Tra tutte le lineup schierate da Portland, Harkless e Aminu e Plumlee da centro è la usata e non ha nemmeno fatto male, anzi. Il problema era quando entravano le riserve, incapaci di aprire il campo come Harkless o anche solo di essere tiratori appena decenti come Aminu.
I Blazers sono convinti che un Aminu sano possa assestarsi attorno ad un 37% dalla lunga distanza, Harkless sta continuando a fare progressi sotto questo punto di vista e probabilmente hanno costretto Evan Turner ad un migliaio di tiri al giorno in estate. Portland ha finito la scorsa regular season al 22esimo posto in AdjDefRtg e all’11esimo in quello offensivo. La situazione a rimbalzo, invece, è andata migliorando col passare del tempo (e con un quintetto più portato a difendere le plance. I Blazers sono nella media della lega in quasi tutte le statistiche relative al controllo dei tabelloni, ma aver iniziato la stagione estremamente undersized non ha aiutato. Lillard e McCallum sono difensori sotto la media (specialmente il primo) e se non ci provano nemmeno è un disastro. Aminu soffre contro un lungo vecchia scuola e Plumlee non è DeAndre Jordan. “Le nostre guardie devono inseguire [il loro avversario diretto], i nostri big men devono insinuare un dubbio nella mente dell’avversario in penetrazione” ha detto coach Terry Stotts a ESPN.com. “Ci siamo chiesti se è giusto o meno continuare così [col piano difensivo che è da anni nelle corde dei Blazers], e lo è, siccome non stiamo giocando come dovremmo in difesa. Prima giochiamo come dovremmo, poi vediamo se cambiare qualcosa” ha detto l’ex giocatore della Squibb Cantù di Valerio Bianchini.
Con Nurkic, invece, è cambiato il mondo. Lillard-McCollum-Harkless partono con Vonleh e lo stesso Nurkic, prima che un infortunio non lo fermi per il finale di stagione e per i Playoffs. Si è rotto l’osso del perone della gamba destra poche giornate dopo il suo career-high contro i Denver Nuggets, in uno scontro diretto per l’ottava piazza, dove ha messo in mostra tutto il repertorio e fatto innamorare il Moda Center. In quella partita, Nurkic ha stuprato il proprio marcatore in post basso, distrutto Jokic a rimbalzo e augurato una buona estate davanti alla TV ai ragazzi del Colorado. Come scrive Zach Lowe, solo alcuni giocatori possono essere trascendenti in ogni squadra in cui si trovino; per tutti gli altri è questione di habitat. Nurkic deve aver capito che giocare con giocatori come Lillard e McCollum è ben diverso da Mudiay e/o Murray. La gravità che questi due giocatori esercitano sulle difese avversarie ha aperto autostrade per The Bosnian Beast per rollare verso il ferro. Inoltre, pur non diventando mai Arvydas Sabonis, Nurkic ha mostrato abilità di passatore su cui Denver non avrebbe scommesso un penny. Al diavolo quelli che “19 partite non provano nulla!”: reagire in modo spropositato ad un 14-5 con lui campo forse non è saggio, quindi reagiamo in modo spropositato che si alza lo stereo dell’hype a volumi inascoltati da anni in Oregon.
In una di queste partite, l’ottava coi Blazers, Nurkic ha distrutto i Sixers con 28 punti, 20 rimbalzi, 8 assist e 6 stoppate. Ricordate la difesa molliccia e poco efficace di Denver? (Pur non essendosi trasformato in Dikembe Mutombo, ora Nurkic ci prova, si sbatte anche lontano dal pitturato, contesta i tiri ravvicinati ed è duro quanto serve là sotto). Era già marzo inoltrato, vero, quando ormai tante squadre o tankano o abbassano un po’ la guardia, ma non si vedevano numeri del genere da Charles Barkley 1986. Era la quarta vittoria di fila (mai successo prima in stagione), arrivata peraltro all’overtime, con Stotts è già costretto a parlare di Nurkic Fever. Coach Brett Brown ammette di aver testimoniato ad “una delle più dominanti prestazioni di un lungo viste quest’anno. É stato dominante”. Nell’area di Jahlil Okafor tutto è più facile, si potrebbe aggiungere, ma servire il tagliante con tempismo perfetto, ad esempio, è difficilmente insegnabile.
