Copertina realizzata da Batmattz, uno piuttosto bravo.
Qual è il primo giornalista italiano a cui pensate quando cercate un’opinione sportiva al contempo pacata e autorevole, risoluta e brillante, equilibrata e mai banale?
Io, personalmente, penso immediatamente a Paolo Condò, storica penna della Gazzetta dello Sport, dal 2015 a Sky. Oltre ad essere l’unico membro italiano all’interno della giuria che annualmente assegna il Pallone d’Oro, Paolo è una di quelle voci eccellenti che hanno lasciato un segno indelebile nell’ambito del giornalismo sportivo italiano, grazie ad una carriera vissuta tra i rettangoli di gioco della nostra Serie A e, più di recente, dinnanzi alle telecamere di quei programmi televisivi che contribuiscono a formare — ed informare — l’opinione comune degli appassionati calcistici italiani.
Malgrado un’intera carriera lavorativa dedicata al calcio, però, Paolo Condò coltiva anche una passione viscerale per il basket americano. Il suo essere un triestino doc si declina anche attraverso l’amore per la pallacanestro e lui, fedele seguace del basket d’oltre-Oceano, non perde occasione per parlare di NBA, spesso prendendola come modello di riferimento per paragoni con il calcio italiano ed europeo. Se il quadro fin qui delineato non vi sembra sufficiente giustificare un’intervista con una penna di simile spessore, lasciate che vi mostri la coppia di tweet che ci hanno fatto capire realmente fino a che punto si spinga la sua NBA-addiction.
“Allora, come va? Isaiah Thomas stanotte ha fatto 12 punti, poca roba. Mi aspetto molto di più da lui. É stata la mia grande pensata di quest’anno: prenderlo al quarto-quinto giro del Draft del mio fantabasket, tenendo la squadra in linea di galleggiamento fino a gennaio e cercando di dare lo strappo decisivo nel momento del suo ritorno. Al momento, invece, la mia squadra è peggiorata da quando IT è tornato”
Queste le prime parole che mi ha rivolto, immediatamente dopo le nostre presentazioni. Poi, però, ha subito messo in chiaro che:
“Quando si tratta di parlare di basket NBA sono sempre disponibile. Seguo soltanto la pallacanestro americana e un po’, ovviamente, l’Alma Trieste che mi auguro torni in serie A. Tieni presenti due cose: innanzitutto io ero un giocatore di basket al liceo, lo preferivo al calcio contrariamente a quanto si potrebbe pensare. E poi, agli inizi della mia carriera lavorativa, al Piccolo di Trieste, seguivo — oltre al calcio dilettantistico — la pallacanestro. In quegli anni la squadra della città si chiamava Hurlingham e c’era un giovane talento molto forte, che infatti è stato ceduto e ha fatto una discreta carriera, che era Alberto Tonut, il padre di Stefano, attualmente in forza a Venezia.”
Viste le premesse, non potevo che aspettarmi una lunga, interessantissima, conversazione sulla pallacanestro NBA e le aspettative non sono andate deluse.
Jacopo Gramegna: Come è arrivato Paolo Condò a conoscere la NBA? C’è stata una partita che ti ha fatto particolarmente innamorare?
