Durante tutto l’arco della stagione, Alberto Mapelli e Michele Pelacci hanno passato un sacco di tempo a guardare, scrivere e mettere in classifica i più talentuosi giocatori sbarcati in NBA in questa stagione. Fin dalle prime battute, è sembrata una corsa a due per il premio di Rookie of the Year, roba tra Ben Simmons e Donovan Mitchell. Col benestare di Tatum, Kuzma e Markkanen, dunque, si è arrivati – come annunciato nell’ultimo episodio – al fatidico pezzone: su loro due, solo loro due.
1. Raramente due giocatori al primo anno sorprendono così tanto e dominano una squadra come loro, da secondo turno dei Playoff. Chi dei due ha modificato maggiormente la percezione dello status dei rookie?
AM: Avessimo realizzato questo pezzo prima dei Playoff avrei sicuramente risposto Ben Simmons. Poi è arrivata la post-season e Spida mi ha circondato con la ragnatela più o meno come ha fatto con tanti in questa prima apparizione nel momento della stagione che conta maggiormente.
Oltre le cifre, impressionanti per entrambi – Mitchell 24.4 pts, 5.9 rimbalzi, 4.2 assist con il 31% di Usage; Simmons 16.3 pts, 9.4 reb, 7.7 ast con il 22% di Usage – Simmons ha sbattuto di piena faccia contro il muro costruito da un allenatore d’élite come Stevens per mettere in evidenza il suo più grande limite: non saper tirare. Simmons si è visto negare le certezze e, almeno per una parte della serie contro i Celtics, non è riuscito a trovare risposte adeguate alla difesa ad hoc costruita per lui, perdendo fiducia in sé stesso. Una situazione normale per i giovani al primo anno che ho vissuto con più sconcerto del normale proprio per l’eccezionalità di un giocatore che dal Day One ha imposto il proprio gioco al piano di sopra. Donovan, dopo averci messo qualche gara in più nella regular season per prendere in mano le redini della franchigia, ha danzato su cadaveri illustri – ciao OKC, ciao Melo – anche ai Playoff. Mitchell è stato in grado di spostare un po’ più in là, almeno nella mia testa, il limite di quello che un ventunenne può fare contro due squadre che possono schierare alcuni dei giocatori più forti della lega.
MP: La risposta più corretta, probabilmente, è l’intera classe: ben più di due rookie hanno sorpreso in positivo nella stagione 2017/2018. I componenti del 1° quintetto All-Rookie di quest’anno (Simmons-Mitchell-Tatum-Kuzma-Markkanen) vantano già 4 serie vinte ai Playoff. Il 1° quintetto All-Rookie 2016-2017 si ferma a 2, 2015-2016 nessuno, 2014-2015 c’è il solo Mirotic che ne ha vinta una quest’anno ma non nella squadra che l’ha draftato, la 2013-2014 non parliamone neanche che è quella di Michael Carter-Williams.
In questa classe si ha la certezza che almeno 3 rookie diventeranno stelle, roba da Top 15 della lega in una manciata d’anni. Non succedeva da Melo, LeBron e D-Wade nel 2003-2004. Anche solo prendendo la stagione di Kuzma, Markkanen o Dennis Smith Jr., si avrebbe sotto gli occhi un’annata di valore, nella quale – pur in contesti perdenti – il loro talento è stato messo in mostra e sviluppato. Aver visto sia Simmons che Mitchell che Tatum ai Playoff ha forse ingigantito l’impatto delle loro stagioni, ma in questo millennio nessuno aveva mai, nella stagione da matricola, giocato più di 2 partite sopra i 25 punti ai Playoff. Donovan Mitchell ne ha giocate 5. Nessun rookie aveva mai giocato più di 4 partite (Wade) a 15+ punti, 5+ rimbalzi e 5+: Ben Simmons ne ha giocate 8, per Basketball-Reference.
