Data: 5 gennaio 2018
Luogo: studio di NBA Game Time
Tema: “The Raptors Rising”: la sorprendente stagione di DeMar DeRozan e dei Toronto Raptors
Siamo nel salotto dell’NBA. Quel giorno si parla delle statistiche del nativo di Compton, dei mutamenti nel suo modo di giocare come emblema del cambiamento radicale dei Raptors, degli esponenziali miglioramenti messi in mostra in questa stagione grazie a quel personale restyling di cui vi abbiamo già parlato. Ad un certo punto a Stu Jackson, studio analystist della trasmissione ospite insieme a Grant Hill, viene posta una domanda che suonava più o meno così: “Bene, abbiamo parlato di Antetokounmpo, Harden, LeBron. Ecco, però, volessimo tenere in considerazione anche DeRozan nella corsa all’MVP, dovremmo inserirlo in questa “prima” categoria o in una inferiore alla suddetta?”. Il quesito suona indecifrabile, ponendo quasi come dato acquisito che per una qualche strana e incomprensibile ragione, indipendentemente dall’annata che sta disputando, DeRozan andasse inserito in una “second tier”, come se non fosse meritevole per principio di stare sullo stesso livello delle stelle degli States che stanno giocando una stagione altrettanto strepitosa ma non necessariamente superiore alla sua.
La risposta è comprensibilmente lapidaria: “If he was playing in America, we wouldn’t be asking the question. I do think there’s a little bit of a ‘Canadian Factor’“. Che – mi perdonerete l’autoreferenzialità – ma è esattamente quello che intendevamo qualche settimana fa quando, tentando di trovare una giustificazione alla tanto incomprensibile e ingiustificata quanto costante mancanza di attenzione riservata a DeRozan (e ai Raptors in generale) parlavamo di “contesto semi-periferico che si pone anche geograficamente fuori da quello che è il centro di maggior interesse della lega”. Da lì in poi, infatti, il discorso si amplia a prendere in esame, nell’ottica della stessa considerazione, l’intera franchigia canadese. Costantemente ignorata da tutti qualsiasi cosa faccia, qualsiasi risultato ottenga, forse proprio in quanto canadese. Sempre nel pezzo di cui sopra ponevamo la questione di quando sarebbe arrivato il momento in cui, tralasciando il passato, tralasciando il “Canadian Factor” e ponendo da parte quell’ineluttabile sensazione di star parlando e dedicando entusiasmo a qualcosa che presto ci deluderà per l’ennesima volta, ci saremmo “rassegnati” un po’ tutti all’idea di dover parlare anche quest’anno dei Toronto Raptors. Ebbene, volente o nolente, il momento è arrivato.
Una scelta obbligata
Tale è, infatti, quella che ci spetta in quanto “addetti ai lavori”. Insomma, i Toronto Raptors sono primi nella Eastern Conference con un record di 41-17 (17-7 nel 2018), hanno il terzo attacco assoluto per punti segnati (111,9 punti per game), il settimo per punti concessi (103,4). E ciò nonostante restano il più grande conglomerato vivente di underrated all’interno della lega. Di DeRozan abbiamo già detto abbastanza, ma perché non parlare anche di O.G. Anunoby, che non è un papabile Rookie Of the Year solo perché Simmons e Mitchell stanno facendo cose letteralmente incredibili? O di Valanciunas che ha finalmente trovato il suo posto nella NBA attuale? O dei Raptors stessi, che non hanno mezzo nome di spicco in uscita dalla panchina eppure hanno per distacco la migliore second unit della lega? E poi che dire di Coach Casey? Un allenatore in grado in una estate di – letteralmente – rivoltare una squadra come un calzino, cambiando sostanzialmente poco in termini di organico, ma di cui tutti sembrano costantemente dimenticarsi. E di Ujiri? Un GM che si ritrova al termine della scorsa stagione con un ambiente deluso, reduce dall’ennesima – attesa – cocente sconfitta e una delle situazioni salariali più difficili della lega e che riesce non solo a resistere alla tentazione (molto forte) di buttare giù tutto, ma anche a prendere tutte le decisioni giuste del caso (si vedano i rinnovi di Ibaka e Lowry, il lasciar partire Patterson per tenere il congolese, la trade per CJ Miles dopo aver spedito Carroll a Brooklyn…).