Paolo Condò: Credo che la prima televisione in grado di trasmettere la NBA quando ero ragazzino fosse TeleMonteCarlo, quelle sono state le mie prime esperienze visive. Però ho anche due favolosi precedenti, risalenti a quando seguivo la nazionale italiana di calcio. La prima risale al 1992, quando gli Azzurri andarono a giocare negli USA un torneo preparatorio ai mondiali del ’94. L’ultima delle tre partite di quel torneo si disputò a Chicago. Arrivo a Chicago e vedo su tutti i cartelli “Stasera Chicago-Portland, Finale NBA”. A quel punto impazzisco, mi dico che devo assolutamente entrare a palazzo. A quel punto chiamo Luca Chiabotti, che era il nostro esperto di basket in Gazzetta, che mi diede il numero di Barbara Bottini, che ai tempi lavorava a stretto contatto con David Stern. Le spiego la situazione e lei, gentilissima, ci fa avere in diretta gli accrediti per la Finale NBA. E quindi ho visto dal vivo i Bulls Jordan, Pippen, Grant, Paxton e Grant, mentre dall’altra parte c’era Clyde ‘The Glide’. Due anni dopo sono stato ancor più fortunato: a USA ’94 l’Italia aveva il ritiro in New Jersey, ad un’ora da New York, e la finale era Knicks-Rockets. A quel punto, avendo conservato il numero, chiamo immediatamente Barbara e lei fa entrare me, Billy Costacurta e Mauro Tassotti, grandissimi fan NBA. Mancava una settimana all’inizio del torneo, quindi erano liberi, e mi hanno chiesto di trovar loro un accredito. Con loro, dunque, ho visto un duello tra la New York di Ewing e Starks e la Houston di Olajuwon, Cassell e del già decisivo ma giovanissimo Horry. Il mio approccio dal vivo alla NBA è stato questo. Due finali: non potevano esserci un impatto migliore.
JG: Visto l’approccio così forte con il mondo NBA dal vivo, qual è stato il giocatore che ha stimolato maggiormente il tuo immaginario?
Condò: Aver avuto il privilegio di vedere Michael Jordan dal vivo non è cosa da poco, è facile citare lui. Poi, qualche mese dopo, a Barcellona ’92 ho visto USA-Croazia, ho ammirato il Dream Team originale. Fu un grandissimo spettacolo, la partita più bella del torneo. Anni dopo ho anche visto LeBron James dal vivo, era abbastanza giovane, ancora alla sua prima esperienza coi Cavs.
Tra i giocatori che non ho ammitato dal vivo ma che mi hanno sempre fatto impazzire, è impossibile non citare Allen Iverson. Quando posso guardo le Finali NBA in diretta: ciò che ha fatto lui in gara 1 del 2001 contro i Lakers a Los Angeles, quel canestro in step-back, il momento in cui calpestò Tyronn Lue, sono per me momenti commoventi, favolosi.
Quest’anno, invece, la mia squadra di fantabasket è guidata da James Harden, che è proprio un giocatore totale: la sua facilità di basket è fantastica. Io credo che resterà nella storia il fatto che OKC abbia avuto Westbrook, Durant e Harden e non abbia vinto nulla. Avere la possibilità di avere Harden leader della seconda unità è una cosa che non capita sempre, lui era già forte all’epoca.
JG: Dal punto di vista di un insider calcistico, qual è stata la tua impressione sullo sviluppo nel nostro paese di un mondo per certi versi antitetico come quello della NBA?
Condò: Nell’NBA c’è un atletismo dominante, quindi quando sono i giocatori particolarmente tecnici, come Curry, a prendere il proscenio, è sempre una festa per i fan. É un po’ la stessa cosa che avveniva con i “nanetti” del Barcellona di Guardiola contro i super atleti del calcio moderno. L’atletismo in NBA è un qualcosa di indescrivibile. Io sono più sconvolto da Antetokounmpo che da Mike Tyson. La fisicità e l’elasticità di personaggi del genere non hanno nessun paragone: penso al modo in cui LeBron entra a difesa schierata e sembra Mosè con le acque del Mar Rosso. C’è forza, potenza, rapidità, occhio: c’è tutto ed il suo contrario. Io, poi, da vecchio tiratore naturale, apprezzo chi riesce a portar via 20-30 punti da fuori, segnandoli in faccia a questi miracoli atletici.
JG: Sempre restando nell’ambito dei paragoni calcistici, tanto nel calcio quanto nel basket stiamo assistendo ad un mutamento sempre più positionless e di gioco totale. Che paragone ti senti di fare tra i due sviluppi di questi sport?
Condò: La grande differenza tra il calcio e la pallacanestro è sempre stata una: nel basket devi attaccare e difendere, mentre nel calcio di una volta i difensori difendevano, gli attaccanti attaccavano e i centrocampisti facevano entrambe le fasi. Ora magari a Ronaldo e Messi non chiedi grandi ripiegamenti, ma sono dei casi rarissimi: ce lo dicono sempre gli allenatori, adesso la difesa comincia proprio con il pressing orientato dagli attaccanti sull’uscita del pallone. Questa è la grande novità, che rende il calcio molto più simile al basket.
