Con un record di 14-32 a poco più di metà regular season, gli Orlando Magic giacciono sul fondo della Eastern Conference, solo gli Atlanta Hawks sono messi leggermente peggio. Nonostante qualche recente miglioramento, che ha portato prima alla soddisfacente vittoria su Minnesota, poi a sfiorare il colpo a Cleveland (104-103, con Elfrid Payton che fallisce il drive della vittoria) e infine a un successo sorprendentemente facile sul parquet incrociato di Boston, la frustrazione resta elevata dalle parti della Florida centrale. Anche se non tutto è perduto e giusto un anno fa quelli di South Beach rimontarono una classifica impossibile, Orlando, con tutta probabilità, mancherà i Playoff per la sesta stagione consecutiva, le Finals del 2009 sono ormai mitologia e la situazione attuale dovrebbe aprire già adesso le porte, ancora una volta, a un rebuilding che possa dare un minimo di identità e di futuro alla franchigia destinata a compiere nel 2019 trent’anni di vita.
Calma Afflalo, la stagione è lunga… o no?
Almeno fino ai sussulti di cui sopra, è difficile trovare qualcosa di meno performante di quanto abbiano fatto i Magic nel corso di questa stagione. Dopo un eccitante avvio da 8-4 contraddistinto dagli scalpi eccellenti di Cavs e Spurs e da una gagliarda percentuale al tiro da tre, il più classico dei fuochi di paglia ha lasciato il posto a un abissale 6-28, con scarti talvolta pesanti, come il -27 di Washington poco prima di Natale. Se si dà un’occhiata alle statistiche, i Magic sono ventiquattresimi in NBA per Offensive Rating (103,5), percentuale da tre punti (35,1%) e percentuale di rimbalzi in attacco (20,3%) , ventisettesimi per Defensive Rating (108,5), ventinovesimi per percentuale di rimbalzi totali (47,7%) e di rimbalzi in difesa (75,3%). Eppure i Magic una struttura di squadra decente ce l’avrebbero pure.
Oops…
I problemi, semmai, stanno a monte e hanno origine da una franchigia che negli ultimi anni non ha fatto certo della chiarezza e della stabilità i suoi cardini, tuttora posseduta dal novantaduenne Richard DeVos, “Mr. Amway”, discusso patriarca di una famiglia conservatrice fino al midollo. I Magic sono passati in tempi recenti attraverso parecchie rivoluzioni, presentandosi infine nella scorsa estate con un nuovo front office composto da Jeff Weltman in qualità di President of Basketball Operations (ex assistente di Masai Ujiri a Toronto) e John Hammond come General Manager (reduce dall’esperienza di Milwaukee) coadiuvato da Pete D’Alessandro, a lungo ai Kings, per vedere se con un po’ di raziocinio si potesse fare qualcosa di meglio del 29-53 con cui i Magic hanno chiuso la stagione 2016-17.
Dopo aver confermato coach Frank Vogel, forte del suo contratto da 22 milioni di dollari in quattro anni fattogli firmare dal licenziato GM Rob Hennigan che lo assunse al posto del dimissionario Scott Skiles (Hennigan è stato anche il fautore della trade che ha portato Oladipo a Oklahoma City per Serge Ibaka, a sua volta volato a Toronto), e aver mantenuto il nucleo base (Payton, Fournier, Ross, Augustin, Hezonja, Vucevic, Biyombo), rinforzandolo con il solido Jonathon Simmons da San Antonio, il management si trova ora nella situazione di gestire una squadra che non sta affatto rendendo quanto sperato in termini di vittorie e in cui la certezza maggiore resta Vogel, seppur non abbia ancora forgiato un’identità difensiva che visti i trascorsi ai Pacers dovrebbe essere il suo punto di forza. È arrivato il momento per mettere mano a una ricostruzione attraverso la quale i nuovi dirigenti vogliano lasciare il proprio segno sui Magic?
Sulla stagione degli Orlando Magic, inoltre, pende una grossa attenuante: gli infortuni. Terrence Ross, anche se non ha brillato, è fuori per la stagione con una frattura alla tibia e lo stiramento del legamento crociato mediale, mentre Nikola Vucevic, autore di ottime prestazioni individuali tra cui un career-high da 41 punti nella sconfitta con i Nets di ottobre, è fuori dalla vigilia di Natale per un infortunio alla mano sinistra, aspetto che ha costretto Vogel a schierare come “5” titolare un centro eminentemente interno e difensivo quale Bismack Biyombo al posto dei 17,4 punti e del 53,9% di effettiva percentuale dal campo con range di tiro infinitamente maggiore garantiti da Vucevic, preziosissimo nello spaziare il campo e mai come quest’anno incline al tiro da tre. Altri problemi (alla caviglia) ne ha avuti il rookie Jonathan Isaac, l’ala da Florida State per cui i Magic hanno speso la sesta scelta assoluta e che è fermo da novembre e che non ancora ha potuto dimostrare granché. Elfrid Payton, nonostante il suo approccio a prima vista molto soft, sta in realtà disputando la sua migliore stagione da quando è arrivato ai Magic nello scambio di Draft che ha girato Dario Saric ai Sixers: e pure lui ha dovuto saltare una decina di partite nella fase iniziale. Così come Evan Fournier, offensivamente cresciuto anno dopo anno, costretto a saltare buona parte delle gare di dicembre.
