In questo preciso istante, nella testa di molti è balenato il pensiero che no, nemmeno Lui, il Re, sarebbe potuto andare oltre questo apice atletico-tecnico. Effettivamente, questa stoppata, e ciò che ne consegue, rappresenta ancora il culmine della carriera di questo grande giocatore. Un culmine che infatti non è riuscito a superare, ne tantomeno replicare, nella stagione passata, quando alla nemesi cestistica del nativo di Akron si è aggiunto forse l’unico giocatore nell’intera Lega che possa tenergli testa per incisività sulle due metà campo. Eppure, anche se prossimo alle 33 primavere, nonostante l’addio con perdite subìto al termine dell’estate dopo la cessione forzata di Irving e un inizio di stagione claudicante dei suoi Cleveland Cavaliers, LeBron James in questi primi mesi sta trascendendo la comune concezione di perfezione e indispensabilità, non solo per la sua squadra, ma per l’intero Gioco.
Dopo 25 partite di regular season, LeBron James viaggia a 28.2 punti di media, 8.0 rimbalzi, 8.6 assist, tirando il 58.7% dal campo, 43.0% da tre punti (38.1 la percentuale di Curry, giusto per darvi un metro di paragone illustre) e il 76.1% ai liberi. Si tratta delle medie al tiro migliori dell’intera carriera, numeri che comunque non rendono sufficiente merito a quelle 13 vittorie di fila (and counting) inanellate dai Cleveland Cavaliers, pur mancando ancora di Tristan Thompson, Derrick Rose e Isaiah Thomas, di cui il Re è stato l’alpha e l’omega indiscussa. LeBron James sta mandando un messaggio. Un messaggio forte e chiaro, diretto per la precisione dalle parti della Baia Californiana, buchetta della Oracle Arena. Il messaggio che death lineup o no, lui a separarlo dal Larry O’Brien Trophy per la quarta volta in carriera vede solo e soltanto ciò che gli manca per essere un giocatore ancora migliore di quanto lo sia adesso.
Tralasciamo lo stato di forma degno di un rookie, che gli permette di giocare ancora 37 minuti ad altissimo livello per partita, con un’efficienza pari al 31.4, secondo dato più alto in carriera e merito sia della generosità di Madre Natura, che della maniacale attenzione che James ripone sul proprio corpo e sulla prevenzione dagli infortuni sin dal primo anno trascorso nella Lega. LeBron James in questa stagione sta mostrando un’evidente e incessante crescita psico-strategica. E’ senza ombra di dubbio un genio cestistico, l’Einstein della palla a spicchi, in grado di riconoscere i momenti migliori in cui favorire i compagni, responsabilizzando un supporting cast già di tutto rispetto, o prendere in mano le redini della partita. Niente di nuovo fino a qui. Ciò che più impressiona è la capacità, affinata recentemente, di svoltare sempre più le gare nei loro momenti chiave, con colpi di mano risolutivi che spaziano dalle tonanti stoppate alle penetrazioni inarrestabili (conclude a segno più del 60% delle proprie iniziative al ferro) o i tiri pesanti senza senso, che valgono spesso gli ultimi 13 punti della squadra o strisce personali anche da 17 punti consecutivi. Ha un PER di 44.1 durante l’ultimo quarto di partita, il più alto di sempre. Se non è capacità di riconoscere i momenti in cui essere decisivo questa…
Il suo Offensive Rating attuale ammonta a 124 punti per 100 possessi, secondo solo ai 125 della stagione 2012/2013 ai Miami Heat, con 37.4 punti stimati sempre su 100 possessi. Niente male davvero per un giocatore che contro i Washington Wizards, il 3 novembre ha fatto registrare anche la propria seconda miglior prestazione offensiva di sempre, con 57 punti a referto.
Ma ancora di più, ad aggiungere medaglie al merito nel bagaglio tecnico-tattico già iridato di questo campione, è quella sensazione di perenne dominio e controllo della partita in ogni sua fase, dentro e fuori dal campo. Oggi come non mai, King James è capace di scegliere con discernimento il compagno di squadra da illuminare, dove, come e perché.
E’ in grado non solo di valorizzare ogni sua mossa nel rettangolo di gioco, ma anche quella di chi gli sta attorno, con forse una punta di demerito per l’influenza esercitata anche sul titolare del pino. Ma, d’altronde, come non spezzare una lancia in favore di Tyronn Lue, un coach che alla prima esperienza da capo allenatore della sua vita si è trovato a gestire probabilmente la terza stella più lucente, cronologicamente parlando, questa non è sede per dilungarsi su giudizi da bar della serie “chi è il più forte?”, dopo l’ascesa di Michael Jordan e Kobe Bryant.
Ora James ha definitivamente (?) maturato una consapevolezza senza precedenti di tutti i mezzi atletici, tecnici e intellettivi di cui dispone e dei margini di miglioramento che ancora ha da offrire a sé stesso. E, a mio parere, se ne parla davvero troppo poco. Il fatto passa in sordina giustificato dal semplice assunto per cui: “tanto, è LeBron James”. Ma fra il darlo per scontato e l’assistere al suo compiersi c’è differenza, eccome. Fa la differenza quella possibilità che ora si concede di spingere sull’acceleratore più del previsto, conscio che da gennaio subentreranno giocatori come Thomas, pronti a reggere il fardello dell’attacco permettendo lui di rifiatare per i momenti più cruciali.
Fa la differenza quella lungimiranza e quell’umanità mostrata, alle volte ostentata, dentro e fuori dal parquet. Fa la differenza che questo è LeBron James, un giocatore che sta migliorando la perfezione, un giocatore potenzialmente candidabile al Most Valuable Player Award, al Most Improved Player Award, all’Nba Sportsmanship Award, al Defensive Player of the Year e anche Coach of the Year, se, quando dirige i time-out (perché dirige i time-out), indossasse giacca e cravatta anziché la canotta da gioco. Un giocatore insomma per cui, indipendentemente dal sentimento dominante, amore o odio che sia, non si può non provare rispetto e riconoscere come grande, grandissima fonte d’ispirazione in termini di etica del lavoro, di crescita personale e di autorevolezza.
Commento