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Quanto conta l’allenatore nella NBA?

Oltre ai quattro candidati al premio di Coach of the Year ci sono molte altri allenatori che meritano un’analisi più approfondita. Tra chi ha fatto bene, chi ha fatto male, chi allena da una vita e chi deve ancora cominciare. Quanto conta l’allenatore nella NBA?

Altre facce (della medaglia)

La quantità di sfaccettature del prisma della valutazione sono tantissime e spesso l’attenzione è troppo focalizzata sui risultati che sul lavoro che c’è dietro. Prendiamo ad esempio Doc Rivers: nonostante il roster più scarso della sua gestione ai Clippers (e forse della sua carriera da allenatore), nonostante la cessione di Blake Griffin e i continui infortuni di Gallinari, ha allenato in maniera quasi perfetta come forse non gli capitava da qualche anno arrivando ad un passo dai playoff ad Ovest.

Oppure Steve Clifford, recentemente licenziato dopo un’altra stagione tutt’altro che positiva. Dire che gli Hornets giocassero bene sarebbe eccessivo, ma non si può dire che non fossero organizzati. Poche palle perse, controllo dei tabelloni (miglior squadra nella metà campo difensiva con l’80% dei rimbalzi disponibili catturati). Come per i Pacers anche qui la differenza potrebbe stare delle situazioni di clutch time, ma a differenza dei primi gli Hornets sono stati disastrosi (record 16-25), finendo col buttare al vento la possibilità di tornare ai playoff. Se gli Hornets avessero avuto la meglio nelle partite tirate raggiungendo la post-season, avrebbero fatto bene a tenersi Clifford e progettare il futuro su di lui? Personalmente sarei sorpreso se non tornasse ad allenare in NBA entro un paio di stagioni, ma come dobbiamo valutare la sua esperienza sulla panchina di Charlotte?

Forse è mancato tanto così? (Credits to Inquirer Sports – INQUIRER.net)

Stesso discorso si potrebbe applicare a Mike Malone, con i Nuggets che per due anni consecutivi sono arrivati al nono posto mancando l’appuntamento ai Playoff. Nella sua valutazione cosa dovrebbe incidere di più: lo sfortunato infortunio di Paul Millsap, costretto a saltare gran parte della stagione, o il fatto che i Nuggets continuino ad essere imbarazzanti difensivamente? E se le due cose fossero correlate? E quanto dell’infortunio di Butler dovrebbe influenzare il giudizio su Thibodeau?

Dopo una stagione di “ambientamento” ci si aspettava molto di più dai suoi T’Wolves. Il ritorno ai Playoff dopo quattordici anni è una notizia molto positiva ma Minnie è stata trascinata più dal talento dei singoli che da un’organizzazione corale. L’essere dovuti arrivare allo spareggio proprio contro i Nuggets dell’ultima giornata è la riprova di come realmente il lavoro svolto da Thibodeau non stia funzionando al meglio, e considerando anche che la situazione interna alla franchigia non sembra essere delle più serene, forse due domande sarebbe meglio porsele.

 

Giovani crescono

Clifford, Malone e Thibodeau sono casi di ottimi assistenti divenuti poi capi allenatori. Un altro esempio è quello di Mike Budenholzer, che dopo diciotto anni da vice di Gregg Popovich ha prima portato la sua visione di basket ad Atlanta e dalla prossima stagione sarà l’allenatore dei Milwaukee Bucks. Chi potrebbe costruirsi una strada simili a loro?

Giannis Antetokonmpo nelle mani di Budenholzer potrebber diventare illegale.

Luke Walton e Kenny Atkinson hanno fatto vedere buone cose, nonostante le stagioni di Lakers e Brooklyn Nets siano state tutt’altro che indimenticabili. Al secondo anno sulle rispettive panchine il loro lavoro inizia a intravedersi in maniera più nitida. I Lakers hanno iniziato a giocare più come vuole Walton, influenzato dalla filosofia dei Warriors dopo l’esperienza da assistente di Steve Kerr. Il passaggio da 25 a 29 triple tentate, e da 20.9 a 23.8 (settimi) per assist a partita, rispetto alla passata stagione, vale di più delle nove vittorie ottenute in più in regular season. Anche in difesa le cose sono migliorate, con i Lakers che sono stati la squadra più switchable della lega dopo Houston e Warriors (che fanno dei cambi sistematici sui blocchi il loro punto di forza), controllando meglio sia il perimetro che il ferro e passando dal concedere 110 a 105.6 punti su cento possessi.

Parlando di difese, i Nets sono stati la squadra che ha concesso meno triple in catch-and-shoot e anche quella che ne ha concesse meno dagli angoli. In attacco Brooklyn gioca una pallacanestro di stampo europeo, e dopo gli Houston Rockets (ai quali si ispirano molto) nessuno ha tentato più triple di loro in stagione. Inoltre i tanti giovani accumulati negli ultimi due anni dal GM Marks sono nelle mani di uno dei migliori coaching staff della lega quando si parla di sviluppare i giovani e se i Nets oggi possono sperare in futuro migliore molto lo devono al lavoro di Atkinson.