Simmons e Mitchell hanno dominato in due modi diversi, in due squadre con un’identità totalmente diversa e loro stessi hanno un background molto differente. Mitchell, dopo due anni a Louisville, è stato draftato nella squadra perfetta per lui; Simmons, dopo un anno al college, ha guardato la NBA dalla panchina per una stagione. Ci si aspettava tanto da quest’ultimo, prima scelta assoluta ormai due anni fa, più che da Mitchell. Con tutti gli occhi addosso, ha fatto pensare a tutti: “Avevate dubbi?”
2. Hanno inciso più Simmons e Mitchell nelle stagioni di 76ers e Jazz o viceversa? O anche, conta più il contesto o il talento?
MP: Forse è banale, ma entrambi hanno trovato un contesto davvero adatto alle loro caratteristiche, un contesto nel quale potessero esprimersi come the guy. Mitchell poteva, secondo tante voci, finire ai Knicks (che poi hanno preso Ntilikina), a Charlotte (Monk) e a Detroit (Kennard). Come sarebbe andato in queste squadre? Convivere con Tim Hardaway Jr. e con la pressione di New York, all’ombra di Kemba o nelle anguste spaziature dei Pistons (e Reggie Jackson…) sarebbe stata tutt’altra roba. A Utah il prodotto di Louisville ha trovato uno dei migliori allenatori della lega, una squadra che aveva immediato e disperato bisogno di giocatori con punti nelle mani dopo l’addio di Hayward: Mitchell è letteralmente manna posatasi sulle montagne di Salt Lake City.
Ugualmente Simmons: a Phila coach Brown gli ha ritagliato un sistema su misura, che il prodotto di LSU ha dimostrato di saper modellare a seconda di tanti fattori, primo su tutti la presenza o meno di Embiid. È inevitabile che il talento del singolo (e in entrambi i casi ce n’è parecchio) e il contesto di squadra (memo: entrambi hanno un All-Star come compagno di squadra) si influenzino a vicenda: assomiglia al dibattito individuo-società della sociologia. Forse, però, per un giocatore al primo anno è essenziale non finire in un pantano, atterrare nel mondo NBA senza rompersi le gambe. Sia Simmons che Mitchell hanno visto che la zona d’atterraggio era perfetta per spiccare il volo, hanno rasoiato il terreno e poi su, verso le stelle.
AM: Il contesto è indubbiamente fondamentale ma, soprattutto, conta avere la fortuna di essere scelti da una franchigia con un coaching staff talentuoso, che abbia ben chiaro come utilizzare il tuo talento e come farlo sbocciare, dandoti piena fiducia, e non per forza da un contesto vincente. Per esempio, Sacramento è notoriamente un luogo di perdizione per i giovani in quanto gestito in maniera poco ortodossa e rivedibile ma, con l’arrivo di Joerger, i ragazzi con talento hanno potuto mettersi in mostra nonostante il contesto perdente. Pensiamo alla ascesa di Bogdanovic, ai lampi mostrati da Fox, allo stabilizzarsi delle prestazioni di Hield dalla panchina. Tornando a Ben e Donovan, i meriti sono in gran parte da attribuire al lavoro certosino di coach Brown e di coach Snyder, e dei loro staff. Entrambi i rookie, infatti, hanno dei difetti ben marcati che sono stati in gran parte coperti dal sistema costruitogli attorno, dandogli modo di non pagare il dazio tradizionalmente da pagare all’entrata in NBA (pensate a Lonzo) e di lasciare che il talento eccezionale di entrambi facesse il resto. È un rapporto simbiotico quello tra contesto e talento, nessuno, anche giocatori più navigati, può esprimersi al massimo se non è circondato da una serie di fattori adeguati a lui. Allo stesso tempo, determinate doti devi averle, non tutti sono robot come Kawhi Leonard che possono costruire così tante parti del proprio gioco tramite l’etica lavorativa.
