Introduzione
di Alessandro Zullo
Un momento di spaesata concitazione tende, pressoché sistematicamente, a seguire la fine di ogni stagione NBA.
Le ferree e stabili certezze di un presente fatto solo di un parquet, un canestro e una partita da vincere che vengono spazzate via dalle incognite di un futuro costellato di contratti in scadenza, giocatori scontenti e desiderosi di approdare su nuovi lidi dorati, astri nascenti pronti a splendere ma non si sa dove. E allora, in un ridondante cicaleccio che caratterizza la stagione estiva di qualsiasi gruppo di tifosi e/o addetto ai lavori, ecco gli interrogativi che si susseguono costanti e sempre uguali. Dove va LeBron James questa estate? E Paul George? DeMarcus Cousins? Gli Spurs che faranno con Kawhi? Durant sta davvero pensando di togliere le tende dalla Baia? E con la prima chi ci va, Ayton o Doncic?
E via con i viaggi infiniti in discussioni che durano pomeriggi interi, costellate di scenari dove i Philadelphia 76ers firmano tutti i free agent sulla piazza, compreso Barack Obama nuovo General Manager al posto di Colangelo (sì, questo è il nostro Pelacci); Durant torna a Oklahoma City (perché tanto Durant prima o poi tornerà a Oklahoma City, vero? Vero?), e Doncic finisce a San Antonio perché Sacramento scambia la pick #2 di uno dei Draft più colmi di talento del nuovo millennio per (un anno di) Kawhi Leonard (e vi giuro che questa è vera).
Ma non si tratta solo di questo, non è solo l’incertezza che soppianta la certezza. La fine di una stagione NBA, infatti, rappresenta anche quel momento dell’anno in cui la strumentalità di dati e statistiche tende ad alimentare non più un punto di vista che alla fine – dove più, dove meno – tende ad essere confermato o smentito sul breve-medio periodo dall’oggettività del campo, bensì la soggettività di opinioni che, per differenze nei criteri di valutazione, modi di intendere le cose e semplici gusti personali, tendono a nascere e spesso a morire allo stesso modo: confliggenti.
Chi è il Coach of the Year della passata stagione? E si discute e non se ne viene a capo.
Chi è il Rookie of the Year? E si discute e (forse) ci si arriva.
Chi sono il Most Improved Player e il Defensive Player of the Year? Sono Oladipo e Gobert, qua non si discute.
Ma sopratutto: chi si merita questo benedetto premio di MVP?
Tre sono i finalisti, e questi già li sapete: LeBron James, Anthony Davis, James Harden.
Tre, però, sono anche i ciarlatani in lotta nella redazione: Leonardo Flori, a difesa della meravigliosa stagione del lungo di New Orleans; Jacopo Gramegna, a spade sguainate per la causa della guardia di Houston; e infine il sottoscritto, che questa volta proprio non riesce a non schierarsi con il Prescelto.
Un appuntamento serale su Skype e un tentativo di trovare un punto comune.
Chiaramente senza successo.
Predicare nel deserto dell’Ohio
Di Alessandro Zullo
“I would vote for me. The body of work, how I’m doing it, what’s been happening with our team all year long, how we’ve got so many injuries and things of that nature, guys in and out, to be able to still keep this thing afloat.
I would definitely vote me.”
(LeBron James)
Alessandro Zullo: “Il motivo per cui, secondo me, LeBron James è l’MVP della stagione 2017/2018, bene. Fatemi partire con una premessa allora. Voglio molto bene al buon Anthony Davis (e al nostro Flori) e riconosco la straordinarietà di una stagione giocata su livelli incredibili: detto questo – con la consapevolezza che i riconoscimenti individuali per Davis arriveranno e probabilmente ben più di uno – stavolta la corsa per me è a due e non lo vede coinvolto. Per questo motivo i miei termini di paragone si riferiranno solo ed esclusivamente ad Harden.
Proprio a tal proposito, il primo argomento l’ho rilevato notando una peculiarità che contraddistingue la NBA, segnando una linea di demarcazione rispetto alle altre leghe sportive americane (NFL, MLB, NHL su tutte): in queste, infatti, tutti i riconoscimenti individuali – compreso quello di MVP – sono riconosciuti facendo riferimento a dati statistici su base totale, complessiva (Quanti touchdown ha fatto X? Quanti goal ha fatto Y? Quanti home run ha fatto Z?). In NBA non è così. In NBA le statistiche sono – come sappiamo bene – on an average basis. E allora mi sono chiesto: e se invece facessi un esperimento e provassi per un momento ad allineare il basket a tutti gli altri maggiori sport americani, cosa ne verrebbe fuori? Sono allora andato su Basketball-Reference e ho buttato giù una tabella”.