Anche allo stesso Ujiri, ad inizio anno, spettava una scelta obbligata, proprio in forza di questa sua decisione di continuare a provare a mantenere la squadra nelle zone nobili della Eastern Conference, senza farsi cogliere dalla fatalistica rassegnazione che può colmarti quando gestisci una squadra forte, che magari in altri momenti avrebbe davvero potuto competere per qualcosa di importante, ma che si vede sistematicamente preclusa questa possibilità da quella terribile combinazione data dal giocare contestualmente alla squadra più forte di tutti i tempi e – chi lo sa – al giocatore più forte di tutti i tempi. La scelta era semplice: cambiare, riprovarci e magari fallire di nuovo, ma fallire meglio. Cambiare la mentalità, lo stile di gioco individuale e collettivo, e adeguarsi ad una lega che vedeva i Raptors degli scorsi anni come un qualcosa di semplicemente “fuori dal tempo”. Ebbene, a conti fatti si può dire senza margini di discussione che la mutazione non sarebbe potuta riuscire in modo migliore.
Serviva una squadra più veloce che giocasse di più in transizione e meno a metà campo, e il Pace è salito da 94,7 dello scorso anno (24esimo) al 98 di quest’anno (undicesimo), così come il numero di fast-break point passato da 12,5 a 13,9. Serviva una squadra meno iso-dipendente, più collettiva, più coinvolgente, meglio posizionata in campo, che vedesse più flow e meno palleggi, ed ecco che il numero di assist per game è salito da 18,5 a 23,5 (+26,8%) così come è salita esponenzialmente la percentuale di punti assistiti, passata dal 47,2% – che valeva un ultimissimo posto – ad un più dignitoso 56,8%, grazie ad un nuovissimo offensive playbook condito di maggiori penetra-e-scarica o di extra pass del lungo dopo il roll. Serviva una squadra meno interna e più perimetrale, e il numero di triple tentate a partita è salito da 24,3 a 32,4 (seppur realizzato con un migliorabile 35,7%), con la percentuale di punti realizzata da fuori che è salita dal 24,8% al 31%. Insomma, serviva una squadra diversa e una squadra diversa sono diventati. Capiamoci meglio.
Da qui, ancora qualche confronto statistico rispetto alla scorsa stagione:
- Isolation frequency: scesa da 8,5% al 5,6%
- Spot-up shoot frequency: salita dal 19,5% al 21,9%
- Passaggi per game: saliti da 273,4 a 296,9
- Tentativi in catch and shoot: da 25,1 a 28,5
- Extra pass dopo una penetrazione a canestro: da 14,8 a 18,8
- Frequenza percentuale di transizioni offensive: da 13,4% a 15,7%
- Tiri tentati a partita: saliti da 84,4 a 87,8
- Tiri tentati da Lowry+DeRozan: scesi da 36,2 a 30,6
[Si potrebbe andare avanti ancora parecchio con i numeri ma, insomma, ci siamo capiti. Passiamo alle clip]
Sì, i Toronto Raptors sono un’altra squadra, completamente un’altra squadra. Questo è ciò che risulta evidente a tutti da queste immagini ma soprattutto da quell’ammasso di numeri e statistiche che rendono manifesto un cambiamento che – anche a posteriori – risulta incredibile essere avvenuto in una sola estate, peraltro a discapito di un sistema che, per quanto datato, per quanto “anacronistico”, per quanto inadatto a competere, rimaneva comunque straordinariamente efficiente (perché – forse non lo ricordate – ma c’è stato un momento lo scorso anno in cui i Toronto Raptors avevano uno dei migliori attacchi della storia del gioco per efficienza offensiva).
A questo discorso vai poi aggiunto quello riguardante una ritrovata e migliorata solidità difensiva che vede i suoi capisaldi strutturali nell’abilità di gran parte del roster di accettare (quasi) tutti i cambi e nella prestanza fisica e atletica – che è poi ciò che consente l’ergersi del primo di questi capisaldi – di giocatori come Anunoby (101,6 di Defensive Rating ed un wingspan+footwork che gli consentono di marcare letteralmente 5 posizioni), Siakam (stesso discorso), VanVleet (98 di efficienza difensiva, spesso accoppiato in single coverage con atleti molto più grandi di lui), Wright e Nogueira (che su 36 minuti viaggia a 3,7 stoppate di media, con tutta Toronto che si assesta a 6 blocks a partita, secondi nella lega).
In definitiva l’efficienza al tiro è salita dal 51,7% al 53,6% (quinta), così come sono migliorate l’efficienza offensiva su 100 possessi (da 109,8 a 110,7), quella difensiva (scesa da 104,9 a 102,6) e – in conseguenza – il Net Rating (da 4,9 a 8,1). Insomma, non solo abbiamo una squadra più dinamica, più divertente, meno monodimensionale, meno dipendente dalle sue due stelle e più operaia, meno “fuori luogo” e meno “vittima sacrificale designata”, ma abbiamo anche una squadra offensivamente e difensivamente più efficiente rispetto a quella degli anni scorsi. Grazie anche ad un protagonista principale assolutamente inaspettato…
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