E poi c’è la coppia di guardie con più swag al di fuori di Oakland, California. McCollum ha ammesso di aver sviluppato con Nurkic un’ottima intesa anche grazie ad ore di film room, mentre Lillard è tra i tanti Blazers che hanno eccome beneficiato degli screen assists del bosniaco. Avere un bloccante di alta qualità è di primaria importanza per Damian Lillard, uno che fa del pick-and-roll il 43,4% del suo attacco (93,4 percentile), ovvero più di Wall, Lowry o Conley, anche se ha una percentuale reale peggiore di tutti questi (dati Synergy). Rimane comunque una situazione in cui ricava 1,02 punti per possesso (McCollum si ferma a “solo” 0,94). In un’interessante intervista rilasciata qualche anno fa Lillard parlava di come gioca il pick-and-roll. Nella prima azione della partita, dice, osserva come gli avversari hanno preparato la partita. Poi agisce di conseguenza. Usa due termini fondamentali per descrivere il comportamento del marcatore del bloccante: show, ovvero aumentare la pressione sul ball handler uscendo forte, o flat, cioè rimanere più coperti dentro l’area. Se la difesa fa show, il primo obiettivo di Lillard è servire il rollante, altrimenti trovare un po’ di spazio per un tiro in sospensione. McCollum dice che nel suo pick-and-roll è fondamentale notare un secondo prima se e da dove viene l’aiuto della difesa, perché tanto lui il suo uomo lo batte quando vuole. Portland non spinge granché sull’acceleratore (14esimi per pace, a 99,1 possessi a partita) ma si affida così tanto alla capacità di creare un tiro dal nulla delle due guardie che dimentica di passare la palla (solo 16 possessi a partita finiscono con un assist, 25esimi NBA, dati ESPN.com).
Il supporting cast dei Blazers dovrà essere all’altezza per reggere l’urto della Western Conference. Se di Turner, Aminu e Harkless abbiamo già parlato, Noah Vonleh è stata una piacevole sorpresa sul finire della scorsa stagione. Con lui occorrono davvero i guanti perché è sta entrando nel quarto anno e si sa ma che non torni il dinosauro che era, ma ha mostrato alcune cose interessanti, ultima questo buzzer beater buffo. Ha racimolato fiducia, partenze in quintetto e di fianco a Nurkic è riuscito a trovare un motivo per stare in campo, che non è poco per uno che nelle prime due stagioni viaggiava a 3,5 punti a partita. Non si è trasformato in DeMarcus Cousins, ovviamente, e i punti a partita sono diventi solo 4,4, ma ha solo ventuno anni (ne dimostra circa il doppio) e – udite udite – a marzo è andato in doppia cifra tre sere di fila e ha chiuso la stagione con due doppie doppie. Ad inizio stagione nessuno avrebbe scommesso sul vederlo insaccare soffici jumper dalla media in faccia a Kawhi Leonard. Un video creato dall’account ufficiale dei Blazers sulle migliori giocate di Vonleh in cui sembra Jermain O’Neal: tirar fuori un giocatore utile da Vonleh potrebbe essere cosa utile per Portland, prima di vedere cosa farne in estate (stessa situazione contrattuale di Nurkic).
Poi ci sono i rookies. Nicolò Basso presentava Zach Collins come un lungo dal footwork eccellente, che a dispetto della ristretta apertura alare copre bene il campo grazie ad un buon motore e presenza mentale durante le transizioni. Difende bene sul perimetro, dove spesso a Gonzaga lo costringevano ad inseguire le guardie avversarie, e la meccanica di tiro lascia presagire possibili progressi sulle conclusioni dall’arco. Caleb Swanigan, invece, oltre a portare un po’ di sana lotta libera sui parquet della Lega, potrebbe essere inserito quando la squadra sanguina rimbalzi. Sophomore da Purdue, Poppie (ma lo chiamano anche The Big Poppa, non chiedete) deve però migliorare sulla difesa del ferro e negli scivolamenti difensivi. Ah Biggie (lo chiamano pure così), amplia pure il range di tiro che non fa mai male.
Ci stiamo dilungando e mancano ancora i pronostici, quindi, prima di voltare pagina trovate una giffetta e una domanda tanto perentoria quanto misteriosa: che fine ha fatto Meyers Leonard?