LeBron James | James Harden | |
Gare giocate | 82 | 72 |
Minuti giocati | 3026 | 2551 |
Punti | 2251 | 2191 |
Rimbalzi | 709 | 389 |
Assist | 747 | 630 |
Stoppate | 71 | 50 |
Palle rubate | 116 | 126 |
FG% | 54% | 44% |
Triple doppie | 18 | 4 |
Insomma, in praticamente tutte le voci statistiche più rilevanti, escluse le palle rubate e le vittorie di squadra (e ci mancherebbe), LeBron risulta superiore ad Harden. E questo non mi sembra un dato irrilevante”
Jacopo Gramegna: “Vero anche, però, che Harden è stato fuori 10 partite”
AZ: “Beh, volendo possiamo considerarla come parziale “esimente” nei confronti di Harden, certo. Detto questo il dato che mi mostra un atleta di 33 anni che gioca più di 3000 minuti nel corso di un anno non riesco nemmeno ad avvicinarlo ad una proposizione avversativa. James gioca 82 partite, Harden 72: mi rammarico per l’infortunio del Barba, ma per me conta anche questo nel computo finale.
Allo stesso modo e per lo stesso motivo, quindi, per quanto mi riguarda, non tiene nemmeno il discorso dei più minuti giocati da LeBron rispetto ad Harden che offuscherebbero la reale “efficienza” dei due giocatori in campo (che è l’argomento ricorrente che si usa per giustificare questo particolare metodo di comparazione statistica su base “media”). E qui infatti vi lancio una provocazione. LeBron gioca 37 minuti di media a partita: qualcuno riesce a dirmi che c’è anche solo un secondo di quei 37 minuti in cui non risulta efficiente? O che, nei rispettivi contesti, Harden sia più efficiente di LeBron?”
Leonardo Flori: “Tutto vero e sono anche d’accordo. Tuttavia una cosa va detta. Ed è che per la squadra che erano i Cavaliers quest’anno, per il roster che avevano e per le (scarse) abilità dei giocatori che lo componevano, era più che fisiologico che LeBron si ritrovasse a gestire tutti i possessi da centro focale del gioco, cosa che invece non succedeva a Houston per Harden, che verosimilmente con una squadra del livello dei Cavs, senza compagni “ingombranti” come Paul e quindi con un primary role ancora più accentuato avrebbe prodotto statistiche individuali più straordinarie di quanto non abbia comunque fatto. Questo rischia di “distorcere” un po’ il tuo discorso in effetti, non trovi?”
AZ: “Eppure dimmi: perché allora non potremmo fare lo stesso discorso parlando di Westbrook l’anno scorso? Dobbiamo quindi assumere che Westbrook non meritasse l’MVP – e io personalmente non lo credo – e allora l’argomento può reggere. Diversamente ritengo che la centralità avuta dai due giocatori nei rispettivi contesti nei due anni sia assolutamente paragonabile, e che sostenere – seppur indirettamente – che la valutazione delle loro stagioni debba essere “condizionata” dal fatto che giocavano in due squadre sostanzialmente impresentabili sia ingeneroso e assolutamente ingiusto.
JG: “Infatti per me non lo merita LeBron tanto quanto non lo meritava Westbrook la scorsa stagione. Questo perché, già allora, Harden aveva mantenuto sostanzialmente la stessa efficienza (escluso il dato delle triple doppie) del play di Oklahoma City in un sistema, però, più strutturato, più vincente e anche – oggettivamente – più bello da vedere. Quest’anno, indipendentemente dal dato delle statistiche totali – comunque, ribadisco, “falsato” dal diverso numero di partite giocate – il discorso risulta simile, per quanto mi riguarda. Infatti, volendo presupporre una situazione di ipotetica “parità” a livello di prestazioni individuali, nel computo finale non si può non tenere conto del record di squadra e della “storicità” di quello che è successo nel corso di una stagione – e nello specifico di quello che Houston ha messo in mostra quest’anno. Mi spiego meglio: Curry ha vinto unanimemente l’MVP due anni fa non solo perché è stato il miglior giocatore della regular reason, ma anche perché ha rappresentato il centro di gravità permanente di una squadra che ha vinto 73 partite e ha messo un ulteriore mattone sulla rivoluzione del Gioco”.