3. Uno sguardo al futuro: chi ha lasciato intravedere più margini di miglioramento in questa prima stagione nella lega?
AM: Credo che ci siano pochi dubbi su chi possa avere il ceiling maggiore tra i due. Ben Simmons può diventare uno di quei giocatori in grado di riscrivere ulteriormente le regole del gioco, Donovan Mitchell meno. Attenzione però, avere un margine di crescita superiore potrebbe anche significare un ridimensionamento notevole nel caso in cui le lacune più evidenti non venissero colmate, possibilità che potrebbero subire un’impennata nel caso in cui il buon Ben entrasse nel team Kardashian. Scherzi a parte, Ben Simmons domina o quasi in NBA senza aver ancora capito con che mano deve tirare – una cosa che fa molto ridere ma mette anche molta paura – e senza avere uno straccio di tiro in sospensione – 30/119 in tutta la regular season tirando fuori dal pitturato. Come se non bastasse, può difendere su 5 posizioni ed ha le skills per essere perennemente selezionato nei primi tre quintetti difensivi.
Donovan Mitchell ha dalla sua un’indole competitiva clamorosa, cosa che lo porta a sbagliare più del previsto le scelte in attacco forzando qualche tiro di troppo. Se riuscisse a calmare i bollenti spiriti e ad affinare le letture nella metà campo offensiva premiando qualche volta in più i suoi compagni, potremmo ritrovarci tra le mani una versione 2.0 di Wade. Difensivamente parlando, i 100.9 punti concessi su 100 possessi lo posizionerebbero addirittura al 3° posto tra i debuttanti che hanno giocato almeno 20 partite. Il campo dice che non è un difensore disprezzabile ma non arriva assolutamente a questi livelli eccelsi. Essere capitato nella squadra con il probabile DPOY aiuta.
MP: Poco da aggiungere, senonché Simmons compirà 22 anni il prossimo 20 luglio e deve ancora giocare 100 partite nella lega. Per paragonarlo all’ultimo esterno che si è dovuto costruire un tiro praticamente da zero, Giannis Antetokounmpo, il play dei Sixers è molto più avanti nella curva evolutiva. Sdoganata da subito la questione ruolo (Giannis è diventato il trattatore di palla principale dei Bucks solo alla terza stagione), l’australiano sarà un All-Star il prossimo anno. Se, come con un paragone azzeccato ha già sottolineato Alberto, abbiamo bene in mente l’idea del miglior Mitchell possibile, sgrezzare Simmons è un gedanken experiment eccitante. Cosa succederà quando il rookie con più palle perse da Steve Francis (1999-2000) sarà più accorto? 34 rookie negli ultimi 20 anni hanno tirato più di 300 liberi in stagione regolare: Simmons è 34° per percentuale di conversione, 56%. Meglio di lui pure Dwight Howard ed Emeka Okafor. Lo sentite, il rumore delle chiavi del shooting coach dei Sixers che si chiude in palestra col figlio di Dave?
4. Sotto quale aspetto – fisico, tecnico e/o mentale – hanno stupito maggiormente? E da quale punto di vista si può dire che abbiano “deluso”?
MP: Avendo giocato in un contesto così povero al college, non era chiaro cosa potesse essere Ben Simmons al piano di sopra. Ad inizio stagione si pensava potesse giocare off the ball, bloccare, fare cose che non richiedessero necessariamente la palla in mano, ecco. La sua prima stagione in NBA, complice l’infortunio di Markelle Fultz (uno col quale avrebbe dovuto spartirsi verosimilmente il pallone), è stata molto ball dominant: 2° All-NBA per tocchi a partita dietro al solo Westbrook e 8° per tempo con la palla in mano, per Second Spectrum. Eppure lo USG% non è fuori dal mondo, con 74.1 guida in solitaria la classifica di passaggi a partita. Il secondo è Jokic a 66.3. Simmons è anche 4° per potential assist, davanti a gente come Chris Paul o James Harden. Insomma, che capisse il gioco così velocemente, che avesse qualità (riassumendo: essere un bulldozer) che nascondano evidenti lacune, no, non se lo aspettava nessuno. Non va nemmeno sottovalutato ciò che ha fatto Donovan Mitchell. Negli ultimi vent’anni, solo Blake Griffin ha siglato 2 quarantelli nella stagione da rookie. Spida detiene anche il record di punti (38) in una singola partita ai Playoff nella stagione da matricola (ultimi 30 anni): azzannare la partita più importante dell’anno, andando per la giugulare contro Russell Westbrook, questo no che non se l’aspettavano i Nuggets, quando, subito dopo averlo draftato, l’hanno ceduto ai Jazz per Trey Lyles e Tyler Lydon.