JG: Per quanto riguarda, nello specifico, lo sviluppo della pallacanestro: cosa pensi dell’evoluzione del basket moderno? L’uso sovrabbondante di tiro da tre punti sta raccogliendo pochi consensi tra i “nostalgici” ma a noi sembra di star assistendo ad un momento nevralgico nella storia del gioco.
Condò: Io non sono un nostalgico. Per principio non dirò mai che lo sport di una volta è migliore dello sport di oggi. Siamo in presenza di un’evoluzione. Al mondo c’è anche chi rimpiange le racchette di legno nel tennis. Secondo me, invece, l’innovazione porta sempre un miglioramento.
Ricordo quando in Gazzetta cronometrammo il tempo a disposizione di un giocatore prima che un avversario gli saltasse addosso: Pelè aveva 4 secondi di tempo prima che qualcuno lo marcasse. Nel corso degli anni il tempo a disposizione dei giocatori, poi, si è ridotto: Maradona aveva immediatamente l’uomo addosso, quindi doveva già sapere cosa fare. Quando ci si pone la classica domanda su chi sia il giocatore più forte di sempre bisognerebbe parametrare il tutto in relazione ai vari momenti storici in cui le loro carriere si sono sviluppate. Delle questioni di campo non sono mai stato nostalgico. Piuttosto sono nostalgico di questioni amministrative: secondo me il calcio più bello di tutti era quello con tre stranieri tutti di alto livello, che permetteva anche alla nostra nazionale di goderne i frutti. Allo stesso modo, il basket con due americani è quello che mi appartiene.
Una cosa che dico sempre scherzando e di cui sono profondamente convinto è che se ai miei tempi fosse esistito il tiro da tre non avreste mai sentito parlare del Condò giornalista, ma conoscereste il Condò cestista. Purtroppo sono così vecchio che, anche quando tiravo da centrocampo, valeva sempre due punti. E quindi neanche il mio tiro mortifero poteva nascondere le mie lacune difensive.
JG: Visto che hai parlato di “nostalgia amministrativa”, è impossibile non chiederti un giudizio su Adam Silver, capace di prendere le redini della Lega e di iniziare un percorso di riforma. Il tutto dopo un lunghissimo regno-Stern: nessuno si è realmente accorto di aver assistito ad un passaggio di consegne epocale.
Condò: Il mio giudizio su di lui è ottimo. Ho, però, la sensazione che la NBA sia un sistema che impedisce ai mediocri di prendere il potere: riesci ad andare a governarla solo se sei molto in gamba, al contrario di quanto avviene nel calcio italiano. Da noi il sistema sembra mirato ad escludere chi possa farsi portatore di novità. Da anni segnalo che un modo per risolvere molti dei nostri problemi sarebbe l’istituzione di un commissioner nella nostra Lega di Serie A.
Il commissioner NBA è stato capace di cacciare Donald Sterling — dopo quelle sue dichiarazioni animalesche — per questioni essenzialmente etiche. Da noi è impensabile: sarebbero certi presidenti a portar fuori il commissioner per le orecchie. Sono sistemi diversi. Da loro c’è un diverso rispetto per i soldi: hanno trovato un sistema, sicuramente ancora imperfetto e correggibile, che permette a tutti di avvertire come prima esigenza quella di fatturare. Stiamo parlando di un grandissimo show. Secondo me, per esempio, uno dei difetti è il numero dei match: giocano troppe partite. A volte la regular season assomiglia più ad un’esibizione degli Harlem Globetrotters che ad una sfida di basket come quelle che vediamo ai playoff. L’altro giorno ho visto Cleveland-Oklahoma City, hanno giocato in un modo vergognoso: non difendevano, sembrava l’All Star Game! Ecco, questo è inaccettabile, ma è uno dei pochi difetti.