AZ: “Seguo il tuo discorso, eppure non riesco – pur riconoscendo limpidamente e con sincera ammirazione la straordinarietà della annata dei Rockets – a non vedere altrettanta (se non maggiore) “storicità” nelle prestazioni del giocatore più forte della sua generazione che a 33 anni ha probabilmente fatto la stagione migliore della sua carriera, giocando 37 minuti a partita (massimo nella lega) e trascinando alle Finals, letteralmente da solo, una squadra che senza di lui probabilmente sarebbe da lottery. Ecco, non capisco come si possa non premiare tutto questo sulla base del dato – comunque rilevante – che una squadra oggettivamente forte ha fatto una stagione al di sopra delle aspettative”.
AZ: “Dopodiché – e qui passo al mio secondo argomento – vi lancio un’altra provocazione. Sul significato del termine “valuable” si sono spesi fiumi di inchiostro e giornate intere a discutere, probabilmente senza mai riuscire davvero ad arrivare ad un punto di accordo comune. Ora, volendo assumere il termine nella sua connotazione quasi “economicistica”, vi pongo una domanda: avete una squadra da formare e uno spot ancora libero che al termine di questa stagione potete scegliere di occupare con uno tra LeBron e Harden, partendo da una situazione di “velo di ignoranza” che vi impedisce di conoscere età, eventuali acciacchi fisici passati, successi e riconoscimenti già ottenuti. C’è davvero qualcuno di voi due che, dopo questa annata, sceglie Harden sopra LeBron?
Ora, chiaramente si tratta di una considerazione assolutamente superficiale e non so nemmeno quanto rilevante nel computo finale: detto questo, se il termine “valuable” significa qualcosa all’interno di quell’acromino, non mi sembra nemmeno una riflessione troppo campata per aria”.
LF: “Argomento interessante ma assolutamente retorico nella misura in cui è impossibile, per noi tanto quanto per te, riuscire a sviluppare una riflessione del genere astraendoci dal considerare quanto, effettivamente, LeBron ha già fatto da quando ha 20 anni (e Harden no). Ed è chiaro che, non riuscendo a farlo, prendiamo tutti James senza pensarci, forse finanche sopra Jordan. Noi però parliamo di un premio assegnato su base stagionale e, a tal proposito, ritengo che LeBron sarebbe quasi unanimemente l’MVP se si tenesse conto anche dei Playoff. Considerando solo la regular season non lo credo“.
AZ: Non sono d’accordo ma vengo all’ultimo punto per lasciare poi spazio al contraddittorio. E il mio ultimo punto non riguarda il “cosa” ha fatto LeBron James quest’anno, ma il “come” lo ha fatto. Riguarda la spaventosa etica del lavoro, la predisposizione al sacrificio che portano un giocatore di 33 anni ad essere in quello stato di forma, a mettere in mostra la stagione migliore della sua carriera, ad essere in grado di giocare 42 minuti di media ai Playoff, a porsi – da giocatore più forte del mondo – alla costante e ossessiva ricerca di quel minuscolo margine di miglioramento che talvolta, a noi appassionati, sembra non esserci nemmeno più, o quel quid compensativo che dovrebbe “nascondere” un calo in alcuni lati del suo gioco che – personalmente – non ho ancora visto (penso, ad esempio, all’enorme lavoro fatto da un paio d’anni a questa parte per affinare il tiro da fuori). A differenza di quanto avviene con Harden, inoltre, Cleveland non sospinge LeBron. Ecco, tutto questo non si può non premiare.
“At this point in my career, I’m just trying to break the mold, break the narrative of guys in their 15th year”
LF: LeBron non è sorretto dai suoi perchè i Cavs sono squadra mediocre da quando Irving è andato via. Ed è andato via perché è difficile esprimersi al meglio con LBJ in squadra, se sei una superstar: è un effetto diretto di quel che James esercita sulle sue squadre.
JG: E all’interno della sua sfera di influenza rientra il potere di far investire tutti quei soldi nel momento sbagliato su rinnovi faraonici. Tanti soldi a Thompson, JR Smith e Shumpert: alla lunga rischi di pagare. Quest’anno hai pagato con una regular season da neanche 50 vittorie, a lungo andare rischi di pagare dovendo andare via da quel luogo.
AZ: Giustamente Irving è andato via perché, nel suo prime, non si sentiva di fare ciò che ha fatto Paul a Houston, con tutti i dovuti distinguo.
LF: E tra l’altro Irving poteva spendere la carta di aver già vinto. Paul ha dovuto accettare un compromesso per provare a vincere.
AZ: Secondo me può essere l’unico elemento a sfavore di LeBron. Svetta circondato da un ambiente disastrato che, per certi versi, ha creato lui.
LF: Sembra proprio il destino delle squadre di LeBron: è il giocatore che più di tutti fa vivere e morire le sue squadre con lui. Con LeBron si vive tanto, si vince tanto, ma poi sembra che inevitabilmente, con lui, si muoia.
AZ: su questo non posso controbattere.
Commento