E invece i Pistons?
Facciamo mente locale.
Stan Van Gundy non è solo l’allenatore dei Detroit Pistons, ma è anche il President of Basketball Operations della squadra. In parole povere, tutto quel che succede nel mondo Pistons, positivo o negativo che sia, è imputabile (e imputato) a lui.
Ora, come vi sentireste se allenando e dirigendo una squadra che negli ultimi 8 anni si è qualificata ai Playoffs una sola volta, per altro uscendo 4-0 al primo turno, dopo un buon inizio di stagione a febbraio vi trovaste al nono posto della Eastern Conference (che non mi stancherò mai di ripetere, È LA MENO COMPETITIVA TRA LE DUE), a due partite e mezzo di distanza dai 76ers ottavi? Ecco, forse un ragionamento del genere è da considerare nel giudizio dell’operato di Van Gundy nelle ultime 24 ore.
“Aspetta, ma i Pistons hanno preso una superstar, e hanno tenuto sia Drummond che Reggie Jackson! Non c’è bisogno di giustificare Van Gundy, è stato bravo!”
Sicuri?
Detroit ad inizio stagione sembrava aver finalmente trovato la quadra, i giocatori avevano assimilato i dettami tattici dell’ex coach dei Magic e il record sorrideva, vedendo la squadra in lotta per le prime posizioni ad Est. Poi qualcosa si rompe, Reggie Jackson si infortuna e cominciano a piovere sconfitte, Drummond continua a tenere livelli da All-Star ma le soluzioni interne scarseggiano.
Van Gundy è obbligato a fare una mossa per portare la squadra ai Playoffs, non un cambio di quintetto o un aggiustamento tattico, ma un qualcosa che scuota tutto l’ambiente e porti nuovo entusiasmo a Mo-Town. Ed ecco che un lunedì sera di fine Gennaio arriva un 5 volte All-Star, sicuramente tra i migliori 20 giocatori della lega, superstar a tutti gli effetti e pioniere tra le point forward degli ultimi anni.
Ok, proviamo a ripetere il tutto dal punto di vista razionale della situazione: ed ecco che un lunedì sera di fine gennaio arriva una star 29enne in fase di semi-declino, che fa tantissimo affidamento sulla propria verticalità e che proprio sotto quell’aspetto è in fase calante (Griffin sta schiacciando sempre di meno, e le sue percentuali al ferro scendono di anno in anno), che da 3-4 anni salta almeno una ventina di partite di regular season, a volte intere serie di Playoffs, e a cui da qui al 2022 andranno versati 171 milioni di dollari. Nella lingua dei GM NBA, le ultime 4 righe e mezzo potrebbero essere state scritte da Edgar Allan Poe. Adesso il bisogno di giustificare Van Gundy per il suo arrivo sembra più logico e razionale, giusto?
Proprio per questo c’è infatti da considerare la necessità che Van Gundy stesso ha avuto nel cogliere l’occasione di prendersi Griffin, mossa che farà certamente piacere alla dirigenza (Detroit non è un mercato potente nella pop-culture americana, di star ne servono a bizzeffe), e che comunque andrà a rappresentare un buon upgrade tecnico rispetto alla situazione precedente.
Upgrade che porterà a cosa, esattamente?
E se Detroit alla fine avesse messo su soltanto una versione 2.0 ma più triste di Lob City, con Jackson nei panni di Chris Paul, Griffin in quelli di sé stesso (ma più vecchio e costoso), e Drummond in quelli di Jordan? Mettiamo che tutto questo basti a raggiungere l’obbiettivo stagionale, che i Pistons ricomincino a vincere e approfittino della gioventù dei Sixers per soffiar loro l’ottavo posto, o magari arrivare addirittura sesti/settimi. E poi? La squadra sarebbe in grado di eliminare gli eventuali Raptors/Cavs/Celtics al primo turno? Riuscirebbe quantomeno a dar loro battaglia e non uscire 4-0 o 4-1?
Personalmente credo di no.
E non avete pensato al povero Blake?
In realtà, dopo tutti i discorsi sul suo contratto appena conclusi, ‘Blake’ e ‘povero’ nella stessa frase ci stanno proprio male.
Ma visto e considerato che arrivato ad un certo livello dello sport professionistico la tranquillità economica diventa un’abitudine, può essere interessante andare ad analizzare quelle che sono le motivazioni che guidano le varie scelte di un atleta di questo calibro.
Per quanto riguarda il nostro caso specifico, Griffin è quel tipo di giocatore che, chiaramente, è sempre stato interessato a vincere; ma più volte, sopratutto ultimamente, ha dato prova di considerare molte cose anche oltre il basket fondamentali nelle decisioni che invece riguardano il basket. Un esempio, la scelta di farsi ricoprire d’oro da una franchigia che aveva appena perso il proprio miglior giocatore (CP3), e che impegnandosi a garantire a Griffin quel contratto stava palesemente ingolfando la propria situazione salariale.
Vincere cominciava dunque a passare in secondo piano, ma a Blake andava bene così, perchè la prospettiva di continuare a vivere in una capitale mondiale come Los Angeles per almeno altri 4 anni e mezzo lo attraeva, con la possibilità di entrare in contatto con tante attività anche lontane dal mondo della palla a spicchi. Ma pur sempre Blake Griffin ti chiami, e nel 2018 il tuo destino è legato a doppio filo a quello di un’intera franchigia, con migliaia di stakeholders e fan al proprio seguito, e non puoi pretendere che tutto rimanga pacifico e paradisiaco all’infinito se i risultati non arrivano.
La scorsa estate Griffin ha avuto la possibilità di lasciare i Clippers e far cominciare loro il processo di rebuilding. Persa quell’opportunità, ieri sono stati i Clippers a decidere per lui. Non fraintendetemi, la dirigenza ha fatto di tutto per trattenere BG32 la scorsa estate, mettendo su anche spettacolini di dubbio gusto in cui gli ritiravano il numero di maglia, ma dopo aver acceso la luce (e dato le redini a Jerry West, sia sempre lodato), si sono accorti di poter fare di più senza di lui. Cosa fare ora, dunque?
La cosa più conveniente per Griffin, in questo momento, è sicuramente quella di cercare in ogni modo possibile di far funzionare il suo nuovo matrimonio con i Pistons, entrare velocemente nei sistemi di gioco e portare la squadra ai benedetti Playoffs. Perché a 29 anni, dopo uno scambio del genere e nessun particolare obbiettivo ancora raggiunto in carriera (no, lo Slam Dunk Contest non conta), i prossimi mesi da giocatore di basket di Griffin andranno a definire indelebilmente quella che sarà la sua legacy, come uno dei più grandi talenti degli ultimi 10 anni sarà ricordato da qui alle prossime 20-30 stagioni.
Il messaggio lasciato poco fa sui social, contenente sia addio al passato e che abbraccio al nuovo futuro, può essere un buon punto di partenza.
— Blake Griffin (@blakegriffin32) January 30, 2018