The Godfather & The President
Tra gli addetti ai lavori quasi tutti gli tributano immediatamente numerosi onori, mentre tra i fan e nelle classifiche sui migliori-di-qualcosa, tutti ma proprio tutti sembrano scordarsi di lui. Sin dal suo primo anno nella lega i riconoscimenti individuali non mancano: è tre volte matricola del mese ad Est e si guadagna l’ovvio inserimento nel primo quintetto All-Rookie. La prima stagione si chiude con un’incredibile partecipazione ai playoff che vede i suoi Hawks arrendersi solo a gara 7 contro la prima Boston dei Big Three, una squadra che a fine anno finirà a fumare il sigaro che spetta ai campioni NBA.
Una serie sporchissima, senza la quale Boston non avrebbe mai potuto testare la tenuta dei propri nervi.
E’ l’inizio di una parentesi piuttosto dolce per il basket ad Atlanta, città che vive, mangia e dorme esclusivamente per il football. Il capo è, ovviamente, Joe Johnson ma Horford è il perfetto equilibratore di una squadra composta di giocatori di culto e teste calde. Solo per darvi un’idea: il giocatore più vincente di quel team, che non mancherà mai l’appuntamento ai playoff pur giocando un basket tutt’altro che divertente, è attualmente Zaza Pachulia. Ma sono passati anche autentici UFO cestistici come Flip Murray, Acie Law e Mario West. E vogliamo parlare delle star di quegli Hawks? Un Mike Bibby non più freschissimo e Josh Smith che, con Horford accanto, dava la netta impressione di poter essere un talento d’élite sulle due metà campo. Se per caso vi state chiedendo se sia lo stesso J Smoove che ha fallito tutte le esperienze fuori dalla Georgia nell’ultimo lustro, la risposta è affermativa. C’è poco da fare, riguardando adesso quella squadra appare evidente come Horford fosse riuscito a nascondere grossa parte dei propri meriti anche a chi lo riconosceva come la pietra angolare di quegli Hawks. Non è proprio un caso che, per la sua capacità di agire nell’ombra, grazie al suo carisma discreto e alla sua leadership silenziosa, si sia guadagnato il soprannome The Godfather.
Il suo anno migliore tra quelli trascorsi in Georgia è, senza dubbio, il 2011: arriva la seconda convocazione per l’All Star Game, sposa l’ex miss Universo Amelia Vega e si prende il bronzo, con la sua nazionale, all’Americas Cup 2011.
Già, perché per Al il legame con la sua terra è fondamentale. A sottolinearlo arrivano, infatti, le parole dell’allenatore di quella spedizione terminata con il terzo posto, John Calipari: “Se Al dovesse correre alla carica di presidente nel suo paese, state certi che vincerebbe”.
Il centro dell’energia
La possibilità di competere realmente è anche, probabilmente, la ragione principale per cui nell’estate 2016 Horford lascia gli Hawks e rinuncia a circa 23 milioni di dollari per andare a Boston. I Celtics sono storicamente la squadra dei grandi-giocatori-di-squadra e lui è il team player perfetto. Horford è il primo All Star a firmare per Boston da free agent da lustri: Brad Stevens e Danny Ainge lo hanno identificato come l’uomo ideale per integrare il sistema fluido ed in continua trasformazione di Brad Stevens. Nel bel mezzo di un progetto in cui il board di Boston non ha avuto paura di rinunciare a tutti quei giocatori (anche estremamente amati) di cui la dirigenza non fosse fermamente convinta, Horford si è guadagnato il contratto più oneroso. Il più convinto di tutti sembra proprio Brad Stevens che si lascia spesso andare ad attestati di stima nei suoi confronti: “Avere nella tua squadra Horford che segna 15 punti di media è come avere un qualsiasi altro giocatore che ne mette 27 ogni sera”
E l’ammirazione di Stevens nei suoi confronti non si limita alle sole dichiarazioni. Nei C’s di quest’anno, capaci di raggiungere le trenta vittorie stagionali prima della fine del 2017, Horford ricopre un ruolo chiave pur essendo solo il quarto miglior realizzatore della squadra. Ma, ancora una volta, sembra che quasi nessuno riesca ad accorgersene. In una Boston immediatamente orfana di Gordon Hayward, l’ex coach di Butler ha dovuto lavorare sull’alchimia giusta per sopperire ad una simile assenza. Ancora una volta Al Horford è stato la risposta migliore a numerosi problemi: grazie alle sue possibili trasformazioni tecniche, Stevens non ha avuto paura di riportarlo, almeno nominalmente, all’antico ruolo di Power Forward, assegnandogli numerosi compiti di costruzione del gioco e schierando al suo fianco in quintetto Aron Baynes che è diventato una delle chiavi difensive di Boston.