AM: La sorpresa assoluta che ha riservato al mondo Ben Simmons è l’immediato impatto difensivo che ha avuto. In uscita dal college, oltre alle condizioni fisiche, l’unico dubbio era legato alla scarsa attitudine ad applicarsi nella sua metà campo. È bastata una manciata di partite per far capire che, semplicemente, non aveva voglia di sprecarsi in un contesto dal livello così inferiore al suo. 101 punti concessi su 100 possessi, possibilità di difendere tutti senza distinzioni, 1.7 steals (8° in NBA), 2.8 deflections (19°) e 1.8 palle perse recuperate (4°) a partita. In coppia con Joel Embiid rischia di formare una delle coppie difensive più straordinarie della NBA, cosa che in realtà già sono.
Complice l’assenza di Fultz, quello che più mi ha “deluso” di Simmons è non aver ancora esplorato le sue potenzialità off the ball, oltre al pluricitato jumpshot mancante. Pensandoci, tutto e subito sarebbe stato perfino troppo. Lo spirito iper-competitivo è indubbiamente l’aspetto inatteso del rookie dei Jazz, soprattutto perché grazie a questa spavalderia sono arrivati risultati inattesi. Buttare sempre e comunque il cuore oltre l’ostacolo non può che fare innamorare il grande pubblico di un giocatore così. Mi risulta difficile, invece, trovare un aspetto per cui Mitchell mi ha deluso in maniera netta. Le cattive scelte offensive in alcuni momenti della gara, spinto dalla troppa consapevolezza nei suoi mezzi, non possono essere definite come una colpa. Rimane pur sempre un rookie. Se rimanesse questo difetto anche nelle stagioni a venire allora sì che potrebbe essere un problema.
5. Insomma, chi merita il premio? È possibile una risposta univoca?
AM: Purtroppo l’assegnazione del premio mi pare scontata. Dico purtroppo non perché non mi piaccia l’idea di premiare Ben Simmons, uno che ha guidato una squadra da 75 vittorie complessive nelle precedenti quattro stagioni regolari al terzo posto assoluto ad Est con 52 vittorie, di cui 17 consecutive a cavallo tra la fine della stagione regolare e l’inizio dei playoff. La motivazione del mio dispiacere va ricercata nel fatto che sarebbe più romantico premiare un ragazzo il cui nome è stato chiamato da Adam Silver soltanto per tredicesimo, autore di un’annata tanto clamorosa quanto inaspettata. Donovan Mitchell è il simbolo del fatto che nulla sia scritto nella NBA, di quanto il lavoro duro e la fiducia in sé stessi possa pagare sempre, anche in un ambito straordinario come l’NBA. Non serve nascere con 2 metri e 40 di wingspan (sì, anche la prossima annata di rookie si preannunci pazzesca) per dominare un mondo di super atleti, bastano talento, convinzione e una personalità straripante. Se poi vogliamo, è possibile anche aggiungere anche una vena polemica, Simmons in realtà è un secondo anno che ha potuto anche passare un anno a studiare da vicinissimo il suo futuro regno e l’evoluzione del gioco mentre recuperava da un fastidioso infortunio. Per la definizione di Rookie, lascio la parola al diretto interessato:
MP: Il Rookie of the Year è Ben Simmons. Anche solo per il fatto che Mitchell non conosce, evidentemente, il significato della parola playing. (Alberto lo conosce, ma non si applica).
Il Rookie of the Year è Ben Simmons non è stato insultato da Honest Abe, da Phila1234567 o Still Balling.
Il Rookie of the Year è Ben Simmons perché se resta sano Phila vince 52+ partite per i prossimi 10 anni.
Il Rookie of the Year è Ben Simmons perché l’ultima trovata di ESPN è stupenda per i Sixers, con riferimento forse alla Zattera della medusa di Géricault, mentre per i Jazz è un cartello stradale fin troppo giallo nel deserto.
Il Rookie of the Year è Ben Simmons perché è da inizio anno che lo sappiamo, che il Rookie of the Year sarebbe stato Ben Simmons.
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