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Quando la NBA incontra l’hip-hop: 8 giocatori rapper

Chris Webber

(slamonline.com)

Ricordato come uno dei migliori giocatori senza alcun titolo NBA, Chris Webber è anche noto per un passato nel mondo della musica: il suo album di debutto 2 Much Drama, pubblicato nel 1999 (durante il suo primo anno ai Sacramento Kings, la cui maglia numero 4 è stata ritirata in suo onore) col nome di C. Webb, ottenne un discreto successo grazie alle collaborazioni di Redman e Kurupt e a ‘Gangsta, Gangsta (How U Do), diventato il brano di maggior successo del nativo di Detroit.

Benché si tratti del suo unico lavoro da solista, non è solo per quello che Webber è conosciuto a livello musicale: la sua “fama” è dovuta sopratutto alla produzione delle basi di Blunt Ashes e Surviving The Times, entrambi singoli del leggendario MC newyorkese Nas.

Allen Iverson

(ogeewogee.com)

The Answer rappresenta una figura unica nella storia della NBA e ciò è dovuto in gran parte all’appellativo di “bad boy” e al suo legame con la cultura hip-hop.

Lo stesso giocatore ha spesso fatto notare quanto la musica abbia contribuito al suo successo e anche lui ha provato a cimentarsi col microfono in mano: attorno al 2000 sembrava essere tutto pronto per l’uscita di Non Fiction, il suo album di debutto, ma i continui conflitti tra AI e il resto della NBA, a partire dal commissioner David Stern (il cui provvedimento del Dress Code è emblematico dell’impatto senza precedenti del nativo di Hampton sulla lega e sui fan) impedirono che il progetto vedesse la luce. A causa di testi troppo espliciti lo stesso Stern infatti bloccò la pubblicazione del disco di Iverson, la cui unica canzone ufficiale rimane dunque ‘40 Bars‘.

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