In Italia spesso, più che rispettare i soldi, spesso si cerca il potere, a volte fine a sé stesso.
JG: Focalizziamoci, ora, su ciò che avviene in campo. Secondo molti l’attuale generazione di giocatori NBA è la migliore di sempre a livello di diffusione del talento. Ti senti di concordare?
Condò: In linea di massima concordo. Come detto, preferisco sempre la modernità al passato. I talenti sono tantissimi e continuano ad emergere: ho visto tante partite di Ben Simmons e mi ha entusiasmato, è un giocatore meraviglioso. Mi piace il Trust The Process, mi piace ciò che ha fatto Philadelphia nelle ultime stagioni. Adesso mi sembra che tutto cominci a quadrare: non mi sorprenderei di vederli già l’anno prossimo alle finali di Conference, hanno lavorato bene. In tutte le squadre, però, c’è almeno un giocatore che val la pena guardare. Ricordo quando vennero fondate le due franchigie canadesi, Toronto e Vancouver: erano un po’ poverelle. Anche Vincenzino Esposito finì a Toronto.
JG: A proposito di Ben Simmons, stiamo assistendo alla fioritura di una classe di rookie davvero di gran spessore: ci sono matricole che ti piacciono particolarmente?
Condò: Li ho visti poco. Lonzo Ball, ad esempio: ho avuto poco modo di assistere a sue partite. Mi piace molto Collins di Atlanta. Oh, mi stavo quasi scordando di Kuzma. Poi, ovviamente, Ben Simmons è favorito per il Rookie of the Year come Griffin nel 2011, avendo saltato la sua prima stagione di NBA. Però Kuzma mi ha impressionato perché non è stato scelto in alto. Sui rookie, purtroppo, sono sempre poco ferrato perché non seguo il basket collegiale. Qualche partita di calcio ogni tanto devo guardarla, sennò mi cacciano.
JG: Oltre ad assistere all’evoluzione generazionale della NBA, stiamo assistendo ad una rivoluzione nei metodi di lettura delle partite: quanto credi nelle Stats & Analytics?
Condò: I numeri prendono vita, si animano, quando chi li padroneggia ha la capacità di analizzarli e spiegarti ciò che vedi: questo avviene con determinati siti. Anche il giornalismo funziona esattamente come lo sport: man mano che si succedono le generazioni, i nuovi arrivati devono trovare qualcosa che era sconosciuto o sottostimato da chi li ha preceduti per imporre il loro modo di vedere le cose. Ti faccio un esempio: la mia generazione è stata la prima che si è presentata a lavorare padroneggiando l’inglese. Le generazioni precedenti si limitavano ad un uso molto “maccheronico” delle lingue straniere. Questo, poi, ha portato i giornalisti della mia generazione anche a leggere i giornali esteri, cosa che prima nessuno faceva. Io adesso leggo, o almeno scorro, diversi giornali in tre lingue: inglese, francese e spagnolo. Lo faccio sia per sapere cosa succede al di fuori del nostro paese che per seguire una serie di giornalisti che mi piacciono molto e che mi forniscono sempre un punto di vista molto interessante, che va a comporre la mia opinione sulle cose. Allo stesso modo, nella mia generazione le statistiche erano parte del mondo del basket ma non del calcio: si è sempre pensato che, visto il grande numero di realizzazioni che caratterizzano il basket, questo si prestasse maggiormente alla creazione di un modello matematico credibile che partisse dalle cifre raccolte in un singolo incontro. Nel calcio, invece, è tutt’altro che infrequente una situazione in cui una squadra domina la partita, non riesce a segnare, e subisce il goal della sconfitta nell’unica occasione in cui la squadra avversaria si affaccia nella propria metà campo. Questo si è sempre opposto alla possibilità di analizzare il calcio. I modelli statistici più moderni, invece, permettono l’analisi dei campionati più che delle singole partite. Se su base stagionale una squadra produce il doppio degli Expected Goals rispetto alle altre, potrà perdere qualche partita ma alla lunga vincerà il campionato. Questo approccio, però, non è sicuramente quello della mia generazione. Io, poi, pur essendo parte della “vecchia generazione”, sono sempre molto sensibile alle novità: probabilmente sono uno dei pochi giornalisti “vecchi” ad aver scoperto L’Ultimo Uomo. L’ho trovato subito estremamente interessante anche dal punto di vista del mio lavoro. Adesso che finalmente, dopo tanti anni, ho smesso di andare in giro nei panni di cronista per dedicarmi al ruolo di analista, sono tenuto a commentare le cose che accadono: per andare a formare la mia opinione, che poi traduco in commento, i siti di questo genere sono molto utili.
