Quali sono stati i migliori allenatori della stagione regolare? Iniziamo oggi la nostra rubrica che vi accompagnerà durante tutto il mese di maggio alla scoperta dei candidati al premio di Coach Of the Year. Una serie di analisi dettagliate, a cadenza settimanale, su quegli allenatori che hanno portato le loro squadre a raggiungere obiettivi importanti durante la regular season, siano essi di classifica o di gioco. Buona lettura!
Come l’anno scorso anche quest’anno Brad Stevens non può essere escluso dal novero dei migliori allenatori della stagione. Il fatto di iniziare proprio da Stevens è puramente casuale (anno scorso partimmo da Mike D’Antoni, poi vincitore) e non è per niente scontato che sia poi proprio l’allenatore dei Boston Celtics ad aggiudicarsi il premio. Mi sembrava però doveroso partire da Stevens alla luce della estrema, genuina bontà del suo lavoro: un allenatore in grado di migliorarsi e migliorare la propria squadra con una precisione quasi matematica ― non è un caso che sia riuscito a migliorare il record dei Celtics ad ogni stagione in carica.
Stevens è da sempre considerato un genio, un predestinato; e nonostante sia entrato in NBA in punti di piedi, con una mossa a sorpresa del General Manager Danny Ainge durante l’estate del 2013, è rapidamente diventato uno dei migliori tecnici della lega, guadagnandosi la stima di tutti, dai front office ai giocatori fino agli appassionati. Ovviamente il lavoro parlava al posto suo anche prima del suo ingresso ai professionisti: due finali NCAA consecutive con un’università piccola come Butler non si raggiungono per caso. Stevens però non ha avuto problemi di ambientamento e anche in questa stagione ha dimostrato di poter incidere molto sull’andamento della sua squadra. I Celtics infatti, nonostante il restyling quasi totale dell’estate scorsa e i tanti problemi di infortunio subiti durante l’anno, hanno sempre mantenuto un’identità precisa e riconoscibile su entrambe le metà campo, dimostrandosi una delle squadre meglio organizzate e funzionali della NBA.
La rivoluzione estiva di Danny Ainge è stata totale. Appena quattro giocatori fanno parte di entrambi i roster (Jaylen Brown, Horford, Rozier e Smart), mentre i partenti Isaiah Thomas, Bradley, Crowder, Olynyk, Amir Johnson e Jerebko hanno fatto spazio a Jason Tatum, due stelle del calibro di Gordon Hayward (via free agency) e Kyrie Irving (via trade), più giocatori di rotazione come Baynes, Marcus Morris e Daniel Theis. Per forza di cose una squadra che cede quattro quinti del suo starting five deve ricostruire la proprie certezza, e anche se è vero che la linea di continuità era rappresentata da Horford, già fondamentale nella stagione precedente nell’implementare i concetti offensivi della pallacanestro di Stevens, il dover ricalibrare totalmente gli equilibri non è compito facile per nessuno. Thomas usciva da una stagione da potenziale MVP, Bradley e Crowder sembravano indispensabili per gli equilibri tattici della squadra.
Stevens ci è riuscito in brevissimo tempo, nonostante la tegola dell’infortunio shock occorso a Hayward dopo cinque minuti dall’inizio della stagione oltre a quelli di Smart, Theis e soprattutto Irving. Le 16 vittorie consecutive messe in fila ad inizio stagione, con la vittoria al supplementare di Dallas come manifesto ideologico, hanno dato lo slancio necessario per disputare una regular season di alta classifica, dove sono arrivate ben 55 vittorie (due in più rispetto all’anno scorso) e la consapevolezza di essere una squadra in grado quantomeno di ben figurare contro chiunque grazie alla propria organizzazione. Ed è proprio qui che stanno tutti di Meriti di Brad Stevens.
