Gerald capì che, anche qualora le cose fossero andate storte nella sua vita, avrebbe potuto saltare più in alto di tutti, lasciando le difficoltà e le paure a terra, remotamente piccole e innocue. Questa certezza lo portò, nonostante la latitante fiducia che veniva riservata alle sue doti tecniche, alla notte del 28 giugno 2005. Luogo dell’evento: Madison Square Garden. Nome dell’evento: notte del Draft NBA 2005.
Senza metter piede al college – e uno degli ultimi a poterlo fare, dato che dall’anno successivo fu proibito passare direttamente da High School alla NBA – Gerald Green si presentò alla notte del Draft con grandi speranze e un filo di candida superbia.
Di lui e del suo atletismo se ne parlava più che bene nell’ambiente, tanto che GG e il suo agente decisero di concedersi col contagocce ai provini pre-Draft con le franchigie NBA. In una notte che vide sfilare stelle della mole di Chris Paul, Deron Williams e Andrew Bogut, la top ten per il nostro eroe sembrava ormai cosa fatta. I Portland Trail Blazers, detentori della 3 scelta, sembrava potessero trovare in lui un ottimo elemento da affiancare all’instabile Darius Miles e un giovane Zach Randolph.
Ma a sorpresa i Portland scambiano la terza scelta con la sesta degli Utah, nella città del lago salato hanno bisogno di un playmaker (e scelgono Deron Williams) e con la sesta pick Martel Webster si accasa nella città delle rose. Per rientrare nell’agognata – e forse anche meritata – top ten del Draft, a Gerald non resta che sperare nei Toronto Raptors di Sam Mitchell, Chris Bosh e Jalen Rose. Ancora una sorpresa, ancora un duro colpo per il nativo di Houston: Stern alla settimana fa il nome di Charlie Villanueva, i fan canadesi si infuriano e il nostro protagonista china il capo all’impietoso destino.
Un destino costituito da una inaspettata 18esima scelta dei Boston Celtics, arrivata dopo nomi più o meno conosciuti come quelli di Danny Granger (Indiana Pacers, 17esima), Jaroslav Korolev (Los Angeles Clippers, 12esima) e la meteora Sean May (Charlotte Bobcats, 13esima). Ecco di nuovo le montagne russe, in un ennesimo punto di profonda flessione che mette Gerald Jr. in seria difficoltà.
Con queste premesse non del tutto eccitanti, il primo anno vede Gerald Green come poco più di una comparsa al TD Garden. Pochi minuti e poche possibilità, nel regno verde-oro di Doc Rivers e Paul Pierce.
In un contesto non del tutto roseo (i Celtics non arrivarono nemmeno ai Playoff, nonostante la stagione memorabile di Paul Pierce, GG collezionò più minuti di gioco in D-League che in NBA.
La stagione 2006-2007 nettamente più presente nelle rotazioni di Rivers, che gli concesse il campo in tutte le partite della regular season e fu ripagato con un’annata da 10.4 punti di media, col 44% da 2 e quasi il 37% da 3 (per 95 triple totali mandate a segno).
Ma il picco di quella stagione Gerald l’ottenne il 17 febbraio 2007: sotto gli occhi ammirati di Kobe Bryant, Vince Carter e Bill Russell, GG porta a casa lo Slam Dunk Contest battendo il campione in carica Nate Robinson con alcune giocate degne dell’agenzia spaziale americana.
Nessuno può più ignorare Gerald Green, la sua faccia spavalda e soprattutto l’esplosività delle sue gambe. La traiettoria delle sue montagne russe sembrava essere più ascendente che mai, fino alla fine di quella stagione.
Doc Rivers e Danny Ainge non ne possono più di perdere e mancare i Playoff, vogliono vincere e vogliono farlo subito. Non c’è tempo per aspettare che un buon prospetto come Green cresca, quindi lo tagliano per costruire quello che è forse il primo super team della NBA moderna: Rajon Rondo, Paul Pierce, Ray Allen e Kevin Garnett.
”Diavolo, anche io avrei scambiato me stesso per Kevin Garnett!”
Con un biglietto in tasca per la fredda Minneapolis, Green si ritrova di nuovo in rampa di lancio, di nuovo a dover dimostrare da zero quanto sia valido come giocatore, anche al di fuori dell’All-Star Game.
Ad aspettarlo in Minnesota ci sono due vecchie conoscenze bostoniane (Telfair e Al Jefferson) e poco altro. I minuti calano, con essi inevitabilmente anche i punti e le possibilità per mettersi in mostra. Giusto il tempo di partecipare al suo secondo Slam Dunk Contest, spegnere una candelina sul ferro tra i sorrisi dell’Ammiraglio Robinson e perdere il titolo contro Dwight “Superman” Howard.
A inizio 2018 lascia i Timberwolves per trovare più spazio, incrociando per la prima volta nella sua vita NBA la squadra della sua città natia, gli Houston Rockets. Una delle esperienze più frustranti che un atleta possa provare: tornare nella propria città da professionista – dopo esser stato riconosciuto come fuoriclasse al liceo – e giocare in tutto 4 minuti, chiudendo con un perfetto 3/3 dal campo (che amara consolazione!).
The Truth, laconico, sentenziò: “Gerald sta ancora cercando di trovare se stesso”. Ma le sirene del Texas sono troppo forti, e il figlio di Houston trova ospitalità ai Dallas Mavericks per la stagione 2008-2009. L’età è quella giusta per l’esplosione, il contesto anche, visti i mostri sacri con cui condivide lo spogliatoio: Jason Kidd, Dirk Nowitzki, Jason Terry e Jerry Stackhouse.
In una squadra di qualità ed esperienza, che mirava a grandi cose (che arriveranno solamente nel 2011, con l’anello vinto nella gara-vendetta contro gli Heat), GG fatica ancora una volta a trovare spazio. Rick Carlisle si affida al solido Josh Howard e al navigato Jason Terry, offrendo a Green meno di 10 minuti per partita, per un totale di 38 gare stagionali e una media punti pressoché irrisoria (5.2 a partita). Questo sarà il primo anno in cui Gerald Green vedrà – da comparsa – i Playoff NBA.
La stagione mediocre in maglia Mavs non gli garantisce un rinnovo, il nostro caro Gerald si ritrova di nuovo senza patria, di nuovo senza casacca, di nuovo in picchiata in questa giostra infernale chiamata National Basketball Association.
A questo punto della storia, dopo aver superato traumi, ostacoli e difficoltà, potrebbe sembrare fisiologico un calo di morale e il relativo azzeramento degli stimoli. Gerald ha 23 anni, un amore smisurato e non corrisposto per il basket e una decisione dura da prendere.
Continuare a sbattere la testa contro il massiccio muro della NBA, oppure cercare fortuna altrove? Come ogni eroe che si rispetti, Gerald prende la decisione più difficile, più impensabile e più drastica: un biglietto di sola andata per la fredda e remota Russia del Lokomotiv Kuban.