JG: Penso che il padre putativo di tutti i siti come i nostri sia Grantland, una rivoluzione in piena regola.
Condò: Grantland ha cambiato molte cose. Ma se interrogassi i giornalisti della mia generazione, scopriresti che forse ce ne sono due su dieci capaci di dirti cosa fosse. Fatalmente, poi, arriva il momento in cui si tirano i remi in barca e ci si dice “ciò che ho imparato è sufficiente, basta così”: quello è l’inizio della fine. Tieni anche presente che è possibile vedere comodamente dal divano di casa tua tutte le partite del mondo da meno di 15 anni. Prima non era così. Certe cose puoi farle solo quando hai una visione globale e continua della situazione.
JG: Tornando a focalizzarci sull’attuale quadro NBA: qual è il tuo giocatore preferito tra quelli in attività?
Condò: Al momento non c’è un solo giocatore che piace. Ti dicevo, ad esempio, Simmons e Harden. Mi piacciono molto le combinazioni: mi piace come Kerr riesca a far giocare l’uno per l’altro quattro All-Star. Per il mio passato di tiratore non posso che adorare uno come Klay Thompson: ha una meccanica di tiro meravigliosa. Tra i giocatori che, invece, non apprezzo perché simili a come giocavo io, dico Embiid; non sono mai stato un rimbalzista ma lui mi piace molto. Poi, ovviamente, LeBron e Durant non possono non piacere. Sono, invece, molto curioso di vedere l’interazione tra Chris Paul e Harden: ho avuto ancora poco modo di vederli insieme ma è una combinazione interessante. Poi ho una venerazione per Popovich e per il modo in cui riesce a far evolvere San Antonio pur perdendo i suoi campioni. Inoltre, Ettore Messina è un amico e non posso che sperare che le sue squadre vadano forte. Un’altra cosa che mi piace sono le squadre che vengono fuori dal nulla: quest’anno non c’è nessuna outsider al vertice, come lo è stata Atlanta due stagioni fa.
JG: Eppure mi aspettavo di trovare Isaiah Thomas in questa lista, tanto per motivi tecnici quanto per motivi di coinvolgimento emotivo.
Condò: Già, il coinvolgimento. Questa è una cosa che, per adesso, non riesco a vedere in lui quest’anno. A Boston era molto coinvolgente. Quest’anno deve ancora raggiungere l’apice della forma, però deve anche riuscire a combinarsi molto bene con LeBron. Poco fa leggevo un pezzo molto interessante in cui si diceva che lui e Kevin Love difficilmente possono coesistere nello stesso quintetto nei momenti decisivi, a causa della loro dimensione “tutto attacco e niente difesa”.
JG: Nella scorsa stagione, però, è stato definito da Federico Buffa “l’MVP romantico” della lega, credo che pure Condò possa condividere. Per quanto riguarda,invece, l’MVP di quest’anno: chi è il tuo favorito?
Condò: Secondo me, il Thomas dello scorso anno è stato quanto di più simile ad Iverson si sia visto su un campo da basket sin dai tempi del ritiro di The Answer. Fin qui, quest’anno, mi è piaciuto molto Harden: tifo molto per lui visto che è il leader della mia squadra di fantabasket ma fino all’infortunio aveva giocato ad un altro livello. Stava giocando alla grandissima anche il povero Cousins.
JG: In uno dei nostri pezzi, in effetti, abbiamo sottolineato come DMC stesse tenendo delle medie da primo quintetto All-NBA. Cosa deve fare New Orleans ora, anche tenuto conto dell’imminente scadenza di contratto di Cousins?