Ecco un esempio di come Horford migliori l’intero contesto in cui si immerge: la sua intelligenza gli permette di portare l’aiuto con l’angolo giusto, in modo tale da accompagnare Johnson e favorire la stoppata di Baynes.
In fin dei conti, forse, sarebbe corretto ammettere che la sua vera forza negli anni è stata quella di sopperire sempre alle necessità della sua squadra, evolvendo di anno in anno al fine di riuscirci. Pensateci: entrato nella lega era un giocatore completamente diverso da quello che è ora. Volta per volta ha implementato nella propria faretra le armi che lo hanno reso la miglior silent star della lega e la fortuna dei propri coach: il jumper dai 5 metri per regalare punti nelle pieghe della partita negli attacchi asfittici di Mike Woodson e Larry Drew nei primi anni di Atlanta, il tiro da tre punti per l’ariosa qualità del gioco di Mike Budenholzer, le doti da point-center per la felicità di Brad Stevens. Il tutto senza far mai realmente capire se preferisca giocare centro o ala forte.
In questo tributo si possono osservare, anche se mescolate nel montaggio, le numerose facce di Al Horford nella sua esperienza ad Atlanta.
Se per caso avete notato un complessivo miglioramento nella gestione dei possessi di Kyrie Irving, che spesso chiude le partite in crescendo e non è costretto a giocare un numero spropositato di minuti, potete ricercare i meriti proprio nel duo Horford-Stevens. Al è in grado di tamponare perfettamente i minuti in cui Irving non è in campo, fungendo da autentico centro dell’energia dell’attacco di Boston anche in quintetti totalmente sprovvisti di playmaker. Non è un caso che spesso sia in campo nei quintetti “da battaglia” di Stevens, quelli in cui ci sono contemporaneamente Smart e Rozier. Horford è il secondo giocatore di Boston per tocchi nella metà campo offensiva (67), neanche così lontano da Irving (74.9). Investito di una tale mole di possessi, ha potuto mettere in mostra tutta la sua immensa capacità nel passare il pallone: i suoi 5.2 assist a gara costituiscono il suo career high, esattamente come la sua assist% del 26.3%. La sua generosità in campo si declina, inoltre, in più modi: pensate, ad esempio, alla sua USAGE% pari ad un irrisorio 18.5, un numero impensabile per un giocatore di simile talento. Grazie alla sua conoscenza enciclopedica del gioco è sempre in grado di creare un vantaggio per i compagni. Horford è un sapiente conoscitore dei tempi e degli angoli con cui portare un blocco od effettuare un hand-off e questo gli permette di essere nella top 20 della lega per screen assist a partita (3.1), una di quelle statistiche non appariscenti ma che contano sempre di più nella pallacanestro moderna.
Conoscenza del gioco e lavoro sporco ne abbiamo?
Ma non è finita qui: se vi stupisce la nuova maturità di Irving, capace di far registrare un’ Ast/Ratio più che buona (2.10), resterete sbalorditi nello scoprire che il miglior giocatore di Boston in questo comparto statistico è proprio Horford, con una ratio di 2.6, pari a quella di Kyle Lowry (!!!) che è universalmente riconosciuto come uno dei migliori playmaker della lega. Allora, chi è il vero playmaker del team?
Incastonato perfettamente nel ruolo di apparente numero due della gerarchia dei Celtics, Horford sta riuscendo a sparire ancora una volta ai nostri occhi, in entrambe le metà campo. Anche in difesa, lì dove è l’intera orchestra di Stephens a rubare la scena, proponendo cinque giocatori nella top 15 ed addirittura ben quattro nella top 10 per defensive rating, Horford produce un ottimo 101 di DefRtg e dà sempre la sensazione di sapere come portare un aiuto. Il tutto senza aver mai neanche scavallato le 1.5 stoppate in carriera e con un atletismo ampiamente sotto media. Insomma, ormai lo avete capito: no Horford, no party per Boston.
Non è importante solo quanto si stoppa, ma anche quando si stoppa.
Cosa gli manca realmente per diventare un Hall of Famer legittimo? La risposta la conoscete: un titolo. Senza l’infortunio di Gordon Hayward, forse, i bianco-verdi avrebbero avuto una chance migliore di arrivare almeno in finale ma nella NBA dei super team non esistono molti posti migliori della Boston dei prossimi anni per provare a raggiungere l’agognito anello. E se mai i Celtics dovessero riuscirci, in quanti saranno pronti a tessere le lodi del silenzioso, straordinario Al?