4. MarShon Brooks
Che cosa hanno in comune i Memphis Grizzlies, l’Olimpia Milano e i Jiangsu Dragons? Semplicemente MarShon Brooks. La sua carriera è una sorta di giro del mondo in 80 giorni, con meno tappe e durato la bellezza di 7 anni: dalla NBA alla NBA, passando per Europa e Cina. Il suo ritorno in America porta la firma dei Memphis Grizzlies, che decidono di offrire a Brooks un 10 day contract. Al giramondo vengono concesse tre partite per convincere la dirigenza a rinnovargli il contratto: la sua risposta suona tipo “challenge accepted”.
Nella prima sfida contro i Blazers esplode nel quarto periodo e conduce i suoi ad un’insperata vittoria chiudendo con 21 punti e il 100% dall’arco. Nella seconda partita, con i Jazz, non arriva la vittoria ma arriva un’altra super performance: 24 punti con il 62% dal campo. La terza e ultima partita è quella della consacrazione: 25 punti, 7 assist e 53% dal campo. La sconcertante media di 23 punti con il 57% dal campo e con un surreale 66% dall’arco obbliga i Grizzlies a puntare un penny sul suo rilancio. Brooks ottiene la firma di un biennale e chiude la stagione con 20 punti di media e il 59% da 3 punti.
Lo scontro con i Pelicans, al di là della pesante sconfitta, è la partita che meglio racconta il nuovo Brooks: un giocatore capace di essere il primo violino offensivamente parlando, assistendo i compagni e macinando punti per la squadra.
A 29 anni suonati l’ex giocatore dei Celtics è riuscito a salire sull’ultimo treno per restare in NBA, ma una nuova cocente delusione potrebbe nascondersi dietro l’angolo. Sebbene Brooks si sia presentato nella lega con un altro atteggiamento e con una diversa maturità, il suo gioco offensivo denuncia ancora diverse imperfezioni. Difficile infatti pensare che la guardia dei Grizzlies possa continuare a tirare con queste percentuali anche l’anno prossimo, tanto più che addirittura il 73% delle sue triple giungono da situazioni di isolamento. Se vuole continuare a privilegiare il tiro dentro l’area – quasi il 70% dei suoi canestri tentati sono da 2 – è necessario che la sua efficienza in questa situazione migliori (46% da 2 contro 59% da 3). Il suo successo nella prossima stagione dipenderà molto dalla capacità di giocare off the ball e di prendere più tiri dall’arco in catch-and-shoot a discapito delle situazioni di isolamento.
La prima vittoria, con la firma del contratto, è già arrivata; adesso però viene il difficile. Brooks ha l’obbligo di non rivelarsi per l’ennesima volta un eterno incompiuto: di occasioni non ce ne saranno più.
5. E’Twaun Moore
L’avventura di E’Twaun Moore nel mondo della pallacanestro segue un percorso molto più lineare rispetto a quella di Brooks: trascurando una parentesi di 9 gare con indosso la divisa del Treviso – parentesi dovuta al lockout NBA nel 2011 – ci troviamo sempre e solo in NBA. Nonostante un eccellente ultimo anno al college, Moore viene chiamato solamente con la #55 dai Boston Celtics. I suoi primi 5 anni in NBA non sono esattamente da incorniciare: Moore vaga di squadra in squadra in cerca di una sua identità, senza riuscire a superare le 22 partenze in quintetto titolare.
La svolta arriva nella città del Jazz: dopo un primo anno altalenante, Moore riesce a conquistare un posto nel quintetto base di New Orleans per la stagione 2017/2018. L’improvviso cambio di rotta è dovuto alla straordinaria duttilità del giocatore. Moore è stato in grado di ritagliarsi uno spazio da titolare durante tutta la stagione e a prescindere dagli altri giocatori in campo. Durante il periodo Davis-Cousins, Moore aveva la funzione di rappresentare la principale alternativa dall’arco, dando un po’ di sfogo al gioco dei Pelicans basato quasi esclusivamente sullo strapotere dei due lunghi. Con l’arrivo di Mirotic e l’infortunio di Boogie, è stato in grado di aggiungere al suo repertorio continui tagli verso l’area e un maggior numero di conclusioni dal mid-range, il tutto senza ridurre il bottino realizzato a partita.
La forza dei Pellies, tralasciando per un momento l’evidente strapotere fisico e tecnico di Anthony Davis, sta nell’aver messo intorno al proprio uomo franchigia giocatori ordinati e disciplinati, in grado di rispettare la consegna. Moore è esattamente questo. Non è un giocatore da 25 punti ad allacciata di scarpe; è però un giocatore con la EFG% più alta di squadra, e con la TS% più alta dietro al solo Davis. È inoltre in grado di mettere a segno 12.5 punti a serata, pur avendo la usage più bassa tra tutti i 5 titolari, e rimane il miglior tiratore dall’arco dei Pelicans con un notevole 43%. L’utilità di Moore non si limita, tuttavia, al solo lato offensivo del campo. I Pelicans hanno trovato nel ventinovenne un’altra preziosa risorsa, oltre a Holiday e a Davis, in grado di risultare decisiva in entrambe le fasi.
Dietro ai due soliti noti, è proprio Moore il giocatore con il miglior Defensive Rating della squadra. A colpire è la naturalezza con cui Moore si è fatto carico di maggiori responsabilità difensive dopo l’arrivo di Mirotic: si passa da 106.7 punti concessi a partita a 98 dopo l’inserimento in quintetto dell’ex Bulls, mantenendo comunque una media di 13 punti segnati a partita. In un quintetto con nomi ben più noti del suo, Moore è riuscito a conquistare un ruolo-chiave grazie alla sua capacità di lavorare per il bene superiore della squadra.