Condò: Beh, innanzitutto bisogna capire sono le chance effettive di recupero di Cousins. Io non credo esista un altro lungo raggiungibile nel corso della prossima free-agency per riproporre un sistema con le Twin Towers, dunque forse potrebbero decidere di sistema di gioco. Vista la versatilità di Anthony Davis, potremmo assistere ad un futuro in cui The Brow giocherà nuovamente da 5. Magari faranno un tentativo di muoversi sul mercato per firmare una shooting-guard tra i free agents. Per me l’asse portante di un team è sempre quello tra guardia tiratrice e centro: pensa a Kobe e Shaq.
JG: Dopo il pronostico sull’MVP non può mancare il pronostico sulle Finals.
Condò: Se non succede niente di strano Golden State vincerà ancora per tre anni di fila. Un difetto di questa lunghissima regular season è quello di non fornirti metri di paragone su ciò che potrebbe accadere ai playoff. Io sono molto curioso di vedere Houston contro Golden State: i Rockets ne hanno vinte due su tre quest’anno. Capela ha fatto grossi passi avanti che possono dare a Houston una dimensione che Golden State non ha: sotto canestro la squadra di Mike D’Antoni può essere più forte.
Fondamentalmente Houston è una squadra di tiratori: Anderson, Gordon, Ariza, tutti giocatori che non hanno la profondità tecnica di Durant o Klay Thompson. Ma se raddoppi Harden o Paul, liberi automaticamente un assassino. Questo, sommato alla superiorità sotto canestro di Capela, può regalarci una finale di Conference nella quale Golden State è favorita ma non così tanto. Per me sono queste due le migliori squadre della lega: la vera Finale NBA sarà la finale di Conference a Ovest. Questo dipende anche dal fatto che Cleveland ha la possibilità di muoversi, di fare delle cose: ad esempio scambiando Love con un centro dal maggior impatto difensivo magari torna competitiva. Poi Toronto è una bella squadra e Miami è in crescita continua ma non vedo ad Est una squadra più competitiva di Houston, capace di andar a far la guerra con Golden State.
JG: Quindi sei dell’opinione che il vincitore dell’ Ovest poi vincerà il titolo. Certo che, eventualmente, LeBron James in finale va sempre battuto e non è impresa da poco.
Condò: Certamente, LeBron James da solo passa due turni di Playoff. Cleveland, però, deve trovare una chimica. Oppure, come dice il mio amico Flavio Tranquillo, deve trovare un allenatore. Probabilmente Tyronn Lue è un passacarte di LeBron. Con un allenatore magari, perderebbero comunque ma almeno cambierebbero un po’ di cose. Ad esempio, quando è in campo Thomas, JR Smith mi sembra un po’ “pleonastico” all’interno dello stesso quintetto, magari ci metti un giocatore diverso e più funzionale. Loro, secondo me, hanno bisogno di un lungo, uno alla DeAndre Jordan, di cui per altro si parlava in ottica mercato. A proposito di notizie dal mondo NBA, sai darmi qualche notizia su Gallinari? Ce l’ho, infortunato, al fantabasket. Dopo un mese di silenzio mi è arrivata la notizia che lo vedrebbe in grado di allenarsi.
JG: Da ciò che sappiamo, non è ancora il momento del rientro. Di certo non è mai stato fortunato. Inoltre, in Italia è stato spesso criticato a prescindere senza un vero motivo. Qual è la ragione che spinge determinati individui a criticare a priori il maggior esponente, insieme a Messina e Belinelli, di un movimento sportivo? É indubbio che abbia sbagliato in determinate situazioni, però non mi sembra un atleta dal profilo così negativo.
Condò: Ma questo è sempre successo: è il risvolto negativo della popolarità. Quando raggiungi un determinato livello di popolarità è inevitabile. Pensa all’enorme quantità di gente che odia sportivi incredibili come Valentino Rossi e Federica Pellegrini. I mediocri odiano quelli che ce l’hanno fatta.
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