Il GM Sean Marks con Kenny Atkinson, d due anni insieme ai Nets (Credits to NetsDaily)

 

(R)evolution & Other Things

Il voler puntare su allenatori promettenti, giovani e preparati è ormai un trend consolidato. E’ in atto una sorta di rivoluzione dove a Manager con esperienza come Jeff Van Gundy, Mark Jackson e Kevin McHale (che comunque restano sui taccuini dei front office come si è visto nelle scorse settimane) vengono preferiti i profili esordienti di allenatori che hanno fatto benissimo in NCAA o assistenti che hanno saputo mettersi in mostra. Billy Donovan (OKC) e Fred Hoibierg (Bulls), così come Stevens ovviamente, sono ormai delle certezze, e non è da escludere che presto qualcun altro non si aggiunga alla lista (col nome di Jay Wright sempre molto apprezzato). Quest’estate però hanno monopolizzato la scena gli assistenti.

I Suns hanno messo la loro ricostruzione nelle mani di Igor Kokoskov, che dopo quasi vent’anni da assistente avrà la prima occasione di guidare una squadra NBA (e sarà il primo europeo a farlo). Gli Hawks si sono affidati a Lloyd Pierce, fino a questa stagione ai Sixers, mentre i Knicks ripartiranno da David Fizdale. Charlotte ha scelto di puntare su James Borrego, allungando la lista di ex componenti degli Spurs ad essere su altre panchine (o in altri front office) a giro per la lega. In questa off-season praticamente ogni membro del coaching staff dei nero-argento è stato intervistato per un posto vacante su altre panchine. Da Borrego a Udoka, da Becky Hammon (una vera pioniera in questo campo) al “nostro” Ettore Messina.

(Credits to Corriere)

Per adesso non se n’è fatto di niente, ma è tutt’altro che impossibile pensare che in un prossimo futuro Messina possa diventare il primo italiano ad allenare nella NBA. Si sono sentite tante voci sul fatto che meritasse l’incarico rispetto ad altri nomi. Facciamo un po’ di chiarezza: Messina è uno dei migliori allenatori e uno dei più vincenti del panorama europeo, oltre ad essere una persona di grandissima professionalità e carisma. Sicuramente meriterebbe una chance. Il problema (se si vuol definire così) è che le panchine disponibili sono poche, di anno in anno, mentre la quantità di personale altamente qualificato è molto più ampia. Allenare in NBA, nella migliore lega sportiva al mondo, è un privilegio (un lusso) e il fatto che un allenatore col pedigree di Messina, con la sua carriera, abbia accettato di fare da assistente per quattro anni dimostra quanto lui stesso riconosca la grandezza di questo incarico. Discriminare i concorrenti che ogni anno deve e dovrà affrontare prima di diventare head coach in NBA significa non capire a pieno il valore della lega e soprattutto significa non rispettare l’intelligenza di Messina stesso, che potrebbe allenare praticamente ovunque in Europa ma che invece preferisce misurarsi anno dopo anno al livello più alto possibile. Arriverà anche la sua occasione.

L’aver potuto ricoprire un ruolo così importante negli ultimi tre anni all’interno degli Spurs, forse la migliore organizzazione sportiva degli ultimi venti anni, è un ulteriore attestato della bravura di Messina. La Spurs University (come viene definita) è la miglior rampa di lancia per fare carriera nella NBA e nel corso degli anni ha sfornato tantissimi personaggi chiave nella ricostruzione di altre franchigie. Il loro modello è ormai da anni studiato nel tentativo di replicarlo, da Sam Presti ai Oklahoma City Thunder a Sean Marks e del suo progetto ambizioso coi Nets.

Da destra a sinistra: il GM Dennis Lindsey, Quin Snyder e l’assistente Johnnie Bryant. (Credits to deseretnews.com)

Ma il caso più interessante è quello degli Utah Jazz. Il GM Dennis Lindsey (ex Spurs) e Snyder (passato dai Toros, la squadra dell’allora D-League degli Spurs) in queste ultime due stagioni hanno definitivamente dimostrato il loro valore, dimostrando di poter fare cose eccezionali in una franchigia senza particolare appeal o stelle da mettere in copertina. Il coaching staff di Snyder è estremamente competente e oltre a Kokoskov, come detto prossimo allenatore dei Suns, non è impensabile che qualcun altro possa spiccare il volo. Johnnie Bryant ad esempio sta acquisendo molta popolarità tra gli addetti ai lavori, visto il lavoro svolto su Gordon Hayward (il quale lo ha personalmente ringraziato nella lettera di addio ai Jazz) e Donovan Mitchell, e anche Alex Jensen, dopo aver fatto intravedere buonissime cose coi Canton Charge (la squadra di G League dei Cavs) è oggi una certezza dello staff dei Jazz e dal 2015 allena la nazionale tedesca. Due nomi da tenere d’occhio per i prossimi anni.

Il ruolo dell’allenatore nella NBA è in continua evoluzione e così come per il discorso tecnico riguardante i giocatori, anche quelli degli head coach è un mondo che sta vivendo una sorta di evoluzione. Avere un allenatore preparato e all’avanguardia è una componente sempre più importante, tanto che qualcuno è arrivato a chiedersi se sia meglio avere una stella sua panchina piuttosto che in campo. Un esagerazione? Probabile. E’ ancora giusto sostenere che “la differenza alla fine la fanno i giocatori” ma è altrettanto sacrosanto iniziare a capire meglio questo ruolo, spesso troppo sottovalutato.

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