L’importanza dell’identità
Sotto Stevens i Celtics si sono sempre distinti per la loro identità, in entrambe le metà campo. L’ex allenatore di Butler gioca una pallacanestro radicata sulla Motion Offense, dove il principio fondamentale è quello di saper leggere le difese avversarie e reagire di conseguenza prendendosi i vantaggi che si creano (Read & React). L’attacco dei Celtics è sempre ben spaziato sul campo: l’ampiezza è un concetto fondamentale, con l’imperativo di aprire corridoi e spazi con i quali arrivare al ferro. I lunghi devono essere in grado di giocare fronte a canestro e devono saper leggere le difese avversarie. In questo Horford è forse uno dei migliori giocatori della lega e le sue doti di playmaking, ancora prima che di tiratore (i suoi movimenti pop, cioè ad aprirsi, nei giochi a due sono vitali per l’attacco dei Celtics), garantiscono alla squadra sempre tiri ad alta qualità.
I continui infortuni però hanno costretto Stevens a dover rivedere un po’ le sue idee. Sono calati l’utilizzo degli hand-off a discapito ad esempio degli isolamenti, situazione dalla quale Boston ha ricavato ben 0.93 punti per possesso (80° percentile) grazie soprattutto alle giocate di Irving ― uno dei migliori giocatori di uno contro uno della NBA ―e di Marcus Morris.
Sono rimaste stabili invece le situazioni di post-up, soprattutto per Horford (straordinario passatore), fondamentali come punto di inizio dal quale sviluppare l’azione. Stevens è un allenatore moderno e come tale è riluttante a sfruttare le conclusioni dal post ma, come spiega lui stesso, “iniziare l’azione mettendo la palla in post permette di sviluppare tutta una serie di movimenti, blocchi e tagli, specialmente dal lato debole, che permettono alla squadra di giocare una pallacanestro di inside-out (di penetra e scarica) molto efficace”. I Warriors, ad esempio, usano spesso queste situazioni, mettendo la palla in post come avvio di un qualcosa di più grande (e dinamico).
Da notare come anche il ritmo a cui giocano i Celtics sia cambiato. In tre stagioni infatti i verdi sono passati da giocare 101 possessi a partita (terzi nella lega) ai 98.24 di questa stagione (23esimi). Stevens in passato ha avuto a disposizione roster meno talentuosi ed ha spinto di conseguenza i suoi ad accelerare, incrementando il numero dei tiri cercando spesso di attaccare in transizione; adesso che invece la qualità media è superiore (a ranghi completi i Celtics probabilmente avrebbero avuto il miglior roster ad Est in questa stagione) si può attaccare più spesso a metà campo, rallentando il PACE.
I Celtics hanno chiuso la regular season al diciottesimo posto per efficienza offensiva, con appena 105.2 punti segnati su cento possessi. L’assenza (totale) di Hayward e (parziale) di Irving si è fatta sentire, rendendo l’attacco stagnante e poco fluido. Stevens ha dovuto arrangiarsi in altri modi e in questo il lavoro svolto sui giovani è stato perfetto, Brown e Tatum su tutti, senza dimenticarsi di Rozier, capace di alzare il livello del suo gioco quando è stato chiamato a sostituire la stella ex Cavs in cabina di regia. Questa è un’altra della grandi doti di Stevens, quella di migliorare ogni suo giocatore, permettendogli di esprimersi al meglio e costruendo per lui un habitat confortevole dove ancora prima del talento conta l’intelligenza e la voglia di lavorare. Il caso più esplicativo mi sembra quello di Crowder, dato per finito nel caos di Cleveland per poi risorgere nel sistema di Snyder a Utah ― un altro allenatore bravo a sfruttare a pieno le doti dei propri giocatori. Il costruire un sistema codificato e organizzato, dove un giocatore può ambientarsi costantemente nel corso di una partita e ancora di più durante la stagione è fondamentale per costruire una cultura sportiva vincente, e in questo Stevens sta lavorando benissimo fin dal suo primo giorno nella lega.
