Nella settimana in cui la Hall of Fame si prepara a omaggiare nuove leggende in quel di Springfield, Julius Erving ha incontrato Nancy Lieberman. Insieme hanno ripercorso le tappe di un’amicizia significativa e duratura che continua ancor oggi – pur da ‘avversari’ – nel Big 3, lega estiva di basket 3vs3.
- All’età di 15 anni Nancy partecipò al camp di ‘Dr. J’, avvicinandosi così alla pallacanestro: “Mi ispirasti. Non hai solo giocato, hai cambiato il corso della sua storia e io volevo fare lo stesso, essere una game-changer. Una personalità unica, ricorda Erving: “Avevi un’attitudine incredibile, una disposizione facilmente riconoscibile.”
- Tutta la famiglia ha mantenuto una relazione speciale con l’ex Sixers: “Mia madre ti adora. Le mandavi lettere ogni Natale. Era una di quelle ignare casalinghe degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Nella sua visione delle cose, ci si sposava e poi era il marito a mantenerti. Inizialmente non capiva perché io giocassi a football, baseball e infine a pallacanestro.”
- La scelta le attirò non poche antipatie: “All’interno della mia comunità, molti giudicavano: ‘Qualcosa non va con tua figlia?’ – chiedevano a mia madre – ‘Perché sta per strada […] ed esce con gente di colore?’ Nessuno prendeva in considerazione sentimenti della sottoscritta, nessuno prendeva in considerazione il fatto che mi sentissi sicura in quell’ambiente. I miei si stavano separando e c’erano molte occasioni di conflitto in casa. Avevo bisogno della pallacanestro e dello sport più di quanto loro avessero bisogno di me. Tu, [nel frattempo], giocavi e facevi il tuo, senza sapere come stavi influenzando la mia vita, in fatto di autostima, fiducia, decision-making e quant’altro.”
- Ai tempi del liceo, Lieberman sembrava destinata al baseball: “Riuscivo meglio rispetto a tutti gli altri sport. Avrei potuto giocare all’high school con la squadra maschile, il PAL baseball team.”
- A quel punto, proprio sul più bello, arrivò la doccia fredda: “Ci stavamo preparando per la prima partita nel 1973-74 e Coach Smitty mi prese da parte per dirmi: ‘Nancy non puoi giocare, non ti assicureranno perché sei una ragazza.‘ La ferita è ancora aperta: “Come fai a capire cosa significa quando hai 13 o 14 anni? Ero così delusa… Lì vicino, a Bayswater, nel Queens, c’era una YMCA. Entrai e dissi: “Vorrei giocare con la squadra maschile di pallacanestro, me lo concedete o no?” Risposero affermativamente e mi fu d’ aiuto.”
- Racconta i primi passi mossi nei playground simbolo di NYC: “Poco tempo prima avevo cominciato a frequentare Harlem e Rucker Park […]. Prendevo due treni da sola, con maglietta e giacca. Lanciavo occhiate alla gente sul treno – fallo tu a loro prima che lo facciano a te, come si suol dire, no? Arrivavo a Rucker e mi presentavo tutta pelle e ossa, con i capelli rossi.”
- L’impatto con i maschietti al campetto fu piuttosto rude. Se ne uscivano con: “Ragazzina, ti sei persa?” Nancy, senza alcun timore, replicava: “Io no, sono qui e voglio giocare, voi?’”Prosegue: “Mi soprannominarono ‘Fire’ prima di ‘Lady Magic’ perché ero come una palla di fuoco.”
- Ha scelto il #10 in omaggio a Walt Frazier: “I Knicks stavano per vincere il titolo. Adoravo Willis Reed, il capitano. Tiravo di sinistro come lui e volevo giocare come Frazier, che per l’appunto indossava il 10.”
- Nancy Lieberman si è confrontata sin da giovanissima con le luci della ribalta su palcoscenici internazionali: “Nel 1975, a 16 anni, provai con la rappresentativa per i Giochi Panamericani. Entrai in squadra e c’erano Pat Summit e [Ann] Meyers, quattro o cinque anni più vecchie di me. Vincemmo la medaglia d’oro e l’anno dopo tornai al tuo camp e te la mostrai. Poi andai alle selezioni per le Olimpiadi del 1976 a Montreal, da senior all’high school. Ci qualificammo e fu la prima partecipazione per il basket femminile a livello olimpico. Dovevamo vedercela con la Russia, imbattuta dal 1958. In quella squadra militavano Uļjana Semjonova, 2 metri e 15, e la madre di Alex Ovechkina, Tatyana, giocava nel ruolo di point guard. Noi vincemmo l’argento, ma giocare contro delle professioniste quando hai 17 anni fa si che [ti mostrino] cosa comporta il passo successivo, mentalmente, fisicamente, a livello di dedizione generale nei confronti della competizione.”
- Riflessioni a cinque cerchi: “L’America metteva in mostra i suoi più fini e giovani talenti. Eravamo atleti puramente amatoriali, non pagati. Siamo arrivati a un punto critico nel 1988, a Seul. Io ero impegnata in TV, John Thompson allenava la squadra maschile [di pallacanestro]. Nel corso della manifestazione la squadra ebbe problemi perché doveva fronteggiare i pro di Spagna e Argentina, tra le altre.”
- Dalle difficoltà di cui sopra scaturì, più o meno direttamente, il leggendario Dream Team di Barcellona ’92: “Fummo tra quelli che in sede di congresso FIBA votarono a favore dell’inclusione di atleti professionisti. Sapevamo che partendo da quei presupposti — con i giocatori NBA impegnati — avremmo insegnato molto alle altre nazioni.”
- La carriera di Nancy è un esempio di successo e lungimiranza: “Nella stagione d’esordio della WNBA, a 39 anni, ero la giocatrice più anziana in assoluto. Adoravo l’idea di vestire quella maglia e portare quel numero e quel cognome sulla schiena perché desideravo che mio figlio, che all’epoca aveva 3 anni, sapesse cosa era stata in grado di fare la sua mamma. Tornai più per la mia famiglia che per me stessa. Fu una decisione molto personale.”
- Lieberman, infatti, giocò una partita per le Detroit Shock all’età di 50 anni: “Nel 2008, ne parlammo con Bill Laimbeer [l’allenatore, ndr]. Ero impegnata in un evento dimostrativo per ESPN a Washington in occasione dell’All-Star Game e Bill disse: “Giochi ancora?” Ci tenni a precisare che sì, giochicchiavo, ma aggiunsi che avrei compiuto 50 anni di lì a poco, il 1° luglio. ‘Facciamo la storia l’anno prossimo, giochiamo a 50 anni’, ribatté lui. L’idea mi riempiva di entusiasmo perché nutrivo estremo rispetto per atleti e giocatori e significava dare a mio figlio un’altra opportunità per vedermi all’opera.”
- Prima di acconsentire, chiamò due amici e confidenti stretti come Deion Sanders e Muhammad Ali per chiedere il loro parere. La risposta di entrambi fu: “Se lo farai, assicurati almeno di andare in TV nazionale.”
- Una settimana dopo tornò dietro al microfono per una partita dei Lakers al fianco di Jeff Van Gundy e Mark Jackson. Un’intervista con Kobe la mise alla prova. Il #24 disse: “Aspetta, ho visto quella partita con mia moglie e le mie figlie, voglio sapere perché l’hai fatto.” Rispose in tutta tranquillità: “Credo che abbiamo molto in comune. Pensiamo entrambi di potercela fare e non abbiamo paura.” Mamba Mentality.
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