Dove eravamo rimasti?
I San Antonio Spurs vengono da una stagione (due in realtà) oggettivamente incredibili. Nonostante dopo diciannove anni il padre fondatore della patria spursiana, Tim Duncan, abbia abdicato ritirandosi, gli Spurs hanno continuato ad essere la solita macchina da pallacanestro perfetta. Gli anni passano, così come i giocatori, ma i concetti professati da Gregg Popovich restano gli stessi: una difesa granitica, super organizzata, con cinque giocatori che si muovono come fossero un corpo unico ― miglior Defensive Rating anche nella scorsa stagione con appena 100.9 punti concessi su cento possessi ― e un attacco fluido, altruista, che costruisce sempre buoni tiri. San Antonio è stata la miglior squadra nel tiro dalla lunga distanza, anche se con molti meno tentativi rispetto a squadre come Boston o Houston. La ricerca delle corner-three pregiate è nel DNA della squadra, grazie a tiratori mortiferi come Mills (41.3%), Green, Bertans o Leonard (tutti sopra il 38%). Anche Pau Gasol, arrivato la scorsa stagione e non proprio lo stesso giocatore ammirato ai Lakers, ha chiuso la regular season con un irreale 51.3% da tre punti su quasi due tentativi, addirittura il migliore di tutta la NBA.
Gasol che inoltre ha aiutato la fluidità offensiva della squadra grazie a questo ruolo di facilitatore da 4 tattico. Qui pesca Tony Parker per la tripla decisiva nella trasferta a Charlotte.
Gli Spurs sono risultati tra le prime dieci/cinque squadre della NBA praticamente in ogni parametro statistico, dagli assist (from good to great si spiega da solo) ai rimbalzi, all’efficienza reale al tiro. Questo però non è bastato per portarsi a casa l’anello per la sesta volta; dopo aver eliminato Memphis e Houston (con il canto del cigno di Manu in una gara-5 già leggendaria per i texani nero-argento) si sono dovuti arrendere al Mostro A Quattro Teste Della Baia in quattro partite ― complice anche uno slide under di Pachulia su Leonard in gara-1 (dove, per la cronaca, gli Spurs erano in vantaggio di ventitré punti a metà terzo quarto).
San Antonio ha dimostrato di poter avere una rotazione molto lunga, un altro mantra della filosofia popovichiana, ma questa volta solo per la regular season. A parte Simmons, cresciuto di partita in partita durante i playoff, gli altri (Dedmon, Lee, Bertans, Forbes, Kyle Anderson) sono progressivamente scomparsi. Uno dei compiti principali della franchigia nell’estate era proprio questo: allungare la rotazione, specie sugli esterni. Ma la situazione non era facile, coi contratti di Simmons, Dedmon, Gasol e Mills in scadenza e un cap abbastanza bloccato. Con un colpo da maestro, RC Buford era riuscito a convincere Gasol ad uscire dal proprio contratto ― rinunciando a 14 milioni, una follia ― per permettersi di dare l’assalto a Chris Paul, free agent di punta dell’estate. Paul ha optato sì per lasciare Los Angeles per il Texas, ma non ha scelto San Antonio. Rimasti con un pugno di mosche in mano, gli Spurs hanno dovuto riorganizzarsi, ma senza un vero e proprio piano B. L’obiettivo è diventato non incasinare la situazione salariale in vista della prossima free agency: è stato rifirmato Mills (a cifre molto buone, 50M x 4 anni) così come Pau Gasol (a cifre meno buone, 48×3) mentre sono stati lasciati partire sia Dedmon che Simmons, sostituiti da Rudy Gay (al quale è stata offerta la MLE con un biennale) e Joffrey Lauvergne al minimo salariale.
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In definitiva, il mercato degli Spurs si può definire insufficiente, soprattutto per una squadra che si presenta ai nastri di partenza come una Contender. Il front office dei texani ha deciso di mischiare un po’ le carte, puntando sul blocco solido dello scorso anno e aggiungendo dei jolly al mazzo ― per esempio sembra ovvio, a vedere dal roster, che Popovich vorrà giocare meno con due lunghi classici e più con quattro esterni. Ma basterà per permettergli di competere anche quest’anno?