Le tante avversità hanno dato modo ai giovani di avere più spazio a disposizione, con minutaggi più elevati e la possibilità di crescere più rapidamente. Il maggiore beneficiario è stato sicuramente Jason Tatum, al quale è stato chiesto di bruciare le tappe (e siccome è un fenomeno l’ha fatto quasi senza problemi) ma di farlo comunque secondo un programma mirato al suo sviluppo nel lungo periodo piuttosto che nell’immediato. Un esempio? Costringerlo ad abituarsi immediatamente al range di tiro NBA, trasformando quelli che per tanti rookie sono dei long-2s nella loro prima stagione in triple (cosa per esempio che a Phoenix non hanno mai fatto con Josh Jackson durante il corso della stagione e che i Suns rischiano di pagare in futuro). Anche Brown ha mostrato segnali di crescita entusiasmanti, dimostrandosi da subito un difensore terrificante e un tiratore molto più affidabile di quanto si credesse, ma anche sviluppando altri aspetti del suo gioco, tipo il ball handling o le doti di playmaking.
Eccellenza difensiva
Stevens ovviamente ha saputo lavorare benissimo anche nella metà campo difensiva. I Celtics sono stati la miglior difesa della regular season alla pari degli Utah Jazz ― anche se, dati alla mano, Boston ha avuto la miglior efficienza difensiva, con 101.5 punti concessi contro i 101.6 dei Jazz. Anche qui l’allenatore è stato bravo a cucire un vestito perfetto per le qualità tecnico-fisiche dei suoi giocatori. Quella vista quest’anno è stata la miglior versione difensiva dei Celtics di Stevens (perfino migliore di quella 2015/16 che chiuse la stagione con appena 100.9 punti concessi su cento possessi). È su questo fondamentale che l’allenatore ha improntato l’identità della squadra dal suo ingresso nella lega, costruendo dei Celtics tosti, concentrati per tutti i 48 minuti e in grado di smontare gli attacchi avversari. Ma solo in questa stagione Stevens ha potuto attuare una difesa congeniale ai suoi principi tattici.
L’aver sostituito i minuti di Bradley e Crowder con Brown, Tatum e Smart ha permesso di mettere in atto principi difensivi più vicini alla sua filosofia. La grande versatilità dei tre (aggiunta a quella di Horford) ha permesso ai Celtics di essere una squadra sia più aggressiva sulla palla sia in grado di cambiare meglio sui blocchi. La presenza di Thomas era molto limitante sotto questo punto di vista nelle scorse stagioni, mentre adesso Stevens può chiedere ai suoi di rischiare di più, andando a intrappolare i ball handler avversari anche lontano dal canestro, potendo confidare nei wingspan mostruosi dei vari Brown e Tatum come una specie di safety del football, in grado di poter gestire contemporaneamente più di un giocatore lontano dalla palla rendendo le ricezioni più pericolose.
Stevens non ha paura di sperimentare o di adattarsi a contesti differenti. Ad esempio quest’anno i suoi Celtics sono stati in grado di passare dalla difesa a uomo a quella a zona (2-3) senza perdere di efficacia. Nella sua prima stagione in NBA, aveva rinunciato del tutto al suo credo per seguire i consigli del suo “coordinatore della difesa”, Ron Adams ― rimasto per un solo anno a Boston prima di unirsi allo staff di Steve Kerr e creare una delle difese più terrificanti della NBA contemporanea ―, il quale gli aveva consigliato (visto il materiale umano a disposizione) di optare per una difesa più conservativa, dove ai lunghi veniva chiesto di scalare in area per scoprire meglio il ferro. Stevens aveva confessato di non aver mai attuato una difesa del genere nei suoi precedenti tredici anni di carriera da allenatore ma di aver comunque dato ascolto ad Adams, pensando fosse la cosa migliore per la squadra. L’uscire dalla propria comfort zone da allenatore, alla prima esperienza in NBA (nell’occasione di una vita, la panchina dei Boston Celtics) non è una cosa da tutti, ed è forse la miglior dote di Stevens. L’intelligenza, la flessibilità mentale; la capacità di capire il contesto sfruttando al massimo il potenziale di tutti, gli ha permesso di farsi rispettare subito dall’intera lega e dai giocatori (non necessariamente i suoi). Non è un caso che Kyrie Irving fosse entusiasta di farsi allenare da lui, appena ricevuta notizia della trade.
Brad Stevens ha solamente cinque anni di esperienza da capo allenatore in NBA ma ha già dato ampie conferme di essere uno dei migliori coach in circolazione, nonché meritatamente candidato al premio di Coach Of the Year.