Un pochino di Jonathan Isaac
Gli scarsi risultati di squadra, uniti alla buona stagione che al di là di tutto alcuni elementi stanno disputando a livello individuale, potrebbero indurre molto presto il front office a mettere sul mercato alcuni dei pezzi migliori di questi Magic, per dare una scossa definitiva alla situazione e rivitalizzare la flessibilità salariale. Su tutti, i titolari del back court. Elfrid Payton, seppur privo di una dimensione al tiro da tre punti, ancora lento e con scarsa attitudine difensiva, viaggia al 65% nelle conclusioni al ferro e sta collezionando le migliori cifre dei suoi quattro anni ai Magic in termini di punti (12,9) e assist (6,5), che però non si discostano nettamente da quelle degli anni passati (va un po’ meglio la eFG% con 54,8 rispetto alla 49,3 della stagione scorsa) e in generale gli resta appiccicata addosso la fama di giocatore privo di fuoco agonistico, tanto che nei minuti in cui Vogel gli preferisce DJ Augustin la differenza di solidità e di verve agonistica è palese.
Evan Fournier ha da poco toccato il career-high di 32 punti contro Minnesota e sta tirando con un un bel 39,5% da tre, viaggiando a 17,9 punti segnati. Fournier, con le sue qualità dall’arco, sarebbe perfetto come integrazione in una squadra da playoff o da titolo. E anche la solidità di Simmons e di Vucevic, grazie a contratti piuttosto gestibili, farebbe comodo a molte squadre. Se ne andrà sicuramente Mario Hezonja, il “3” croato scelto al Draft 2015 e che al terzo anno non ha ancora dato avvisaglie di esplosione rispetto alle aspettative e veleggia ancora con un mesto 31,7% da tre con 7,1 punti di media in 17,5 minuti a serata: i Magic hanno esercitato la team option sul quarto anno di contratto e quindi se ne andrà comunque a fine stagione, quindi perché non ricavarci qualcosa?
Un discorso a parte va fatto per Aaron Gordon, perché è attorno a ciò che si vuol fare di lui che ruotano i destini prossimi dei Magic. Gordon è il “4” naturale di questa squadra, visto che l’esperimento da “3” durante la scorsa stagione non è esattamente riuscito. Un ala grande che si cala perfettamente nelle attuali concezioni di basket, in grado di giocare sul perimetro e anche di portare palla, costituendo una minaccia totale – esterna e interna – con il suo atletismo e adesso anche con il tiro da fuori. La chiave di tutto è il duro lavoro grazie a cui fa ora molto più ricorso alla conclusione da tre punti: in questa stagione realizza dall’arco con il 45,5%, più o meno come prima, però con 5,9 tentativi rispetto ai 3,3 di un anno fa. Un cambiamento subito evidenziato nel 5/5 da tre all’interno dei 41 punti e 14 rimbalzi nella vittoria sui Nets di fine ottobre. A tutto questo si aggiunge la sua attitudine difensiva e il carisma che lo contraddistingue.
Così come Elfryd Payton, non avendo concluso entro la deadline del 18 ottobre l’accordo per estendere di un anno tramite la qualifying offer il quadriennale contratto da rookie, anche Gordon dal 1° luglio 2018 sarà restricted free agent e i Magic dovranno affrontare una decisione importante: privarsi di lui o trasformarlo definitivamente nel volto della franchigia attraverso un rinnovo che giocoforza conterrà cifre molto più alte dell’attuale accordo.
In fin dei conti, ormai svanita l’ambizione Playoff (salvo cataclismi), probabilmente la strada da seguire per gli Orlando Magic è quella di cercare occasioni di trade entro l’8 febbraio, piazzando altrove i migliori asset a disposizione per riguadagnare flessibilità salariale (se per caso ci riuscissero con il contrattone di Biyombo sarebbero dei maghi) e confidare in una buona lottery per proseguire nella pesca di elementi di valore al Draft. E cercando di salvaguardare Gordon, puntando su di lui come uomo franchigia.
Ma più in generale, quel che è indispensabile è un ripensamento totale della mentalità degli Orlando Magic, lontana anni luce dai concetti più funzionali che guidano i migliori team della NBA. E al giorno d’oggi offrire il clima della Florida, l’eleganza della divisa pinstriped o persino lo sponsor di maglia Disney non è più sufficiente: se si vuole attirare qualche free agent di lusso, desideroso di vincere qui un titolo per la prima volta o di rigenerarsi in un nuovo scenario come ad esempio ha fatto Irving salutando i Cavs per approdare a Boston, serve ben altro.