Che Joel Embiid fosse un gran comunicatore era cosa risaputa. Chi di voi invece era a conoscenza di un podcast a firma di J.J. Redick? Non temete, il quarto appuntamento con la rubrica “Inside The NBA” possiede tutti gli ingredienti: agitate, non mescolate e avrete un risultato effervescente.
- Dopo quattro stagioni a Los Angeles, sponda Clippers, Redick descrive il suo primo mese a Philly come “so surreal”. Rivela di aver chiamato un paio di volte CP3 nel tragitto da Brooklyn a Philadelphia per restare in contatto.
- Sorpreso dalla competitivita della squadra in questo 1/4 di stagione regolare, afferma di puntare candidamente ai playoff: “Un amico mi prende per i fondelli ogni volta che ricordo di non aver mai mancato la postseason in 11 anni di carriera. Sento che alla fine di quest’anno sarà 12 su 12”. La ragione? Ben Simmons e Joel Embiid: “Giocatori trascendenti, […] autentici unicorni”.
- L’ospite del debutto su The Ringer è “big deal”, come lo descrive Redick. Si parte subito con una curiosità social sulle “locations” dei suoi post Instagram: “ Cosa ti viene in mente quando tiri fuori queste cose?”, chiede Redick? “Dipende, penso al mio accoppiamento, spesso voglio solo scendere in campo e “have fun” […]. I ragazzi spesso tendono ad avere qualcosa contro di me; sono extra fisici, fanno trash talking. Questo eleva il mio gioco e mi fa venir voglia di dominarli, prenderli a calci in c***o cosi poi posso andare sui social e sostanzialmente sme*****i
- [lettura consigliata: Alessandro Bonfante ha tracciato un profilo dell’Embiid “social face” proprio su queste pagine].
- Racconta di un episodio recente, durante la preseason che ha coinvolto lui è Whiteside: “Io mi diverto e basta”, lo ripete tre volte. “Questi ragazzi la prendono male e non ci puoi fare niente”. […] “Se vuoi portare il tutto oltre il campo è un problema tuo. Era preseseason, abbiamo cominciato a giocare, era troppo fisico e poi ha cominciato a parlare. Ha fatto fallo su di me tre volte nei primi tre minuti. Ho guardato la loro panchina, […] stavo per mandarlo fuori per falli. Dopo la partita mi fu detto che Whiteside aveva detto qualcosa su di me su Twitter, sono andato a vedere e…”[qui e qui parte dello scambio di tweet tra i due].
- Episodio analogo con LaVar Ball: “Il post veniva dopo che ne avevo messi 46. La partita contro LA dopo le dichiarazioni estive era da circoletto rosso sul calendario. Non sono sicuro fosse alla partita ma sono certo che abbia visto che ero in grado di giocare. Mi sono divertito a chiamarlo in causa […]. Sono rimasto sorpreso dal fatto che ci fosse una location chiamata LaVar [Ball].”
- Embiid si dichiara apertamente fan del Big Baller Brand.
- Recentemente Jalen Rose l’ha tacciato di “poca”professionalità dopo le seguenti dichiarazioni nel post-partita dello Staples Center. Embiid ha corretto il tiro dicendo di sentirsi all’81 percento della forma [riferimento agli 81 punti di Kobe vs i Raptors nel 2006, quando a marcarlo era proprio Jalen Rose. A proposito, avete visto questo spot?]
- Ha un approccio diverso a seconda del social network: “Su Instagram posto la foto e stop, non guardo i commenti, mi ci vorrebbero delle ore”. Passa tempo a rivedersi in “House of Highlights” di Bleacher Report o a cercare profili di ragazze.
- Accetta la definizione di “social media troll”. “Sono un essere umano, lo faccio anch’io”
- La prima partita di basket che ha visto risale alle NBA Finals del 2009, Lakers vs Magic. “Ero in quella squadra, abbiamo perso”, ricorda Redick con una punta di amarezza. Embiid prosegue: “Rimasi davvero impressionato da Kobe e diventai un grande dei Lakers. Mi stupirono la sua intensità, il movimento palla, l’atmosfera, la copertura dei media. Crescendo ero timido, non parlavo, di solito. Non mi sarei voluto trovare in quella situazione, ma mi colpì”.
- In Camerun, otto anni fa, giocava a pallavolo, calcio e faceva un po’ di karate: “Volevo provare la pallacanestro. Mio padre disse «no» perché lo riteneva sport troppo fisico per me; rimasi deluso dal fatto che pensasse fossi molle”.
- Nel 2011 uno degli zii convinse il padre e un coach scovò il ragazzo: “Ho giocato per 3/4 mesi là. Fu poi invitato al camp organizzato da Luc Mbah Moute: “Credo di aver mancato il primo giorno di preselezioni al camp di Luc [Mbah Moute] Non pensavo di essere abbastanza bravo, pensavo non sarei stato scelto al di là di tutto. Il secondo giorno andai e appena arrivai questa gente mi chiese se avessi un passaporto, fu bizzarro”.
- Contestualmente venne scelto tra i cinque destinati a prendere parte all’All- Star Game dell’evento: “Pensavo fosse affare di altri. Fui uno dei 5 a essere scelto per Basketball Without Borders e da lì tutto è decollato”.
- Trova difficile individuare un turning point della propria carriera : “È giusto dire che quando cominciai a giocare a basket negli U.S.A., nel mio junior year giocavo JV [junior varsity ndr.]. Se ci penso…”
- Arrivato al college, a Kansas, pensava di passarvi cinque anni: “Andai nell’ufficio del coach e dissi che non sapevo se il mio livello fosse accettabile”.
- Ricorda piuttosto nitidamente l’esordio assoluto in NBA: “ Al college non ero realizzatore! Ero il classico “lungo”. Segnai 20 punti in 24’ contro Steven Adams, un difensore forte. — È facile— pensai. Non mi resi conto nemmeno in quel momento [del mio potenziale], nemmeno ora”.
- La presa di consapevolezza, forse, non è ancora arrivata; quando fa un Dream Shake à-la-Olajuwon o un “hook shot” à-la-Kareem, pensa: “L’ho fatto davvero?”
- La sera dei 46 vs i Lakers non si sentiva “particolarmente caldo”.
- Sente la pressione ma adora tutto ciò che essa comporta.
- Quando è a casa gioca ai videogiochi, mangia e dorme.
- A volte, per le strade di Philadelphia vorrebbe passare inosservato ma “per uno di 2.17 è difficile nascondersi”.
- Vede finalmente ripagati gli sforzi fatti: “Ho sempre visto la mia vita come un film perché è successo tutto molto rapidamente. […] Gioco da 6/7 anni e ne ho persi due. A volte mi chiedo come sono arrivato qui, la risposta è che ho mosso il c***o”.
- A Philadelphia è in affitto e non ha né macchina né patente.
- Dopo la morte del fratello la famiglia ha fondato la “Arthur Embiid & Angel’s foundation” per aiutare i ragazzi bisognosi.
Inside the NBA #1: Gary Harris
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