4. Drazen Petrovic, #60, 1986
Una storia triste, un lutto che ha sconvolto un’intera nazione e tutti gli appassionati della pallacanestro, un giocatore indimenticabile che si è sempre guadagnato il rispetto dei suoi avversari: Drazen Petrovic.
Dopo aver letteralmente spadroneggiato in patria e in generale in Europa – citiamo, en passant, la partita da 112 punti nella lega jugoslava e i 62 punti segnati con la maglia del Madrid per vincere la Coppa delle Coppe – Petrovic decide che è ora di fare il salto di qualità. In mezzo ai tanti cambiamenti che hanno caratterizzato l’NBA, possiamo trovare almeno una costante: la diffidenza generica che aleggia intorno ai talenti provenienti dal Vecchio Continente. Petrovic viene selezionato solamente con la #60 (la #60, cercate di rendervi conto), dai Portland Trail Blazers, dove il ruolo di guardia è già egregiamente occupato da Clyde Drexler. A Portland il suo gioco basato su un grande individualismo non viene digerito, e il Mozart dei canestri viene spedito ai New Jersey Nets, dove la sua carriera svolta in modo definitivo. Nei due anni trascorsi nel New Jersey lascia un ricordo indimenticabile: una macchina da canestri, un realizzatore formidabile nelle cui mani il pallone è sempre leggero come una piuma.
Petrovic gira come una trottola impazzita per il campo finché non trova la four point play.
Il tragico incidente del 7 giugno 1993 ci ha privato della possibilità di continuare a rimanere a bocca aperta di fronte ai mille modi in cui Petrovic riusciva a fare un canestro. È stato il primo grande cestista europeo a sfondare in America, ed è stato inserito nella Naismith Basketball Hall of Fame nel 2002 e nella FIBA Hall of Fame nel 2007.
Quando vi capiterà di sentire ancora qualcuno sostenere che Isaiah Thomas è il migliore giocatore selezionato con la #60, limitatevi a ricordargli il nome di questo straordinario giocatore.
5. Emanuel Ginóbili, #57, 1999
Al tramonto del secondo millennio, gli Spurs sono riusciti a mettere le mani sull’argentino più forte di tutti i tempi (ci piace ricordare le sue origine marchigiane, perché tutti vorremmo aver dato i natali a questo signore, ma è sfortunatamente argentino): Emanuel “Manu” Ginóbili. Il fatto che poi l’ingresso ufficiale in NBA sia avvenuto solo nel 2002 è qualcosa che ha più a che fare con i dettagli della sua storia personale, e che non altera in alcun modo il percorso meraviglioso compiuto dal nativo di Bahia Blanca con la divisa degli Spurs.
Quattro anelli conquistati in 16 anni di onorato servizio sotto la guida dell’unico e solo Gregg Popovich sono il giusto coronamento per l’impegno e la passione sempre mostrata sul campo.
Quello che stoppa Harden e regala agli Spurs la vittoria ha 39 anni, è bene ricordarlo.
Ginóbili è – e ci piace parlare al presente di un giocatore che, ancora in attività a 40 anni, sa sempre come farci emozionare – un giocatore dalla straordinaria intelligenza cestitica, capace di prendere sempre la decisione migliore al momento più opportuno. Una guardia dotata di un altruismo e di una leadership fuori dal comune, che, pur avendo vinto “solo” un premio come sesto uomo dell’anno e avendo collezionato due convocazioni all’All-Star Game, ha lasciato un’enorme impronta nell’NBA degli anni ’00.
Con questa chiamata gli Spurs si sono assicurati un tassello fondamentale, che gli ha permesso di imporre il proprio dominio sulla lega per quasi 20 anni, di creare una cultura sportiva vincente ammirata da ogni appassionato di pallacanestro che si rispetti. Ancora una volta, tutti coloro che hanno dubitato del talento di un giocatore estraneo al mondo sportivo americano e maturato e cresciuto, cestisticamente parlando, in Italia, hanno dovuto ricredersi.
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